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1. Vivere tra lupi e agire come un lupo

Mi poggiai una mano sul petto, cercando di rallentare i battiti frenetici del mio cuore.

Il respiro era cortissimo e avevo il corpo madido di sudore. C'era mancato poco, davvero molto poco.

Solo qualche ora prima ero entrata in una taverna per mangiare un pasto caldo, ma quando i Custodi avevano fatto irruzione avevo capito che quella sarebbe stata una giornataccia.

I Custodi erano le guardie di Victor, il sovrano che governava il territorio in cui vivevo io. Quella era una delle rarissime volte in cui mi ero trovata tanto vicina ad un Quarto - ovvero una squadra di quattro Custodi - da poter quasi ricordare i tratti del loro viso.

Non avevo mai avuto paura dei Custodi, ma le cose erano cambiate dalla morte di mia madre: sin da piccola, ogni volta che al mercato li incontravamo, lei tendeva a non dare nell'occhio per poi sparire mentre le guardie non guardavano, e io non avevo mai capito per davvero il motivo della sua eccessiva paura. Tutti temevano Lord Victor, chi più e chi meno, soprattutto perché periodicamente, il Maestro, uno dei tanti modi in cui si faceva chiamare Victor, inviava squadre di Custodi per raccogliere un discreto gruppo di persone. Le spiegazioni non erano dovute e chi azzardava qualche domanda in più o provava a fare resistenza, veniva portato via con la forza dopo aver ricevuto una lezione a suon di qualche frustata o bastonata. Alcuni tornavano dopo poco nelle rispettive case, mentre gli altri restavano nella fortezza di Victor. Per i primi tutto ritornava alla normalità, anche se c'era qualcosa di diverso in loro, erano più strani, in qualche modo: ad esempio, il mio vecchio vicino di casa a volte sembrava essere due persone diverse, assumendo atteggiamenti completamente contrastanti tra loro, contraddicendo le proprie azioni con altre del tutto opposte. Oppure la signora Lara, la panettiera del villaggio, che dimenticava le cose che faceva o che diceva.

Per quanto riguardava coloro che non facevano ritorno, invece, c'era chi affermava che lavorassero e vivessero a palazzo, ma c'era anche chi sosteneva che venissero torturati e poi uccisi, e fatti bruciare sulle estremità delle torri della dimora di Victor. Sapevo che erano solo stupide voci di popolo, ma nonostante questo - in punto di morte - mia madre mi aveva fatto promettere di stare quanto più lontana fosse possibile da tutto quello che riguardava il sovrano delle nostre terre. Gliel'avevo promesso e cercavo ogni giorno di mantenere fede alla parola data, e proprio per quel motivo nella taverna avevo alzato il cappuccio scuro della mia giacca ed ero rimasta in disparte ad aspettare che fossero distratti per sgattaiolare via. Ma come avevo presupposto, quella era una giornataccia.

Un Custode aveva poggiato la mano sulla mia spalla e mi aveva strappato il cappuccio dalla testa. Non ero andata nel panico, sopravvivevo sola da cinque mesi ed ero diventata più grintosa di quanto avessi mai potuto immaginare, così gli avevo distrutto il piatto d'argilla sulla testa e l'avevo spinto tanto forte - e con moltissima fatica, considerando la sua stazza - da sbatterlo contro la credenza, coinvolgendo anche un secondo Custode nella traiettoria.

Il mio gesto aveva scatenato la reazione degli altri prigionieri che avevano iniziato a scagliarsi contro i Custodi. Avevo sfoggiato un sorrisetto soddisfatto, dopodiché me l'ero data a gambe levate: era stato facile poiché prevedibile, ma proprio quando mi ero convinta di esser riuscita a seminarli, mi ero accorta che due di loro mi stavano alle calcagna, spronando i loro destrieri ad avanzare. Avevo serrato i denti, imprecando silenziosamente, e avevo cominciato a correre.

Mi ero diretta nella parte più fitta della Foresta di Avorsel così da distanziarmi abbastanza da far perdere le mie tracce. Alcuni passi erano difficilmente attraversabili a cavallo, quindi avrebbero dovuto seguirmi a piedi e, in quel modo, li avrei rallentati; non conoscevano la foresta come la conoscevo io: la foresta era la mia casa. Ero riuscita a liberarmi di quelle guardie con gran fatica, ma ce l'avevo fatta. Erano stati davvero troppo vicini questa volta, pensai, rimproverando me stessa per averlo permesso.

Poggiai una mano sul fusto di un pino e mi guardai intorno, mentre riprendevo fiato. Dovevo essere sicura di non essere braccata per dirigermi a casa, la quale era un po' ovunque; per casa intendevo luoghi occasionali in cui restavo per un po'.

Dopo la morte della mamma non ero più riuscita a stare da sola nella nostra dimora, così mi ero spostata in un villaggio vicino risiedendo in una locanda. Ma poi, quando mi ero resa conto che il poco denaro che avevo lo stavo sperperando per vivere lì, avevo deciso di viaggiare, per così dire, e avevo scoperto che vivere tra vegetazione o in qualche cava di pietra non era poi tanto male come si poteva pensare. Alla fin fine, nel periodo estivo, era anche piacevole dormire all'aria aperta. Era l'inverno che mi preoccupava. A mio vantaggio, però, avevo ancora qualche mese per trovare una sistemazione più comoda.

Una volta sicura di essere nella più totale solitudine, mi diressi verso la mia attuale casa, ovvero una sequoia grande e possente, dal diametro da dover essere aggirato facendo almeno venti passi e dalla base cava, utilissima per poter ripararsi da qualsiasi tipo di intemperie estive. Inoltre, di alberi come quelli la Foresta di Avorsel ne era piena, quindi era da considerare un riparo sicuro al cinquanta per cento delle possibilità. Lì, infatti, ci tenevo la maggior parte delle mie cose, come il mio insperabile arco con frecce. Ero costretta a non portarli con me qualche volta, poiché il rischio di poter attirare l'attenzione era alto: nel mondo in cui vivevo io, infatti, non essere parte dell'Ordine dei Custodi o dei cacciatori reali - a loro spettava il compito di distribuire carne alla popolazione, che alla fine era una miseria - e avere un'arma, attirava sempre l'attenzione, e non in modo piacevole. Ovviamente c'erano un'infinità di cacciatori clandestini che si procuravano carne da soli, insoddisfatti delle razioni che spettavano loro; questo scatenava sempre più malcontento nei riguardi del Maestro, e sempre più spietata era la punizione per chi si faceva beccare.

Per riconoscere il percorso verso la mia dimora, avevo segnato qualche albero qua e là in modo impercettibile, così da poterlo riconoscere soltanto io; dopo un po' - non sapevo se fosse perché l'avevo, ormai, imparato a memoria o per altro - non avevo più usufruito di quell'aiuto. La foresta era diventata giorno per giorno la mia vera casa, all'interno della quale riuscivo a sentirmi protetta come non era mai successo prima.

Arrivata al grande albero, mi affrettai a raccogliere il mio arco, seccata dell'andamento della giornata; per quel giorno avrei dovuto guadagnarmelo da sola il cibo, come spesso capitava. Così, sbuffando, avanzai tra la vegetazione, mentre le scarpe formavano impronte accennate sul suolo morbido.

Odiavo cacciare con tutte le mie forze, visto l'amore sconfinato per gli animali, quindi soffrivo fisicamente a dover uccidere per sfamarmi. Così - anche se il senso di colpa non si affievoliva - ogni volta che un animale moriva per mano mia pregavo la Grande Madre per il suo spirito. Non pregavo affatto per avere perdono, ma pregavo affinché Lei potesse raccogliere con sé l'anima della povera bestia e liberarla da tutte le sofferenze terrene a cui era stata costretta.

Durante la caccia era molto importante ascoltare. Ogni minimo rumore, come un fruscio tra le foglie poteva determinare lo svolgimento della giornata. Se non si prestava la giusta attenzione, la preda ti scappava dalle mani senza nemmeno lasciare che te ne accorgessi.

Io me la cavavo abbastanza bene ad ascoltare, in fin dei conti stare da sola portava i suoi vantaggi, quando i pensieri non facevano troppo rumore. Mi acquattai tra l'erba alta della radura e restai in silenzio ad aspettare. Miravo a qualcosa di piccolo, nulla di troppo grande e difficile da trasportare. Delle volte, quando - sempre in casi estremi - cacciavo un Potamus (lontanissimo parente dei cinghiali ormai estinti da più di un secolo, ma molto più leggero, innocuo e facile da uccidere), che pesava intorno ai trenta chilogrammi, prendevo solo una piccola parte sufficiente per qualche giorno, mentre il resto lo ripartivo tra la popolazione di qualche villaggio vicino. Pensavo che se davvero ero costretta ad uccidere per sopravvivere, aiutare chi aveva più bisogno di me non era poi una cattiva idea.

Un movimento impercettibile catturò la mia attenzione, e sfilai piano dalla faretra una freccia, posizionandola sulla corda.

Tre lepri comparvero su una roccia e, attente, si guardavano intorno, incuranti del fatto che qualcuno le stesse stanando. Tesi l'arco nel modo più silenzioso possibile, lasciando che l'impennaggio della freccia mi sfiorasse la guancia, e mirai. Puntai quella più grossa così da poter avere del cibo anche per il giorno seguente e, dopo aver recitato un breve rituale alla Grande Madre, scoccai la freccia in un movimento netto. Quest'ultima si andò a piantare nel lato sinistro dell'animale, mettendo in fuga le altre due in balzo agile. Mi alzai in piedi per andare a raccogliere la mia cena e quando estrassi la freccia dal corpo morto della creatura, cercando di mettere da parte il sempre presente rimorso, un tuono rimbombò nell'aria, cogliendomi impreparata e spaventandomi.

Presa dallo scappare dalle guardie e poi dalla caccia, non mi ero nemmeno accorta che il cielo sopra la mia testa si fosse riempito di grosse nuvole grigie.

Tirai su il cappuccio, infilai la lepre nel sacco legato alla mia vita e tornai indietro sul sentiero, ripercorrendo il percorso iniziale al contrario. Cominciò a piovere di lì a poco, ma per mia fortuna la chioma fitta degli alberi mi protesse dalla gran parte dell'acqua che continuava a cadere, incessante.

Non sapevo se fosse per il tempaccio o per la giornata faticosa, ma ero inquieta: una specie di peso mi opprimeva, una strana sensazione mi prendeva alla bocca dello stomaco, a cui non riuscivo a dare una spiegazione. Forse era per il timore di essere ancora inseguita dal Quarto? Era passato un bel po' di tempo, continuare ad essere tanto preoccupata non serviva, e in più la foresta era immensa; se anche fossero riusciti a trovarmi, ci avrebbero impiegato delle ore. Mi chiesi se fosse il caso di cambiare rifugio, facendomi travolgere da un impeto d'ansia.

Avevo la testa colma di pensieri quando avvertii che qualcosa non andava, e poi un lamento straziante riecheggiò nell'aria. Dal luogo in cui cacciavo di solito alla mia tana, il suolo si alzava leggermente, su un'altura; così seguii la scia dei gemiti e delle brevi grida, e una volta trovato un punto d'osservazione che mi permettesse di non essere scoperta, mi stesi sul terreno umido e strisciai in avanti. La terra bagnata mi si appiccicò sui vestiti, imbrattandoli, ma ero troppo attenta a ciò che stava succedendo per preoccuparmene.

Si trattava di un villaggio in cui non ero mai stata, da quel che ricordavo, che faceva da spettatore silente ad una scena terribile: vi erano almeno due Quarti che puntavano le spade verso una fila di persone inginocchiate sul terreno.

In un primo momento, lasciando la collera divampare in me, avrei voluto intervenire, fare qualcosa, agire per fermare qualsiasi cosa stesse avvenendo, ma sapevo che sarebbe stato inutile. I Custodi erano dei cani rabbiosi, attaccavano senza pietà e non si fermavano davanti a nulla, neanche di fronte ad anziani o bambini. Strinsi i pugni, impotente; non mi piaceva starmene con le mani in mano a guardare mentre una persona indifesa veniva minacciata, ma non ero nemmeno capace di distogliere lo sguardo. Dovevo capire cosa stesse succedendo.

Non riuscivo a comprendere per quale motivo ci fossero donne che piangevano, ma poi, spostando lo sguardo, mi accorsi di due corpi inermi, distesi a faccia in giù ed immersi in una pozza di sangue, poco lontano da dove si trovavano tutti.

La pioggia continuava a cadere dal cielo come lacrime versate per quei morti, suscitando in me un'indignazione tale da farmi digrignare i denti per quella violenza ingiusta. Che cosa avevano mai fatto quelle povere persone per perdere la vita in quel modo?

«Sta' zitta!» ringhiò un Custode ad una donna anziana, voltandosi poi e avvicinandosi al suo compagno d'armi. Mi sporsi, evitando di fare rumore, ma non riuscii lo stesso a vedere cosa stessero facendo. L'uomo si rivolse nuovamente al gruppo di persone che aveva di fronte a sé e alzò in alto uno strano oggetto, molto simile ad una lanterna, completamente nero, nero come la notte e il buio; aveva qualcosa di sinistro e pareva esser di un materiale abbastanza pesante, anche se il Custode nell'uniforme nera e azzurra non sembrava fare alcuno sforzo per sorreggerlo.

«Questo oggetto servirà a capire se e quale posto potrete prendere a palazzo, e quanto potrete contribuire al servizio del Maestro Victor, al suo disegno», affermò, ma i volti di coloro che ascoltavano non prestavano affatto attenzione, erano solo terrorizzati da cosa potesse succedere loro.

Il Custode si avvicinò ad un ragazzo e posizionò la strana lanterna proprio davanti a lui. Il giovane fece per ritrarsi ma fu subito bloccato da altre due guardie. Allungai il collo, impaziente e leggermente confusa su ciò che stava accadendo davanti ai miei occhi.

L'oggetto tremò per qualche secondo, poi i suoi quattro lati si schiusero in uno scatto, mostrando una strana luce bianca, che sembrava essere quasi viva, e che illuminò il volto del ragazzo. Aggrottai le sopracciglia, incredula. Che fosse soltanto uno strano effetto ottico dovuto alla lontananza? La guardia parlò ancora ma non fui capace di captare quanto aveva detto, ma riuscii a vedere molto bene il giovane che alzava una mano e la portava verso il bagliore di luce, intimorito.

Fu in quel momento che accadde qualcosa di davvero molto strano.

La luce iniziò ad espandersi in scie luminose che accarezzavano la pelle del ragazzo, attorcigliandosi sinuose intorno alle sue braccia, circondando il busto e poi arrivando alla testa. Quelle scie così apparentemente belle, dopo un attimo di esitazione, gli penetrarono brutalmente nelle tempie, mentre lui cominciava ad urlare in un modo disumano. Mi portai una mano alla bocca e arrancai per mettermi in piedi e andare via, ma non riuscii a farlo finché il ragazzo non si zittì, crollando a terra. I fasci bianchi diventarono neri e tornarono al loro posto come se nulla fosse successo.

Sconvolta più che mai, e con le lacrime pungenti che mi riempivano gli occhi, indietreggiai, incespicando nei miei stessi passi e scappando via da quella scena. Niente mi avrebbe fatto dimenticare i fori alle tempie del giovane, dai quali fuoriuscivano piccoli fiotti di sangue, come se quella strana energia l'avesse ucciso dall'interno, distruggendogli il cervello.

Un lampo squarciò il cielo e io sussultai. Dovevo calmarmi, raccogliere i pensieri disordinati e scordarmi di quello che avevo visto. Ma come potevo? Che diavoleria era quella? Non sarebbe stata mica... No, non poteva assolutamente essere quello a cui stavo pensando. La magia non esisteva, era solo un punto focale di vecchi racconti per affascinare i bambini. Poi però le parole di mia madre mi tornarono alla mente e mi inquietarono di più, aggiungendo un carico non indifferente all'agitazione che avevo addosso: "Vedi, bambina mia, la magia esiste. E' in tutte le cose che ci circondano. Come pensi che un piccolo bruco possa trasformarsi in farfalla? Anche quella è un tipo di magia, essa è in tutti noi, anche dentro di te e può manifestarsi in modi così differenti. Quelli che la rifiutano dicendo che sia il male del mondo non la capiscono, e ne sono spaventati. Perché si ha paura solo di quello che non si può controllare."

Chiusi gli occhi per un attimo, sopraffatta dalle emozioni e dalle sensazioni contrastanti. Quella era magia? Esisteva per davvero? Per la prima volta dopo tanto tempo, mi sentii sola e incapace di ottenere le risposte che cercavo senza l'aiuto di qualcuno. Mi mancava mia madre, in quel momento più che mai. E probabilmente lei aveva ragione sulla magia, ma si sbagliava sui suoi effetti; quella magia aveva appena ucciso un ragazzo e probabilmente avrebbe ucciso altra gente e tutti ne erano spaventati semplicemente perché faceva paura. Perché poteva fare del male.

Quella sera, dopo essermi cambiata e aver messo a cuocere la lepre sul fuoco fievole, sentii il malumore in ogni fibra del mio corpo, i dubbi che mi attanagliavano la mente. Mi era impossibile smettere di pensare a quello che i miei occhi avevano visto, agli avvenimenti incredibili a cui avevo assistito.

Avevo percorso - mio malgrado - tutte le scene di quegli attimi terribili per capirci qualcosa in più. Per prima cosa, avrei voluto essere più vicina per analizzare quel misterioso oggetto, e avrei voluto essere anche più competente per capire a cosa servisse, oltre che a uccidere le persone. E se fosse stato solo quello il suo scopo, ciò che mi chiedevo era il perché. Il Custode aveva parlato del servizio al cospetto del Maestro Victor, aveva menzionato un disegno, un progetto che il sovrano aveva. Ma che ruolo poteva avere un oggetto tanto infernale in quella faccenda? Perché mai Victor avrebbe dovuto servirsi di quell'aggeggio per uccidere? Lui aveva un esercito al suo cospetto, soldati addestrati ed assassini esperti, e di certo non aveva bisogno di incutere timori al proprio popolo.

Quello che si diceva su Lord Victor divideva la popolazione tra chi era con lui, chi ne aveva profondamente paura e chi lo odiava. Non mi ero mai schierata con nessuna di quelle ideologie ma potevo capire le motivazioni di tutti e tre i gruppi.

Capivo quelli che lo sostenevano perché dopo la morte di suo padre, Lord Pharkol Evron, c'era stato un lungo periodo di buio, con violente rivolte dei contadini che combattevano per la fame e per i loro diritti. Così, dopo quasi un anno, Victor - una volta raggiunta l'età adatta per governare - aveva preso le redini della situazione e aveva salvato il territorio dal rischio di un nuovo conflitto. Capivo chi lo temeva perché, per mantenere la pace in quel brutto periodo, era stato molto duro o almeno così raccontavano gli insegnanti ai bambini per educarli alla storia del nostro popolo. Ma la verità era che Victor aveva utilizzato vera e propria brutalità nelle sue azioni: puniva i colpevoli impalando le loro teste e mettendole in bella mostra nei diversi punti dei villaggi d'appartenenza. E se i colpevoli venivano coperti dai propri compatrioti, lui puniva anche questi ultimi. Alla fine, tutto ciò che lui aveva fatto per evitare degli scontri aveva generato solo più violenza, facendo piombare il Terzo Humus in una guerra civile che provò molto le persone. Io c'ero, e ricordavo molto bene il dolore che si provava nel vedere la testa mozzata di un tuo caro davanti casa propria. E come me, tutti coloro che lo odiavano, e che comprendevo maggiormente.

Mio padre era uno di quelli a cui non andavano giù le atrocità di Victor e così aveva provato a porvi fine, ma ne aveva pagato il prezzo con la vita. Avevo sette anni quando era accaduto: dopo tanto tempo passato a nascondersi era stato trovato e giustiziato. Io e mia madre eravamo state sostenute per un po' dai nostri vicini, ma quelli che erano con Victor ci disprezzavano, ci consideravano traditrici della patria e della generosità del nostro Maestro, proprio come mio padre. Per evitare di esser prese di mira, eravamo state obbligate ad andare via, a trasferirci in un altro villaggio e trovare un lavoro. Poi lei si era ammalata e gli ultimi cinque anni erano stati una continua e totale agonia. Purtroppo o per fortuna ero cresciuta troppo in fretta, avevo dovuto affrontare la perdita di mio padre e mi ero occupata di mia madre, accudendola, ed ero stata costretta a vederla consumarsi tra le mie braccia, ero stata costretta a sopportare la sua morte. In un certo senso, era stata la cosa migliore per lei. Non volevo più guardarla soffrire.

Mentre ascoltavo lo scoppiettio del fuoco e mangiavo sovrappensiero piccoli pezzi di coniglio, la mia mente vagò, spostandosi dalla mia vecchia vita ad oggi.

Mi sentivo davvero malissimo per non esser potuta intervenire in soccorso di quel ragazzo, e avrei voluto con tutte le mie forze farla pagare a quei bastardi.

Forse mentivo a me stessa quando affermavo che ero imparziale per quanto riguardava Victor, ma come si poteva accettare ancora quella situazione? Un intero popolo era ridotto alla mercé di un regnante troppo pieno di sé per guardare oltre il proprio naso. Era riuscito a seminare paura in tutto il territorio, ottenendo addirittura dei consensi che si erano conservati nel tempo. Era ormai troppo tardi per opporsi e l'unica cosa che restava da fare era tentare di sottrarsi ai Custodi. Nascondendosi, sopravvivendo. Ma quella non era vita.

Mi passò del tutto la fame: ero amareggiata e frustrata perché non c'erano risposte ai miei dubbi e se anche ci fossero state, come avrebbe mai potuto una singola persona fronteggiare qualcuno di così potente? Era ingiusto e nessuno poteva fare alcunché per fermare qualsiasi cosa avesse intenzione di fare.

Adagiai il resto del coniglio in un fagotto, dopodiché entrai nella cavità e mi distesi sulla coperta, appallottolando il sacco di iuta a mo' di cuscino. Aveva smesso di piovere, ma nella Foresta di Avorsel anche una semplice giornata piovosa faceva calare un freddo non indifferente che poi si dissolveva con il sorgere del sole, quindi, sia per dare un po' di calore al mio corpo che per una questione di sicurezza dopo la lunga giornata che avevo avuto, avrei dormito riparata dall'immensa sequoia.

L'impresa si rivelò più ardua del previsto data la mia mancanza di sonno e il vagare dei miei pensieri, ma alla fine, sopraffatta dalla stanchezza, ero crollata senza nemmeno accorgermene. Riposai come un ghiro per un bel po', ma poi qualcosa mi fece aprire gli occhi di scatto.

Fu un insieme di cose, a dire la verità. Sia il ritorno di quella sensazione che avevo provato quel pomeriggio, come se ci fosse qualcosa che non andava intorno a me, che uno strano silenzio tutt'intorno. Troppo silenzio.

Mi alzai e uscii, arco e frecce alla mano. Qualunque cosa avesse provato ad avvicinarsi avrebbe dovuto conoscere prima le mie frecce, e non sarebbe stato piacevole.

Ma una mano mi schiacciò la bocca e un'altra afferrò le mie braccia, strappandomi dalle mani le mie armi di difesa. Provai a divincolarmi ma quando un uomo, un Custode, si avvicinò a me, io lo riconobbi. Era quello che avevo colpito alla taverna, e non pareva essere felice di rivedermi.

Poi qualcosa mi colpì alla tempia, provocandomi un forte dolore che durò per un secondo, facendomi sprofondare in un immenso oceano di oscurità.

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