Urla Nella Notte
Sto fissando il soffitto da quella che mi sembra un'eternità.
Ormai l'insonnia è diventata una conoscente stretta, un'amante tutt'altro che piacevole che mi fa compagnia quando sono sotto le lenzuola, un artiglio gelido e affilato che si insinua sotto le costole, mi stritola cuore e polmoni e riduce il mio stomaco a una poltiglia informe. L'insonnia non è come le farfalle nel ventre che provano gli adolescenti alla loro prima cotta, ma più uno sciame di vespe impazzite che morde e punge contro le pareti del tuo io. E questa è la compagnia notturna che viene a farmi visita da mesi ogni volta che provo a dormire.
È risaputo che, in momenti come questo, in cui le ore scorrono e il tempo si porta avanti in una lenta e pesante agonia, la mente comincia a vagare a briglia sciolta, portando alla luce tutto ciò che noi avremmo voluto restasse sepolto e che alimenta la nostra insonnia. Quest'ultima se ne
nutre, è affamata di ciò, e noi, pur non desiderandolo, siamo costretti a
darglielo, a sfamarla. Essa è nostra, è fatta di noi, e perciò da noi trae la sua forza.
Le carte per il divorzio. Oh, loro di certo sono al primo posto, il piatto
preferito della mia Insonnia, il primo tormento che mi accompagnerà
finché, per la disperazione, non riuscirò ad addormentarmi poco prima dell'alba.
Poi ci sono i figli. Sangue del tuo sangue, sono tuoi e poi, a un tratto, se sei fortunato riesci a vederli per due ore una volta alla settimana, perché
lei, la dolcissima e vipera Carmela, dice che non sei neppure in grado di
badare a te stesso, o a un pesciolino rosso, figuriamoci a tre bambini. Ma
con i pagamenti sempre puntuale, Raffaele. Guai a sbagliare. Ehi, Raffale? Dove cavolo sono i miei cinquecento euro di questo mese? Spiacente, caro Raffaele, il bambino ha la febbre. Scusa, ma stasera c'è una festa di compleanno a cui non possono mancare. Raff, hai riportato i bambini dieci minuti in ritardo, non è così che ha deciso il giudice E TU NON PUOI CONTINUARE A FARE DI TESTA TUA A COMPORTARTI COME TI PARE A NON RIUSCIRE A RISPETTARE PER UNA VOLTA UN IMPEGNO. Eh sì,
attenzione a Carmela, maneggiarla con cautela. Per fortuna non è riuscita ad allattare nessuno dei nostri figli e loro non sono finiti a ciucciare dal
seno di una serpe.
E mia madre, che mi ha lasciato questo piccolo appartamento da ormai un mese, non vuole soldi per l'affitto, e il massimo che si permette di chiedermi è di accompagnarla con la mia auto a fare la spesa, mentre mi guarda preoccupata dal fatto che stia buttando la mia vita. E forse è così.
Del resto, ho spaccato una bottiglia di vetro sulla testa di un uomo fuori
da un locale. Sono fortunato a non essere in prigione.
Con le mani mi frego gli occhi stanchi, sentendoli bruciare di più, gonfi,
come se potessero cadere da un momento all'altro fuori dalla cavità
oculare. Mi alzo, mi verso un bicchiere d'acqua, resistendo all'impulso di far scendere lungo la mia gola qualcosa di più forte, e me ne torno a letto, conscio che questo sia soltanto l'inizio di una lunga notte.
La mente riprende la sua folle corsa e io mi perdo in un vortice di pensieri,
sperando che uno di loro sia quello giusto e si dimostri il treno che mi
porterà finalmente nel Limbo a cui auspico. Ancora una volta, Morfeo
sembra essersi dimenticato di me.
Passa del tempo e comincio a credere che forse stanotte, dopo tanto tempo, mi sarà concesso di dormire un po' di più di un'ora scarsa. Forse, una delle strade che il mio subconscio ha scelto di intraprendere è quella giusta e io riuscirò a prendere sonno. Sento le palpebre farsi più pesanti, il respiro rallentare, il peso su di me farsi più leggero. Comincio a scivolare via...
... e un urlo agghiacciante spezza la quiete della notte.
Sento quel flusso di pace che mi stava accompagnando in un limbo inconsistente privo di pensieri prosciugarsi e il mio contatto con quella parte che tanto avevo agognato sparire. I miei occhi si spalancano, l'ansia ricomincia a travolgermi, e per un attimo non capisco cosa stia
succedendo.
Rimango lì immobile, scosso soltanto da tremiti che mi scuotono le ossa,
finché un nuovo urlo, ancora più terrificante del primo, non mi mozza il fiato in gola. Mi metto a sedere ma ancora non mi azzardo ad alzarmi.
Il terrore è tanto, così come il desiderio di ignorare ciò che le mie orecchie hanno ascoltato, perciò ho bisogno di un'ulteriore prova, devo sentirlo almeno una terza volta.
Conto i secondi che scorrono e, nel momento esatto in cui è passato un
minuto, un terzo grido, così forte da far raggelare all'istante le vene, risuona chiaramente dall'esterno.
Sembra il grido di una donna.
Mi alzo a sedere di scatto e il braccio si muove in fretta verso il comodino
alla mia sinistra, le dita annaspano alla cieca finché non trovano il
pulsantino dell'Abat-Jour, accendendola. La luce è accecante ma ora mi sento perfettamente sveglio. Mi guardo intorno e, quando osservo i contorni rassicuranti della mia camera, con le pareti verdi militare e il solo lenzuolo di cotone bianco a coprire il mio corpo nudo, mi sento uno stupido. Un perfetto idiota. Probabilmente mi sono immaginato tutto, forse quando mi sono alzato per bere un bicchiere d'acqua in realtà non ho saputo controllarmi, proprio come succedeva in passato, e lungo la mia gola ho mandato giù una lattina di birra e ora sono ubriaco. Ma no,
non ho più toccato un goccio da quella rissa al locale. Mia madre non mi compra alcolici e io ho fatto un giuramento. Il mio avvocato mi ha
promesso l'affidamento congiunto una volta ripulito e sistemato, e io l'ho promesso ai miei bambini. Sì, forse mi sono immaginato tutto, colpa delle
mie ansie, delle mie paure, colpa sua.
Ma poi eccolo di nuovo. Un nuovo urlo, agghiacciante, vetro che raschia contro le mie ossa, mi paralizza, mi scuote, mi congela dall'interno.
Devo andare a controllare. Sono le 03:03.
Mi vesto in fretta: non infilo le mutande, non c'è tempo, solo jeans
scoloriti e una canottiera anonima. Farà freddo fuori, ma non mi importa, devo uscire a controllare. Questo è il mio momento di essere accolto
come un eroe. Immagino di salvare una ragazza da un rapinatore o
molestatore pericoloso, venire magari anche ferito, ma uscirne vincitore.
Lei mi sarà per sempre grata, anche la sua famiglia, mi daranno una
medaglia al valore per non essermi voltato dall'altra parte e Carmela non potrà dire o fare niente. Il giudice mi darà l'affidamento congiunto e lei
non sarà più l'unica padrona di ciò che è anche mio. Che ne dici di questo, tesoro? Lo avevi previsto con il tuo disturbo impulsivo compulsivo? No, eh? Che peccato.
Quando scendo al piano di sotto, passo accanto alla porta dell'appartamento di mia madre, che è sempre aperta. Non sento
provenire alcun rumore dall'interno, perciò suppongo stia dormendo.
Evidentemente lei non ha sentito nulla, non è stata svegliata dalle urla, ma è normale: ha il sonno molto pesante e russa talmente forte che non mi sentirebbe neppure se le sussurrassi all'orecchio. Decido di non svegliarla e, il più piano possibile, spalanco il portone della piccola
palazzina in cui abitiamo soltanto io e lei ed esco nella gelida e scura
notte.
Quando i miei piedi entrano in contatto con il marciapiede freddo e
sporco mi rendo conto di non avere indossato né le calze né le scarpe, ma non me ne preoccupo. È troppo tardi per tornare indietro ormai e,
quando sento un nuovo grido squarciare il silenzio della notte, me ne convinco e mi metto a correre, alla ricerca dell'origine di quel suono.
Corro per alcuni metri e poi mi fermo, già stanco, con il bisogno di
riprendere fiato e con una strana sensazione viscerale che cresce
d'intensità.
C'è qualcosa di strano oggi, anche se non riesco a capire subito che cosa
sia. Mi guardo intorno per parecchio tempo e ciò che mi circonda mi
sembra estraneo. Non riconosco la stradina che corre nella mia via, le
abitazioni semplici e antiche che incorniciano il marciapiede, con i terrazzi spioventi e le tegole del tetto ingrigite dal tempo. È tutto così diverso e ci impiego un bel po' a capire cosa non funzioni: l'intera via è completamente al buio. Non è mai successo ed è immediatamente un
campanello d'allarme: solitamente ci sono almeno sei o sette lampioni
disposti a intervalli regolari lungo tutta la stradina, lo so perché spesso ho dovuto portare la spazzatura fuori a ora tarda o sono uscito per fare una passeggiata quando il sonno non ne voleva sapere di farmi visita. Penso a un cortocircuito in zona, ma io ho acceso la luce in camera senza problemi poco prima di scendere.
La seconda cosa di cui mi rendo conto è il silenzio. È vero, sono le tre
passate, eppure non dovrebbe esistere un' assenza di suoni del genere. È
qualcosa di impossibile, di inquietante, di alieno. È come se ogni cosa fosse stata all'improvviso risucchiata da un buco nero e io mi fossi trovato in mezzo a ciò che è rimasto, cioè il nulla. Non un solo suono rompe la quiete della notte, un cane che abbaia o un auto in lontananza, lo zampettare dei topi o un soffio di vento a dimostrarmi che tutto ciò è reale. Sono rimasto solo.
Mi volto, deciso a tornare indietro, ma non riesco a vedere nulla alle mie
spalle. Solo l'oscurità più assoluta, un nero pesante e denso come petrolio, vellutato e impalpabile. Come farò a tornare a casa? Mi sono perso. Ma com'è successo esattamente?
Mi impongo di pensare con razionalità. Sono arrivato da questa direzione, di ciò sono abbastanza sicuro, perciò mi basterà ripercorrere i miei passi per raggiungere nuovamente il mio appartamento. Il buio sarà dovuto a un problema di corrente e il silenzio all'ora tarda, perciò devo smetterla di farmi suggestionare come se fossi un poppante. A ogni cosa c'è una
spiegazione razionale e razionale è anche questo semplice pensiero:
voltandomi e proseguendo indietro, devo per forza ritornare da dove
sono partito, cioè a casa.
D'accordo, questo ha senso. Ma come farò a trovare il portone con
questo buio? Non ho con me una torcia e, molto stupidamente, non ho preso il telefono, perciò non posso usarlo per illuminare seppur
debolmente il cammino. Va bene, ma devo comunque provare. Non
posso rimanere qui in piedi per tutta la notte, devo muovermi e
scaldarmi, evitare di morire congelato. Magari, nel frattempo, ritornerà perfino la corrente e io mi ritroverò vicinissimo al portone di casa e riderò della mia goffaggine e dei ridicoli pensieri che in questo momento mi stanno attraversando la mente. Carmela pensa che io sia pazzo e non ho intenzione di darle ragione, perciò mi metto in moto, le braccia tese in avanti per evitare di andare a sbattere contro qualcosa.
Continuo a muovermi, mi guardo intorno e cerco di scorgere qualche punto di riferimento: il contorno di un edificio o di un lampione, la luna a illuminare il cielo o alcune stelle, ma sia intorno a me che sopra la mia
testa c'è solo il nulla assoluto.
Volente o no, la paura comincia a crescere: mi gira la testa e un senso di claustrofobia comincia ad artigliarmi il petto, sebbene non ne abbia mai
sofferto in tutta la mia vita. Mi sento soffocare, quasi stessi annegando,
riesco a stento a muovere dei passi ma sento che, anziché avvicinarmi alla mia meta, mi ci sto allontanando sempre più. Ma non è possibile, sono sicuro di non avere camminato così tanto. Mi sono mosso appena. Mi
prendo la testa tra le mani, annaspo cercando di controllare le mie
emozioni, barcollo in avanti sulle gambe, certo di non stare andando
avanti, di non riuscire a muovermi in questo buio che mi circonda con i
suoi tentacoli inconsistenti.
Inciampo. Cado. Non sono sicuro di cosa abbia colpito esattamente il mio piede ma mi ritrovo a terra, sbatto la guancia sull'asfalto e rotolo un paio
di volte, fermandomi in mezzo al nulla e sentendo dolore ovunque.
Rimango steso sul freddo e marmoreo nero sotto di me, le braccia sopra
la mia testa, e piango. Vorrei restare qui, chiudere gli occhi e scoprire che
è soltanto un brutto sogno. Che forse mi sono addormentato e che sto
vivendo un incubo. Molto reale, d'accordo, ma pur sempre un incubo.
Ma per quanto pianga e mi torturi gli occhi resto ancora lì e qualcosa dentro di me mi dice che non sono al sicuro, di alzarmi e provarci ancora.
Così mi tiro su sui gomiti e volgo lo sguardo intorno a me, pur non
riuscendo a scorgere nulla. Sento montare il panico. Ho completamente perso il senso dell'orientamento, non so da che parte andare, se in avanti
o indietro, a destra o a sinistra, non capisco più dove stessi andando e mi
rendo conto che vagherò per sempre in queste fitte tenebre senza mai uscirne. Morirò qui, da solo, prima di essere riuscito a ottenere la mia
redenzione.
Poi sento un nuovo grido, ancora di donna, simile in tutto e per tutto a
quelli precedenti ma più vicino. Non ho il coraggio di alzarmi, di muovere un solo muscolo, perché so di non poter andare da nessuna parte. Lei,
chiunque sia, sta arrivando per me.
Mi attirato qui con l'inganno e non
ha intenzione di lasciarmi andare.
Sento dei passi, stanno venendo verso di me. Sempre più vicini, ma lenti, calmi, si fanno strada nell'oscurità
senza problemi. E io aspetto lì, tremante, prego e chiedo perdono per i miei peccati. Ho cercato di essere un uomo migliore ma qualcuno ha
evidentemente ritenuto che non ne fossi degno. E ora viene a prendermi.
Non so come io faccia a saperlo ma è così.
L'oscurità si apre, è un attimo. Non la vedo, non esattamente, ma riesco a
scorgerne i contorni e non so come sia possibile, perché lei stessa sembra
essere fatta di oscurità. Capelli vaporosi le volteggiano ai lati di una testa rugosa, priva di occhi, naso o bocca, il corpo ridotto a un profilo
indistinto. Una voce mi parla all'orecchio, ma non da fuori, dall'interno. La coscienza di qualcosa.
È una banshee. Sono messaggere della morte. Chi sente il loro grido è perduto, perché esso ne annuncia la morte imminente.
Non so come faccia a saperlo ma è così. Indietreggio ma senza vero
impegno. So che sto per morire.
- Ti prego - sussurro.
Vedo qualcosa muoversi, un luccichio bianco che squarcia la notte con più
forza delle urla. La creatura, un demone con forme vagamente femminili, spalanca la bocca, e l'ultima cosa che vedo sono affilati e luccicanti e lunghi denti perlacei, prima che un buco nero si apra proprio sotto di me risucchiandomi.
Dal giornale Locale:
Raffaele Fontana è deceduto questa notte tra le tre e le quattro nella sua
abitazione, nella palazzina in cui viveva insieme alla madre ottantenne.
L'ipotesi degli inquirenti è attualmente di suicidio: l'uomo avrebbe assunto
un cocktail di farmaci antidepressivi, che gli è stato fatale. Era già conosciuto alle forze dell'ordine per le numerose risse a cui aveva
partecipato e per aver colpito un agente di polizia sulla testa con una
bottiglia vuota, episodio in seguito al quale, secondo la madre, aveva
iniziato a soffrire di insonnia. - Voleva essere una persona migliore - ha
dichiarato la donna - io non credo al suicidio. Stava soltanto cercando di
addormentarsi. Aveva bisogno di dormire.
Sono in corso ulteriori accertamenti.
~ L'idea per questo racconto è nata da un episodio notturno molto vivido, in cui mi sono svegliata di soprassalto e mi è sembrato di sentire una donna urlare, più volte. Forse stavo ancora sognando o lo avevo solo immaginato, ma la scena mi aveva spaventata a morte a quel tempo. ~
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