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Posso entrare?

Il mio riposo pomeridiano prima del turno di notte è ufficialmente finito.

Come al solito, mi sento più stanco di quanto non fossi prima di mettermi
a letto e la mia voglia di presentarmi a lavoro è pari a zero. In questo
paesino che comprende a malapena settemila abitanti, il massimo che
può capitare è dover mettere a tacere una rissa tra ragazzini ubriachi e
urlanti, che bevono alcool scadente nascosti in un vicolo seduti tra i
contenitori dell’immondizia. Posto mediocre, gente mediocre, lavoro
mediocre. In questo luogo fetido che assomiglia a un buco fare il
poliziotto significa addormentarsi alla scrivania con le scarpe adagiate sul
piano, senza avere neppure la possibilità di fumarsi una sigaretta.

Letizia ha in braccio il piccolo Daniele, il quale sta esplorando con una
mano chiusa a pugno del colore del latte la propria bocca, mentre emette
gorgoglii e con gli occhi alzati al cielo osserva la madre. Daniele non era
previsto ma venendo alla luce otto mesi fa ci ha resi per la seconda volta
le persone più grate del mondo. Dopo due anni di prove costanti, di
lacrime amare e di dolore indescrivibile, eravamo riusciti a mettere al
mondo Edoardo e non speravamo neanche lontanamente di poter
ripetere un simile miracolo una seconda volta. Eppure eccoci qui, genitori
felici e apprensivi di due splendidi bambini.

Mi chino a baciare Lety sulle labbra umide e nel mentre poso una mano
sulla testa di Daniele, accarezzandogli con delicatezza i fitti riccioli scuri. –
Mi dispiace di doverti lasciare da sola per tutta la notte.

- Non è colpa tua, Valerio. Quando il lavoro chiama, è tuo dovere
rispondere. E la tua famiglia ti è grata per tutto ciò che fai per lei.

- Edoardo è già letto? – le domando, grato di quelle sue parole.

Lety annuisce. – Ti sta aspettando.

Edoardo dorme da solo nella sua cameretta già da un mese. Per aiutarlo
in questo difficile distacco, lo abbiamo coinvolto in ogni cosa: dalla scelta
della tinta per la parete a quella della fantasia delle coperte, agli adesivi luminescenti da apporre sul soffitto.

Edoardo ha solo quattro anni ma
soltanto due volte è corso nella nostra camera per aver fatto un incubo
ed è stato molto tempo fa. Quando entro, vedo fare capolino da sotto le
coperte la stessa capigliatura scura e riccioluta del fratello, a sormontare
un visetto tondo e paffuto illuminato dalla lampada notturna sul
comodino. Stringe al petto il suo orsetto di peluche Toby. – Stai andando
al lavoro, papà? – mi chiede, protendendo una manina verso di me.

- Sì, ma mi troverai già qui al tuo risveglio domani mattina. Promesso.

Con una mano stringo la sua, che sparisce nel mio palmo, e gli bacio la
fronte, tiepida e dal delicato profumo di bagnoschiuma. Edoardo è la
prova tangibile che spesso i sogni possono diventare realtà. – Fai dolci
sogni, mio piccolo ometto.

- Toby mi aiuterà, lo tengo qui per questo. La finestra è chiusa, papà?

Le lancio un’occhiata, anche se sono sicuro che lo sia. Letizia non
lascerebbe mai il bambino in mezzo alla corrente. – Sigillata.

- E mi giuri che la lampada resterà accesa tutta la notte, senza spegnersi
mai?

- Te lo giuro.

Lo bacio un’ultima volta, poi mi alzo e mi dirigo alla porta. Mi richiama
proprio sulla soglia. – Posso dormire con la mamma? Solo per stanotte?

Sospiro e tento di apparire risoluto. - Questo non è possibile, Edo, ne
abbiamo già parlato.

- Ti prego! – la sua voce suona disperata – tu non ci sei, perciò nel lettone
c’è posto anche per me. Non occuperò spazio, prometto di rannicchiarmi
in un angolino.

- Non se ne parla, non stavi facendo più storie, non ricominciare.

Il bambino non dice nulla, lancia un’altra occhiata alla finestra e si sforza
di non piangere. – Chiudi gli occhi. Prima che te ne accorga, sarai sprofondato nel mondo dei sogni. Buonanotte, Edoardo – lascio la stanza senza ascoltare se il bambino abbia risposto o meno.

**

Il telefono mi strappa bruscamente al sogno che sto facendo, in cui ho
vinto alla lotteria e mi appresto a spendere il mio bottino.

Proprio come previsto, ho finito per addormentarmi ancora una volta. Le
gambe ricadono di scatto giù dalla scrivania e io mi piego in avanti,
allungando una mano in direzione del telefono della Caserma, prima di
accorgermi che non è quello a squillare. È invece il mio vecchio Nokia,
riposto nella tasca destra dei jeans. Sta vibrando contro la mia coscia
attraverso il tessuto dei pantaloni.

Corrugo la fronte e lancio un’occhiata all’orologio appeso alla parete in
fondo.

Sono le tre di notte.

Mi chiedo chi possa essere a quest’ora, ma mentre lo estraggo vengo colto da un brutto presentimento, che viene confermato dal nome sul display.

Letizia.

Rispondo in fretta, anche se mi tremano le dita. -Pronto?

Silenzio dall’altra parte della linea.

- Lety, ci sei? Che succede?

- È sparito – la sua voce è atona, sembra essere sotto shock.

- Chi? Chi è sparito?

- Edoardo. Non è più nel suo letto.

Mi prendo qualche secondo prima di rispondere. – Che significa che non è
più nel suo letto? Hai controllato in bagno? Nella culla di Daniele? In
salotto davanti alla tv?

- Certo che ho controllato! – Letizia urla, infuriata, e in sottofondo sento
Daniele piangere – non capisci? Ho controllato ovunque e lui non c’è … la
finestra … è spalancata … ti prego, Valerio, torna a casa …

Anche Letizia comincia a piangere, seguendo a ruota il figlio minore, e
prima che me ne renda conto ho afferrato giacca e pistola insieme e mi
sono diretto all’uscita.

                                 **


La situazione è proprio come mi è stata riferita da Letizia al telefono.

Insieme a me sono venuti Lucia e Ivan, i due poliziotti con me al turno di
notte, e tutti e tre abbiamo ispezionato casa, ogni piccolo nascondiglio,
con Lety che ci ha seguiti a ruota tenendo Daniele tra le braccia versando
fiotti di lacrime, finché non abbiamo dovuto prendere atto del fatto che il
bambino non fosse davvero in casa.

- Daniele si è svegliato a urla poco tempo prima che ti chiamassi – mi
spiega tra i singhiozzi – non l’avevo mai sentito piangere così, perciò ho
pensato avesse mal di pancia e mi sono alzata per preparargli un biberon
di camomilla. Quando sono passata davanti alla camera di Edoardo, ho
guardato dentro, come faccio sempre, e ho visto tutte le coperte scostate
e il letto vuoto. A quel punto l’ho cercato dappertutto, ho urlato il suo
nome, ma non è servito a nulla.

Torniamo inevitabilmente alla sua camera, l’ultimo posto dove lo
abbiamo visto, e osserviamo tutti la finestra spalancata. Ivan si avvicina al
davanzale e lancia un’occhiata fuori. – Direi che dobbiamo prendere atto
del fatto che il bambino abbia aperto la finestra e sia uscito fuori.

Intervengo io. – Stai dicendo che credi che un bambino di quattro anni
per qualche motivo abbia aperto la finestra e sia uscito di notte in
pigiama e scalzo con almeno tre gradi sotto lo zero?

- È assurdo! – Letizia è inorridita da questa possibilità.

- Avete detto che la finestra era chiusa, giusto? – ci chiede Ivan - e non
può in alcun modo essere aperta dall’esterno, dico bene? Perciò è stato
per forza il bambino.

- Ti sbagli! – Lety afferra qualcosa ai piedi del letto: è Toby. – Vedi questo?
È il migliore amico di Edoardo. Non se ne separa mai. Non sarebbe mai
andato da nessuna parte senza il suo peluche!

- Allora cosa suggerisci? – le chiede Ivan.

- Qualcuno lo ha rapito, è ovvio! E voi dovreste essere già in giro a
cercarlo!

Lucia scuote la testa. – Signora Romano, non ci sono segni di effrazione in
casa e come ha detto Ivan la finestra non poteva essere aperta
dall’esterno. Forse il bambino ha visto qualcosa ed è uscito a controllare.

Letizia solleva in aria Toby, come se fosse la prova decisiva e noi non
riuscissimo a vederla. – Le ripeto che...

Io le tocco una spalla, zittendola. - Su una cosa Letizia ha ragione. Dobbiamo cercare il bambino, subito, qualunque sia la verità. Fuori fa freddo ed Edoardo è uscito in pigiama. Perciò chiamate i nostri colleghi e buttateli giù dal letto. Chiunque risponderà ha l’obbligo di presentarsi subito in caserma e iniziare le ricerche.

Cerco di mantenere la calma ma mi sento morire dentro.

Prima di tutto ispezioniamo nei pressi della nostra abitazione, bussiamo
alle porte e suoniamo i campanelli, mentre i primi curiosi cominciano ad
affacciarsi alle finestre e si offrono di darci una mano. In breve tempo,
una folla non indifferente si è unita alla polizia nella ricerca di mio figlio
(tutti i poliziotti hanno risposto all’appello, tranne quelli fuori città) e le
possibilità di riuscire a ritrovarlo il prima possibile sembrano aumentare.
Tuttavia nei dintorni non vi è alcuna traccia, nessun segno che indichi il
suo passaggio, nessun indizio neppure nella sua cameretta. La finestra è
stata aperta ma nessuna impronta figura sulla superficie del davanzale.
Sembra tutto così assurdo che non posso credere stia succedendo proprio
a me. Solo oggi pomeriggio mi lamentavo della noiosità di questo lavoro e
ora vorrei che fosse tutto un brutto sogno. Bisogna fare attenzione a ciò
che si desidera.

Man mano che il tempo passa, cominciamo ad ampliare il nostro raggio di ricerca, tanto che finiamo per controllare perfino nel bosco che delimita la periferia ovest della città. Il pensiero che il piccolo Edoardo, di quattro anni appena, si sia perso tra quegli alberi scuri, mi fa temere il peggio.

Penso a lui che, prima di andare a lavoro, mi prega di lasciarlo dormire nel letto con la mamma.

Sono ormai le cinque e le ricerche non hanno prodotto alcun risultato.
È come se il bambino fosse stato risucchiato nel nulla da un buco nero,
senza lasciar alcun segno o traccia, come se non fosse mai esistito.

Proseguiamo per altre ore, senza fermarci mai, altre persone si uniscono
a noi e il mio telefono squilla senza sosta, con Letizia che mi chiama in
continuazione per avere notizie. Ma io non ho nessuna novità da darle. Il
nulla assoluto. Ho soltanto i miei pensieri, i miei timori, e una verità che il me poliziotto sa. Se Edoardo è uscito davvero, con indosso solo il pigiama,
non può essere sopravvissuto a una notte così gelida. Deve essere per
forza morto.

Poi, come se non fosse già un bimbo miracolato, alle nove arriva la
chiamata di un boscaiolo. Ha trovato un bambino nel bosco, addormentato in posizione fetale sotto una coperta di foglie secche. È vivo. Respira. Non si sa come, è sano e salvo in mezzo al nulla. E si tratta proprio del nostro Edoardo.

Contro ogni buon senso, nostro figlio sta bene. Non è in ipotermia, non è
disidratato, non è ferito. Sembra solo leggermente scosso. Perciò, dopo
normali visite di routine, ci permettono di riportarlo a casa, e noi gli
rivolgiamo tutte le domande dei miei colleghi a cui non ha voluto
rispondere.

- Che cosa è successo ieri sera, Edo? – stanotte dormirà con noi nel
lettone e io mi sistemerò sul divano. Non ce la sentiamo di lasciarlo da solo. – Hai aperto la finestra e sei uscito? Non mi arrabbio, promesso.

Le lacrime gli affiorano agli occhi. – Sì, scusami papà, non volevo.

- Va bene, ti perdono. Ma perché lo hai fatto?

Lui distoglie lo sguardo, come se non ne volesse parlare, ma io insisto. – Ti
ho già detto che ti ho perdonato, quindi puoi dirmelo.

Edo si stringe Toby al petto. – Me lo ha chiesto lui.

- Lui chi?

- Il bambino con gli occhi gialli.

Io e Letizia ci scambiamo un’occhiata. – Quale bambino?

- Quello che era fuori dalla mia finestra. Mi ha chiesto di invitarlo a
entrare in casa, mi ha detto che aveva molto freddo. Ma io gli ho risposto
che mi era vietato far entrare estranei, così mi ha detto di uscire a giocare
con lui così non lo saremmo più stati e l’avrei potuto fare entrare. Si
sentiva così solo, perciò io …

- Era soltanto un sogno, Edo – gli dice dolcemente Letizia, ma io riesco a
scorgere la preoccupazione dietro i suoi occhi – lo sai questo, vero?

Edoardo non risponde. Distoglie di nuovo lo sguardo, stringendo più forte
Toby. Mi sembra assurdo che sia uscito senza portarsi dietro quel vecchio
peluche ormai rovinato. Forse è sonnambulo e ha agito senza pensare.
Ma in questo caso dovrebbe aver scordato tutto, giusto? Una cosa è
certa: ho intenzione di indagare più a fondo su questa faccenda.

- E va bene, ora dormi. Ne riparliamo meglio domani, d’accordo?

Edoardo annuisce, quasi sollevato. – Resti con me, mamma?

- Certamente. Non vado da nessuna parte.

                                  **

L’orologio segna di nuovo le tre di notte.
Apro gli occhi, tento di scorgere nella penombra, alla ricerca del flebile
suono che mi ha svegliato. Il divano è scomodo, parte dei miei piedi
spunta fuori da esso e le coperte che mi sono sistemato sul corpo riescono a mala pena a scaldarmi.

Eppure la temperatura non era così
bassa quando mi sono messo a letto.
Mi metto a sedere. Non riesco a vedere nulla. – Letizia, sei tu?

Magari si è alzata per fare mangiare il bambino, infatti la luce in cucina è
accesa. Mi infilo le pantofole e mi alzo, ma sento qualcuno parlare. –
Lety? – richiamo.

- Sì – sento dire – va bene.

Aggrotto le sopracciglia. È possibile? Può davvero essere come sembra o
sto ancora dormendo e tutto questo è solo un incubo dovuto agli ultimi
avvenimenti?

Mi fermo sulla soglia di cucina, dove il mio presentimento trova conferma. Edoardo è in piedi davanti alla porta che affaccia sul giardino, mi da le spalle, e questa volta in una mano tiene Toby.

Davanti a lui vedo i freddi e bui scalini che portano al sentiero che attraversa il cortile. Il bambino è in pigiama ed è completamente immobile. Ho la gola secca e la lingua incollata al palato, perciò fatico a parlare. – Edoardo? – ho la voce roca – che stai facendo?

Lui si volta di scatto, ma si rilassa quando mi vede. Si gira completamente
nella mia direzione, non accenna a richiudere la porta, ma abbassa le
spalle e mi fissa con aria di scuse, con un’espressione di sconfitta. – Mi
dispiace, papà – ha un tono normale, perciò non sospetto nulla – questa
volta ho dovuto invitarlo a entrare.

- Ma che cosa … - sento un alito dietro di me, proprio alla base del collo,
come se qualcuno, o qualcosa, stesse respirando su di me. Ammutolisco
ma, prima che possa voltarmi e agire, sento qualcosa afferrarmi la gola
con una presa salda, una mano fredda come il ghiaccio e dura come la
pietra. Piccola, all’aspetto delicata come porcellana. Sembra la mano di
un bambino. Artigli affilati mi penetrano nella carne e immediatamente il  sangue mi invade la gola, impedendomi di respirare. Proprio sotto gli
occhi indifferenti e inespressivi di mio figlio.

                                    **

Edoardo tiene per mano Daniele. Lo lascia andare, lo guarda e con gli
occhi luccicanti gli comunica il suo messaggio. L’altro bambino annuisce.
Edoardo si fa avanti, si alza sulla punta dei piedi e batte il pugno chiuso
sulla finestra. La bambina all’interno della camera non impiega molto a
svegliarsi e avvicinarsi. Piega la testa, incuriosita ma non spaventata.
Edoardo apre il palmo della mano, lo fa aderire alla superficie traslucida, e
la bambina fa lo stesso dall’altra parte. Dita piccole, pelle morbida e
delicata a contatto. Lui le pone la domanda. – Mi inviti a entrare?

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