L'inizio della fine
Come ogni mattina, appena mi sveglio, la prima cosa a cui penso è la bilancia: è la mia più cara amica, l'unica che può farmi felice; ma come riesce a farmi felice, può anche uccidermi. Mi metto seduta sul letto e allungo le braccia, in modo da distendere la schiena e sgranchirla. Guardo l'ora dall'orologio tondo e bianco posizionato sopra la porta marrone della camera: le sette in punto come ogni mattina. Sposto la coperta nera dalle gambe magre e bianche, giro verso sinistra e poso i piedi a terra trasalendo per il fresco che va a contrasto con le piante dei piedi calde. Mi tiro su, guardo la mia migliore amica e metto un piede su di essa. Vedo già il peso salire a trentuno chilogrammi: deglutisco e sgrano gli occhi. Prendo un respiro profondo e, con lo stomaco che si contorce, salgo anche con il secondo piede; peso attuale: quarantadue chili e trecento grammi. Mi volto verso la scrivania bianca alla mia sinistra, apro il cassetto a destra tirando il pomello dorato, alzo il doppio fondo e tiro fuori il mio diario. Richiudo il cassetto e mi sposto a destra, verso lo specchio a figura intera: passo la mano dietro di esso e prendo la piccola chiave dorata che serve ad aprire il lucchetto del diario: la infilo e vado alla pagina del giorno prima dove ho annotato tutto: peso, cibo ingerito, quantità di calorie, attività fisica e...
-Iris!- grida mia madre dal piano di sotto.
-Che c'è?- rispondo infastidita mentre annoto il mio peso. Appena mi accorgo di aver preso cento grammi rispetto a ieri, inizio a sudare freddo: ricontrollo tutti i calcoli, ignorando le chiamate di Teresa. Non riesco a trovare l'errore finché non noto che nell'allenamento manca una cosa: i scalini. Non ho fatto gli affondi sugli scalini della scala di casa, quella che collega la zona giorno alla zona notte. 'Come hai fatto a dimenticarlo, stupida!' mi rimprovera la mia coscienza. Entro nel panico più totale, oggi dovrò rimediare.
-Iris, apri questa porta!- urla mia madre dall'altra parte del legno. Velocemente nascondo il diario, indosso una felpa larga nera e vado verso la porta. Apro:
-Cosa vuoi?- domando irritata.
-Finalmente! Cosa stavi facendo?- domanda, mentre assottiglia gli occhi e passa sotto osservazione ogni singolo angolo della camera. -Mi sto preparando per scuola- mento, mentre prendo i vestiti dall'armadio. Teresa mi guarda sospettosa, poi alza le spalle e se ne va. Sono sei anni che non si accorge di nulla o, forse, semplicemente lo ignora. Tre anni fa, a soli quattordici anni, durante una vacanza in Croazia, ebbi un crollo e fui ricoverata d'urgenza. Stetti tre mesi in quella struttura ospedaliera, con un sondino infilato nel naso pronto a nutrirmi, pronto a farmi riprendere tutto il peso perso. E Teresa? Lei ovviamente ha continuato e prolungato la sua vacanza: la vedevo una volta a settimana nel primo mese, poi una volta ogni due e infine, l'ultimo mese, l'ho rivista solo quando mi è venuta a prendere alle dimissioni. E tutto ciò perché mio nonno chiese che fine avessi fatto: lei non le raccontò mai la verità, non disse mai a nessuno del mio ricovero, tantomeno il motivo di costui. Dopo il mio ritorno a casa, mi obbligò a frequentare una struttura di riabilitazione, dove medici, psicologi e psichiatri mi hanno seguita per l'anno successivo. Mentre ero lì, ho avuto modo di affinare la mia tecnica per diventare invisibile agli occhi della gente: così invisibile che nemmeno i medici mi consideravano più. Dimenticavano di darmi l'appuntamento per la visita, di controllare se mangiassi e prendessi le pillole e i vari integratori. Ero diventata così brava che lasciai la struttura senza che nessuno se ne rendesse conto: nessuno mi cercò, nessuno chiamò mia madre, nessuno fece nulla prima di dieci giorni. E allora lì mia madre capì che sarebbe stato inutile mandarmi di nuovo in quella struttura: è molto più facile chiudere gli occhi che affrontare un problema.
-Muoviti! Ho appuntamento con il parrucchiere alle 8:10!- dice mia madre sbuffando, poi esce dalla camera e sbatte forte la porta. Alzo gli occhi al cielo e corro in bagno: sfilo la felpa e la maglia insieme, lasciandole cadere sul pavimento azzurro entrambe. Entro velocemente nella cabina doccia amplia e blu come il fondo del mare: prendo il bagnoschiuma neutro, ne metto un po' sulle mani e inizio a strofinare; la sensazione delle ossa sotto le mie dita mi fa sentire estasiata. Posso sentire ogni costola sotto il mio tocco leggero; lo sterno sporgente è un tutt'uno con le clavicole. Scendo verso giù e posso vedere perfettamente la forma delle anche. Le mie gambe sono così strette che posso circondarle completamente con le mani, dove pollici e medi si toccano, proprio come in vita. Ma voglio di più, le voglio più magre. Voglio... sparire. Questo è il mio pensiero costante da sei anni a questa parte. Mi finisco di lavare velocemente, vado davanti lo specchio e mi guardo: vedo un piccolo rotolino sulla pancia e vorrei solo strapparlo via da me: odio vedere del grasso sul mio corpo. Non posso e non devo averlo. Mi volto e guardo bene la mia schiena: riesco a vedere qualche vertebra, ma non tutte ancora. Il mio compito sarà portato a termine solo il giorno in cui riuscirò a vedere ogni singolo osso senza alcuno sforzo, il giorno in cui la pelle rivestirà solamente le ossa e nient'altro. Mi asciugo, indosso l'intimo che è l'unica cosa della mia taglia, seguito da una maglia nera larga, felpa nera di due taglie più grandi e un jeans modello cargo, sempre nero. Il nero è il mio colore preferito: fa sì che riesca a mantenere il mio profilo anonimo tra la gente. Stivali ai piedi, zaino e cuffie alla mano seguite dal telefono dal quale metto la playlist.
Esco dalla camera e mi dirigo a sinistra, dove ci sono le scale di marmo bianco che portano al piano inferiore. Le scendo velocemente tenendomi al corrimano dorato, fermandomi alla curva, guardando verso l'amplia sala anonima e asettica, proprio come mia madre. Noto che mio padre è seduto sul grande divano a ferro di cavallo bianco, intento a leggere il suo solito giornale. Alza lo sguardo verso me: il disprezzo è l'unica cosa che esce dai suoi occhi verdi come i miei. Nemmeno un saluto e torna sul suo quotidiano.
-Amore, accompagno Iris a scuola e dopo vado dal parrucchiere. Dopo vogliamo andare alla Spa?- domanda Teresa a Carlo, mio padre. Lui la guarda e risponde: -Alla Spa? Ma non vedi come sei ingrassata? Non pensi sia meglio andare in palestra?-. Freddo e spietato. Mia madre sussulta e arrossisce per un misto tra rabbia e imbarazzo. I suoi occhi scivolano verso di me e mi grida: -Andiamo!-. Alzo gli occhi al cielo e mi dirigo verso la grande porta di mogano dell'entrata: mia madre la apre e la sbatte, mio padre resta indifferente. Scendo i tre scalini di marmo che portano sulla piccola ghiaia bianca. Vedo arrivare il range rover, apro lo sportello nero opaco e salgo, prendendo posto sul sedile dietro.
- Buongiorno Gino- saluto l'autista che mi ha vista crescere. Gino non è mancato mai a nessun mio evento: primo giorno di elementari, medie e superiori. Primo giorno di piscina, di pianoforte, equitazione, atletica. Prima volta in ospedale, primo ricovero in clinica ed è sempre stato lui a venirmi a prendere quella notte in cui sono fuggita dalla casa di cura. Lui è l'unico che mi rivolge sempre un sorriso, l'unico che mi saluta, l'unico che si preoccupa davvero per me e non solo perché viene pagato per questo. Gino fa parte della famiglia da ben diciannove anni: due anni prima che io nascessi. Mia madre si fida ciecamente di lui, mio padre, beh, a lui non interessa di niente e di nessuno.
-Buongiorno piccola Iris. Dormito bene?- domanda, rivolgendomi un sorriso. Annuisco ricambiando il sorriso. Sposto lo sguardo su mia madre che è concentrata a cercare qualcosa sul telefono: in un attimo sullo schermo leggo il nome del suo chirurgo. Sospiro, scuoto la testa in segno di dissenso e infilo le cuffie; la prima canzone parte: 'se ne va' di Nayt inizia a suonare nella mia testa e, con la malinconia nel cuore, guardo fuori dal finestrino e seguo distrattamente cosa accade per strada durante il tragitto. Gino si accosta e di ferma: sa che non deve portarmi davanti a scuola: attirerei troppe attenzioni che non voglio.
-Ciao Gino!- lo saluto prima di scendere, ignorando Teresa che è impegnata a mettersi d'accordo col chirurgo. Chiudo lo sportello, mi guardo attorno e non c'è nessuno; tiro un sospiro di sollievo. Tiro su il cappuccio della felpa, infilo le mani in tasca e mi avvio verso scuola: dal sotto della mia frangetta guardo il mondo che mi circonda. Un gruppo di ragazzi ride di un fatto avvenuto il giorno prima. Altri si organizzano per il weekend e alcuni si scambiano i quaderni per copiare i compiti. Arrivo davanti il grande cancello di ferro incastrato tra due enormi colonne in pietra: ecco l'entrata dell'inferno. La campanella suona e supero la soglia del portone interno, dirigendomi al piano di sopra dove si trova la mia classe: quinto C. Mancano solo otto mesi e questo inferno finirà. Finalmente potrò chiudermi nella mia casa, nel mio mondo, senza dovermi nascondere da nessuno, senza dover sprecare il mio tempo a fingere che mi serva a qualcosa respirare l'aria di questa società distruttiva.
Arrivo davanti la porta della classe, inspiro profondamente e una scossa mi pervade la schiena, come un brutto presagio: entro. Mi dirigo velocemente al mio posto in fondo alla classe, quello vicino alla finestra dove da oramai cinque anni sono da sola: nessun compagno di banco, fino ad oggi. Mi blocco e guardo il posto di fianco al mio occupato da un ragazzo la cui fama lo precede: Sebastian Iacchetti. Tutti parlano di lui a scuola: i ragazzi ammirano il suo stile di vita, libero e selvaggio; e il sogno proibito di tutte le ragazze. Ha avuto una storia per anni con Erin, la ragazza che mi ha distrutto la vita al campo estivo. Avevo sentito che era stato bocciato, ma non mi aspettavo di trovarlo in classe con me, per di più al mio banco. Sebastian è il classico ragazzo che genitori vorrebbero vedere lontano le proprie figlie: tutto tatuato, molti piercing, aria da cattivo ragazzo. Nell'ultimo anno ha aggiunto ai suoi accessori una moto nera. Nera come gli skinny che indossa sotto gli stivali neri; maglia dello stesso colore e giacca di pelle che seguono le linee del suo fisico imponente. I capelli corvini ricadono sulla fronte e gli occhi verdi sono profondi e misteriosi: gli stessi che ora sono fissi sul suo i-phone. Inalo quanta più aria prima di chiudere gli occhi e buttarla fuori: li riapro e, con sguardo basso, vado ad occupare il mio posto.
Mi appiattisco contro il muro e passo tra lo spazio stretto per raggiungere la mia sedia. Cerco di fare meno rumore possibile, non voglio che alzi la testa dal telefono e mi noti, anche se so che è solo questione di attimi prima che lo faccia. Poso delicatamente la borsa sul bordo della finestra, sfilo le cuffie e le ripongo sotto al banco. Prendo il telefono, lo metto in modalità silenziosa e lo metto di fianco. Sebastian blocca il telefono, lo posa davanti a lui, mette i gomiti sul banco e posiziona le mani sotto il mento, tenendo lo sguardo fisso in avanti.
-Ben arrivata Iris Sabelli- dice lui; sgrano gli occhi, il sangue mi si gela: 'Come fa a conoscermi?'.
Angolo autrice
Ciao a tutti! Ecco qui il primo capitolo e il primo incontro tra i nostri protagonisti! Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che siate riusciti ad entrare un po' di più in connessione con la nostra piccola Iris. Siete pronti a scoprire cosa accadrà tra loro due? Ovviamente se avete consigli per delle migliorie, non esitate a farmelo sapere! Vi aspetto al prossimo capitolo, con affetto, Noora.
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