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parte 1

Buondì, come state? Spero tutto bene volevo avvertirvi già da subito che questa storia non sarà niente di ché.

È iniziato tutto con io che scrivere una storia ispirata a "come anima mai" e si è conclusa con io che andavo in panico perché non sapevo come andare avanti (strano eh?) Beh, questo mi ha portato a iniziare un'altra storia completamente diversa a quella che stavo scrivendo (e che riprenderò).

Perciò non aspettatevi un capolavoro e avvertitemi se doveste trovate degli errori, in modo da correggere all'istante.

Buona (almeno spero) lettura <3

***

1° ottobre 1889, Londra:

Inchiostro fresco adagiato su dei fogli bianchi, la scrittura era tutto ciò che mi legava al mondo. Un mondo alla quale desideravo ogni giorno di meno d'appartenere. Qualunque giorno era un dolce susseguirsi di eventi tutti uguali, resi distinti da una penna d'oca intinta nel calamaio. Raggruppai tra di loro i fogli su cui avevo scribacchiato e soffiai sulla candela per spegnere la fiamma, la cera ormai era colata macchiando il tavolo e l'odore era persistente all'interno delle mie narici, persistente almeno quanto l'amore che nutrivo ormai da tempo per il mio apollineo vicino di casa.

Quei dannati capelli ricci erano cornice di una tela paradisiaca cui il verde era protagonista. Un verde che era stato capace di ispirare la mia mano e tormentare i miei sogni, rendendo l'oscurità della notte un delicato brusio suadente.

Lo scorsi all'istante, tra le luci tenue della notte e calde del luminio. Era lì davanti allo specchio a sistemarsi i ricci ribelli con sguardo beffardo e un ghigno appena accennato sul volto. Quel ragazzo era un piccolo approfittatore, Perché era assai consapevole delle mie fugaci passeggiate verso la finestra solo per ammirarlo. Ogni suo gesto era composto da erotiche richieste che coglievo senza posa ed effimeri sguardi che non si risparmiava di riservarmi.

Lui era la mia musa, un'ispirazione per il mio cervello sempre pronto a dare il comando alla mia mano. Era arte in una tela, un corpo da dover dipingere e desiderare di toccare e vivere.
 
Aprì la finestra e mi affacciai a essa tenendo le mani salde sulla traversa orizzontale, il mio unico scopo era quello di ammirare le bellezze del cielo colorato dal blu della notte. Ma venne difficile però, riuscirci senza abbassare lo sguardo.
 
"Ehi egregio vicino!"

La sua voce era entusiasta almeno quanto il suo ampio sorriso, stampato in quel volto capace di mettere in mostra le sue bambinesche e bellissime fossette in una maniera assolutamente naturale. Non ricambiai subito, mi limita ad accennare un sorriso.

"Salve."

"Salve? Or su al quanto formale per uno che avrà appena quattro anni in più di me"
 
"D'età sì. Di certo non lo nascondo, ma non di mente."
 
Una mano che scivolava lentamente all'interno dei miei pantaloni non era una scusante ammissibile per oscurare il mio essere perennemente pungente.
 
"Allora arrivederla, Joseph" Il ragazzo fece una smorfia e chiuse la finestra, assicurandosi per bene di spostare le tende realizzate in seta.

"Arrivederla, Charles" lo dissi pur sapendo che non mi stava più ascoltando, che il rumore della mia voce non era più chiara come quando pochi istanti prima quella finestra era spalancata, e lui appoggiato ad essa con la sua spontanea gentilezza e i suoi occhi immensi come il mare e pieni di speranza proprio come quel colore che glieli riempiva. Quel verde tanto proibito da non poter essere neanche meritevoli di guardarlo.

Non scrivevo solo per soddisfare un vizio o per comprendere un'esigenza, scrivevo per rassicurare me stesso, in special modo la mia enfasi, il mio spirito e la mia anima.

Scrivevo per guadagnarmi da vivere ed era ironico come i miei così detti "lettori" sostenessero che la così detta amata donna dei miei romanzi fosse sul serio una lei e non un lui. Non era una figura femminile a ispirare la mia penna d'oca, ma la vista di due guance arrossate dall'imbarazzo, di due
gambe lunghe e magre, di un petto liscio e soprattutto di due ciocche di capelli adagiati delicatamente sulla fronte.

Non era sano amare in Inghilterra, non era sano neanche esprimere un proprio giudizio, era necessario esprimere sé stessi sollo restando muti.

Non diedi peso a niente, non respinsi niente. Mi distesi solo sul mio letto e aspettai che il sonno mi colpisse come uno schiaffo in pieno volto.

Un sogno, ma non una disinformazione della realtà.

Era la mano a scrivere, di certo non io. Una melodia suonava per la mia testa ma era sempre la mia mano a renderla scrittura. Un raffinato movimento tale quale a un raffinato pensiero, coinvolto da una mente che si cimentava in un ballo leggiadro e soave.

Aspettai con disinvoltura che la notte divenisse giorno, mi ridussi a prepararmi un caffè che certamente non mi avrebbe aiutato a dormire ma per mia somma gioia solo che a rimaneggiare; eppure nonostante ciò perduravo nel volerlo bere pur sapendo che bloccava il mio sonno. Quando poi al postutto la luna scomparve per dar spazio al sole venni dapprima colpito dai sui raggi autunnali per poi essere leso dai soffi del vento del signore.

Un signore assai buono e gentile, ma alquanto ingiusto con me, così improbo da affidarmi il concesso di desiderare un amore proibito e da rendermi così caparbio forse, senza neanche un vero motivo.

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