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Take me home

AUTRICE: knuttie

Mi guardai allo specchio e sorrisi nel vedere su di me quella camicia a fantasia comprata qualche giorno prima. Chiunque conoscessi non condivideva quel mio modo troppo eclettico di vestire: la prima volta che tornai a casa con dei semplici stivaletti marroni ai piedi e non con le solite Converse si scatenò il panico. Mia sorella non fece altro che prendermi in giro e mia madre mi guardava come se fossi uno sconosciuto e ripeteva frasi come “il mio bambino è cresciuto!”. Non molti anni prima era stato il turno della tanto attesa comparsa della barba; ero abituato a quelle sceneggiate: avevo vissuto per la maggior parte della mia vita con due donne in casa e il dramma, si sapeva, era sempre in agguato.

Dovettero passare alcune settimane prima che si abituassero al mio nuovo stile e che potessi muovermi tranquillamente in casa senza i commenti sarcastici da parte di Gemma e quelli strappalacrime di mia madre. Non che mi importasse cercare approvazioni nelle altre persone: ormai ero cresciuto ma fu confortante sapere che avrei vissuto in tranquillità, almeno in casa mia.

Mi specchiai un’ultima volta: quella sera sarei dovuto andare ad una festa per il lancio del nuovo numero della rivista, quindi andava bene essere più appariscente del solito, no? Mi riavviai all’indietro un’ultima volta i capelli ricci e castani, ormai troppo lunghi, che mi sfioravano quasi le spalle. Avrei dovuto tagliarli al più presto in quanto cominciavano a darmi fastidio, ma non avevo il coraggio di farlo: se li avessi visti troppo corti avrei pensato al triste destino che li avrebbe attesi in futuro, ossia una calvizie molto probabile grazie ai geni di mio padre.

Mi stropicciai un’ultima volta il viso con le mani. Non c’era nulla da fare: quelle occhiaie sarebbero rimaste lì a contornare gli occhi verdi, che quel giorno sembravano più spenti che mai. Il volo da Phuket era stato stremante, ero saltato da un aereo a un altro provando anche il brivido di perdere il mio ultimo volo dato che mi ero appisolato nella sala d’attesa del mio gate: fortunatamente le urla e i capricci di un bambino che si aggirava vicino la mia postazione mi avevano svegliato in tempo.

Sarei voluto ritornare volentieri a quei giorni passati lì: avevano arricchito i miei ricordi in modo indelebile. La pace, la tranquillità e la calma regnavano di giorno in quell’isola, quel paradiso terrestre che si era lasciato immortalare in tutte le sue sfumature, dall’alba al tramonto, dalla mia macchinetta fotografica. Al contrario, durante la notte, la parola ‘tranquillità’ poteva essere dimenticata e tutto si trasformava in uno sfrenato divertimento: ed ecco a cosa erano dovute le occhiaie. 

La cosa bella del mio lavoro secondo i miei amici? Viaggiare in lungo e largo ed essere sempre abbronzato, anche d'inverno. Io, dal canto mio, pensavo che questa motivazione fosse la centesima parte di ciò che mi spingeva a vivere in quel modo. Viaggiare, conoscere nuove culture e persone e sentire il mondo ai miei piedi era come l’ossigeno per me e non ne avrei mai potuto fare a meno.

La cosa meno bella del mio lavoro? Viaggiare in lungo e largo ed essere sempre lontano dalla mia famiglia. Beh, decidere quando e se tornare a casa era una mia scelta, ma non potevo prendere il primo aereo e tornare a casa ogni qual volta che volevo: avevo delle responsabilità e la rivista mi teneva sempre occupato con nuovi lavori e nuovi viaggi. 

Non mi sarei mai lamentato di questi ultimi, anzi, mi ritenevo fortunato: quanti avevano fatto del proprio sogno il loro lavoro? La maggior parte dei miei amici del liceo erano ingabbiati in un lavoro d'ufficio con mogli e marmocchi a carico. Non c’era nulla di male in quella vita…pensavo solo che non fosse la vita adatta a me. Ho sempre cercato una via di fuga da quel paesino di 3000 abitanti che mi aveva visto crescere e ho sempre cercato di vivere a pieno tutte le esperienze che la vita mi presentava: ‘vai e conquista’, questo era il mio motto. Ero stato fortunato, lo avrei sempre ammesso. Ma soprattutto ero stato bravo, un maestro nel non permettere a nessuno, nemmeno a Lei, di farmi desistere dal mio sogno. 

A diciotto anni ero partito per New York per frequentare l’International Center of Photography e, appena laureato, avevo vinto un concorso per lavorare a una delle più importanti testate giornalistiche del paese come fotografo. Avevo lasciato indietro amici e famiglia per un sogno tutto mio, per il mio futuro. Avevo sempre pensato che fosse stata una scelta puramente egoistica e certamente non ero l’unico a pensarlo. E forse era per questo che, nonostante avessi 25 anni, non riuscivo ad andarne fiero fino in fondo soprattutto quando ne parlavo con mia sorella, mamma e Lei. Forse era proprio per questo che non tornavo così spesso a casa e mi convincevo che la scusa del troppo lavoro fosse una piccola bugia bianca. 

All’improvviso 'Baby' di Justin Bieber mi fece risvegliare dalle mie elucubrazioni mentali. Era davvero arrivato il momento di cambiare suoneria a quel dannato numero di telefono ma lo scordavo ogni volta. Non riuscii a trattenere un sorriso pensando a quello che mi ricordava quella canzone: eravamo ubriachi fradici quando avevamo impostato quella suoneria ma almeno in quella occasione avevamo una scusante…era la festa del diploma. 

"Dimmi Baby!" esordii allegramente rispondendo alla chiamata. 

"Scommetto che ancora non cambi suoneria...quanti altri anni durerà questa storia?" disse sbuffando il malcapitato all'altro capo del telefono.

"Mmm...fammici pensare un attimo Matt!" feci una breve pausa per poi ricominciare a parlare non tirando troppo la corda. "Almeno fino a quando tuo figlio non andrà al liceo!"

"Andiamo Harry! Ma se nemmeno ho un figlio!"

"Presto lo avrai Matt! Il passo dal matrimonio al figlio è molto breve!" gli risposi sarcasticamente. 

"Oh mio Dio, non ricordarmi del matrimonio. Ho passato una giornata da incubo tra abiti da damigella e fiori."

Il suo tono frustrato catturò la mia attenzione. "A proposito come va l'organizzazione?"

"Bene, se escludi Norah che mi coinvolge in ogni minima cosa. Ci è mancato poco che l'altro giorno mi svelasse l'abito da sposa...non mi interessa di quante candele sia giusto mettere sui tavoli, se il tacchino è troppo mainstream o degli addobbi in chiesa!"

"Wow amico...devi rilassarti! Ti sento sull'orlo di una crisi di nervi!” esclamai divertito e allo stesso tempo sollevato del fatto che non fossi io il futuro sposo.

"Non fraintendermi...amo alla follia Norah, lo sai. Vorrei solo sposarla e rendere quel giorno uno dei più belli della sua vita! L'importante per me è che lei sia felice e festeggiarlo con voi, con i nostri amici e la mia famiglia!"

Sorrisi a quelle parole anche se Matt non poteva vedermi. Ammiravo il rapporto che avevano quei due: nonostante i molti anni passati insieme, non avevano mai perso la complicità degli inizi e forse, prima o poi, proprio grazie a loro avrei cambiato le mie idee sul matrimonio.

“Per fortuna oggi c’era anche Eve…quindi non sono stato il solo a subire le follie di Norah…” fece uscire in un sussurro e con un tono incerto.

“Ah…e come sta?” chiesi con nonchalance.

“Bene…suppongo. Hanno passato tutto il tempo a blaterare su un certo Mike…” la voce ancora più incerta di prima.

“Ed ora chi è questo Mike?” a quel punto la mia curiosità era salita alle stelle.

“Bah…a quanto pare un ragazzo che Eve sta frequentando…e a quanto ho sentito è un tipo ok…potrebbe avere buone chance con lei…”

“Mmm…non me ne ha mai parlato…forse non è così importante…” risposi acido.

Insomma, se Eve avesse avuto un ragazzo me lo avrebbe detto. La conoscevo da vent’anni e se si fosse innamorata di qualcuno lo avrei capito e, soprattutto, lo avrei saputo anche se c’erano tutti quei chilometri a dividerci. Ne ero certo al cento percento.

"Harry...Harry! Ci sei ancora?!" sentii il mio amico sbuffare e mi ripresi subito dalle mie riflessioni. 

"Si sì! Eccomi!" dissi dopo essermi schiarito la voce ed essere tornato alla realtà.

"Ma che stai facendo? Sei distratto!"

"Non sono distratto...mi stavo vestendo! Mi sto preparando per andare ad una festa!" arrossii per la piccola bugia appena detta. Per fortuna Matt non poteva vedermi.

"Una festa?! Ma se è notte fonda!"

Dalle mie labbra uscì una risata genuina e scossi la testa. "Matt! Sono passati sei anni e ancora non ti abitui al fuso orario! Da te sarà anche notte inoltrata, ma qui a Los Angeles sono appena le 6 di pomeriggio! Ora ascoltami bene, sto per fare il mio dovere di testimone: rilassati. Ami Norah...concentrati solo su quello! Mancano 9 mesi al matrimonio, è solo questione di qualche mese e poi Norah ritornerà una persona ragionevole. Per ora dovrai soltanto tener duro, ok?"

"Ok..." mi rispose titubante. 

"Per il resto...quando vuoi prenderti una pausa dall'uragano Norah io sono qui! Disponibile ad ogni orario. Puoi chiamarmi quando vuoi! Ormai quella suoneria è musica per le mie orecchie!" ammisi scherzosamente. 

"Oh andiamo, sta zitto! Ora rientro in casa...prima che ‘l'uragano Norah’ mi dia per disperso! Domani dobbiamo decidere il colore delle tovaglie!" concluse con tono esasperato. 

"Piuttosto vai a dormire Matt! Ci sentiamo presto!" gli risposi con un velo di malinconia mentre accendevo la mia Range Rover per dirigermi verso Bel Air. 

Odiavo quella zona, quelle ville piene di fronzoli e quelle entrate trionfali che ostentavano ricchezza e arroganza: ero certo che anche quella volta ci sarebbe stata un’abitazione del genere a fare da sfondo all’evento. 
Ed infatti, appena varcato il cancello in ferro battuto, non venni smentito e rimasi sconcertato da ciò che si presentava davanti ai miei occhi: una fontana con annessi giochi di acqua e di luce occupava un terzo del giardino e un grande portico semicircolare segnalava l’entrata della casa, che, bianca e imponente, si stagliava davanti a me. Scossi la testa e andai avanti non facendo caso a tutti i pezzi di arredamento esclusivi che riempivano quella casa, ma cercando tra la folla i soliti visi amici, senza i quali non sarei mai stato presente a quell’ennesima festa.

Qualche ora e molti cocktail dopo, mi ritrovai seduto sugli scalini che affacciavano sul giardino retrostante la casa, lo sguardo fisso sui miei stivaletti di pelle nera e il legno consumato del pavimento a voler tenere sgombra la mente e a voler isolarmi dalla musica assordante proveniente dall’interno. Ero stanco, ero stanco delle solite ville, della solita gente, di quelle feste che finivano sempre nello stesso modo: con un me ubriaco e con un mal di testa lancinante il mattino seguente.

Forse fu per noia che alla fine presi il cellulare e cominciai a rivedere le foto presenti arrivando fino a quelle di qualche mese prima. E forse fu perché vidi un sorriso familiare insieme a degli occhi verde bottiglia e dei capelli biondi e non seppi resistergli che chiusi il rullino foto e chiamai, sfidando il fuso orario, l’unico numero che dopo anni ricordavo ancora a memoria.

“H-Harry?” una voce sottile mi raggiunse e all’improvviso mi sentii più vigile e attento.

“Eve…” biascicai lentamente: beh il mio corpo e i miei riflessi non erano poi così vigili.

“C-che succede? Ti è successo qualcosa? Devo chiamare qualcun-” non lasciai neanche che continuasse.

“Eve…è tutto ok! Ti ho chiamato perché…perché ho visto una tua foto e mi è venuta nostalgia…” Dannazione quei cocktail avevano il potere di farmi diventare troppo sincero.

“E da quando sei cosi nostalgico Styles?!” riuscivo a percepire del sarcasmo nelle sue parole.

“Da quando me ne sono andato e mi manchi, Eve. A te non manco? Mi hai già dimenticato?”

“Se non mi mancassi non starei a parlare con te alle 4 di mattina inoltrate…”

Beccati questa Mike!

Sentii un lungo sospiro e poi di nuovo la sua voce “Quanto hai bevuto, Harry? Da te sono solo le 8 di sera! C’è qualcuno che può portarti a casa?”

Sorrisi tra me e me prima di risponderle. Eve non sarebbe mai cambiata: era e sarebbe sempre stata una persona fin troppo gentile anche con chi non se lo sarebbe meritato affatto, come me. “Poco, ho bevuto poco. E tra poco mi riprendo e torno a casa, non preoccuparti mamma.” Dissi con un sorriso sghembo sulle labbra mentre sentivo un ‘non cambierai mai’ sussurrato proveniente da Eve. “Allora ti ho svegliato io oppure…?”

“Non mi hai svegliato, non preoccuparti. Non riuscivo a dormire e così stavo facendo un po’ di programmi per le prossime lezioni!”

“Anche da maestra sei comunque la solita secchiona, Eve!”

“Sei fortunato che siamo a 3000 miglia di distanza e che tra di noi ci sia l’oceano altrimenti ti eri già preso un bel pugno in faccia!”

“Oooh diventiamo violente! Mi piace!” dissi con strafottenza. Odiava quando facevo il cretino con lei, ma in quel momento mi sarebbe bastato anche infastidirla, volevo solo sentirmi come una volta in una serata no. La immaginai seduta ai piedi del divano, nel suo pigiama di pile, con mille fogli sparsi sul tavolino e un’espressione concentrata a corrucciarle il viso mentre leggeva chissà cosa. Viveva da sola in una piccola casetta ai limiti del centro abitato di Framlingham: dopo essersi laureata, si era messa in testa di voler ristrutturare da sola quella proprietà ereditata da un vecchio zio e nessuno era riuscito a farla desistere, nemmeno sua madre, in nessun modo. Contro ogni aspettativa, e con l’aiuto di qualche manovale del paese, era riuscita a raggiungere il suo scopo: dopo quattro mesi di duro lavoro, era lì sul dondolo del portico a godersi la sua indipendenza.
Mi destai dai miei pensieri e rimandai il rimuginare a più tardi: non avrei sprecato quei pochi minuti a immaginarla quando avrei potuto parlarle.

“Oggi ho sentito Matt…mi sembrava piuttosto sconvolto per la preparazione del matrimonio…” dissi cercando di non sembrare molto preoccupato.

“Mmm…diciamo che avere a che fare con Norah è difficile, lo sai. Ha tante idee ed è lunatica. Per Matt è difficile restarle dietro però sta reggendo bene la pressione, lo ammetto!” la sentii dire con tono sicuro quasi a rassicurarmi e un sorriso mi spuntò sulle labbra. “Pensa che a lui arriva soltanto il 40% delle idee che Norah propone a me…dovrebbe ritenersi fortunato!” concluse facendosi scappare una risata.

“Allora devo ritenermi fortunato per il fatto che a me arriva soltanto il 10%! È rilassante fare il testimone dello sposo a distanza…” dissi con un velo di ironia sentendo subito la risata di Eve seguire le mie parole e mi piaceva quando rideva a causa mia.

Cavolo! Non ero così melenso neanche a otto anni quando scrivevo lettere d’amore alla mia baby sitter…Avrei dovuto darmi un tono. E subito possibilmente.

Fortunatamente ci pensò Eve a distrarmi da quello stupido monologo interiore catturando la mia attenzione. “Mi è arrivata la cartolina da Phuket oggi…ti avrei scritto domani! Grazie…sembra davvero un posto bellissimo!”

“E lo è Eve. Sembra un paradiso, tutte quelle spiagge, il caldo, l’alba e i tramonti! È tutto perfetto! Dovremmo andarci insieme prima o poi! Oh, e uno scorpione mi ha quasi punto durante uno scatto!”

“Pensa che anche io oggi ho incontrato un animale pericoloso…era David Finch e mi ha morso la mano perché non volevo ridargli il suo giocattolo!”

Scoppiai in una risata genuina, una di quelle che non facevo da tempo, una di quelle che mi mancava di più da quando avevo lasciato Eve a Framlingham, ridente paesino inglese del Suffolk. Anche Eve alla fine dei conti aveva seguito i suoi sogni pur rimanendo legata a quel posto che per lei era una casa, ma che per me era una gabbia. Era rimasta lì, insegnava nella scuola elementare che avevamo frequentato insieme anni prima ed era felice di ciò che aveva. Almeno era questo quello che voleva trasmettermi ogni volta che la contattavo, ma sapevo che soffriva, quanto me o anche di più, per la distanza che si frapponeva tra noi due. Per questo la informavo costantemente con cartoline e ricordi su tutti i viaggi che intraprendevo e la prima persona che andavo a trovare, quando tornavo a casa, era Lei.

“Anche il mio è un lavoro pericoloso, Harry!” scherzò ancora.

“Il suo senso dell’umorismo è migliorato, signorina Thomas…” ribattei con finta superiorità.

“Tutto merito dei suoi consigli, signor Styles!” ed alle sue parole seguì un suo sbadiglio e poi un altro ancora.

“Sei stanca, Eve. Vai a dormire…riposa un po’!”

“Sì, papà!” continuò a scherzare.

“Eh sì, sei proprio migliorata!” sbuffai per poi ammorbidire il mio tono di voce per salutarla definitivamente. “Ci sentiamo presto. Buonanotte…anzi, buongiorno Eve.” 

“Buonanotte, Harry! A presto! E mandami un messaggio appena arrivi a casa!” mi disse con voce assonnata e tono malinconico prima di chiudere la chiamata.

Seguii il suo consiglio e dopo aver salutato qualche amico me ne andai a casa. Purtroppo non riuscii a salutare Louis, una delle poche facce sincere in quell’ambiente, perché sembrava fin troppo occupato con una biondina niente male e mi appuntai mentalmente che lo avrei chiamato l’indomani chiedendogli come fosse andata a finire la serata. Era un buon amico, uno di quelli che non si facevano problemi a dire brutalmente la verità anche se, in alcuni casi, sarebbe stata mille volte meglio una bugia: in quell’ambiente pieno di invidie e di arrampicatori sociali, però, conoscerlo ed averlo accanto era stata una manna scesa dal cielo.

Salii sulla mia Range Rover nera sovrappensiero e mi lasciai guidare dalle note malinconiche di una canzone che non conoscevo fino al vialetto del mio palazzo; non seppi neanche come arrivai a casa esattamente, forse ancora non mi riprendevo dal jet lag oppure dell’alcol era ancora in circolazione nel mio corpo. Tutto quello che feci, dopo aver varcato l’ingresso del mio appartamento, fu sedermi sul letto, ancora con i vestiti addosso, e guardare le ombre che gli oggetti sparsi per la camera generavano grazie alla luce al neon dei lampioni fuori la finestra.

Non appena mi distesi e poggiai la testa sul cuscino, chiusi gli occhi e mi ritrovai a pensare alla conversazione avuta poco prima con Lei. Pensai a quanto fosse bello parlarle e a quanto sentire la sua voce annullasse tutte le distanze: era come se il tempo non fosse mai passato e fossimo a parlare del più e del meno nel nostro posto preferito, il castello sulla collina, così lo chiamavamo in paese. Probabilmente era l’unica cosa di Framlingham che non avevo mai odiato: proprio perché mi riportava a Lei, mi suggeriva il mio subconscio.

Un sorriso comparve automaticamente sulle mie labbra, scossi la testa e mi stropicciai gli occhi con le mani: da quando pensarla mi faceva questo effetto? Eppure, anche se la mia ragione non voleva ammetterlo, mi mancava. Mi mancava di già nonostante avessimo parlato fino a un’ora prima al telefono e mi rendeva tremendamente vulnerabile.

Come avrei fatto ad aspettare altri nove mesi prima di vederla? Sarei dovuto tornare a casa prima del matrimonio di Matt e Norah? Avrei potuto, ma non avevo la certezza che il mio capo me lo avrebbe permesso. I pensieri si accavallavano l’uno sull’altro senza darmi tregua, senza arrivare ad una conclusione e i dubbi si insinuavano tra le mie certezze ogni minuto che passava.

Quello che mi stringeva il petto e appesantiva quel senso di mancanza era la nostalgia, era il ricordo costante di lei nella mia vita. Non vi era stato momento nella mia infanzia o nella mia adolescenza in cui non la ricordassi. C’era sempre stata per me: ogni volta che chiudevo quella telefonata ed eravamo così distanti mi sentivo così malinconico e solo.

Ascoltare la sua voce mi riportava a casa ed era una delle poche persone che riuscivano a farlo, che riuscivano a farmi desiderare di essere lì con loro ed abbandonare tutto.

Allora ogni volta cominciavo a chiedermi: se i miei sogni fossero stati più contenuti, se fossero stati quelli di tutti i miei amici del liceo, a che punto saremmo stati io e Lei? Avremmo provato a fare un passo nella stessa direzione? Ho sempre notato che lei provasse per me qualcosa che andava ben oltre l’amicizia.
Dal canto mio, non ero mai stato indifferente a quegli occhi verdi e limpidi, che sembravano leggermi l’anima ogni volta che il suo guardo si posava su di me, e a quel profumo di lavanda che ogni volta lasciava dietro di sé. Ricordavo ogni singolo dettaglio su di lei, e negli ultimi tempi la nostalgia di ogni momento passato insieme non mi lasciava mai in pace ma, fino a quel momento, non avevo mai avuto il coraggio di darle una speranza, di darci un’occasione.

Non potevo darle una speranza se io, per primo, non ero pronto ad accettare l’inevitabile, provare per lei dei sentimenti che con l’amicizia non avevano nulla a che fare. Accettarlo, accettare la parola ‘amore’, avrebbe significato abbandonare gran parte della mia vita attuale, e, fino a quel momento, non ero ancora pronto a farlo, non ero pronto a lasciare le spoglie del ragazzino con tanti sogni in tasca e vestire quelle di un uomo cresciuto con delle responsabilità.

Ma ho sempre saputo che per Lei, e solo per Lei, prima o poi l’avrei fatto mettendo da parte tutte le scelte egoistiche fatte negli ultimi anni. Mi ero sempre ripromesso di far avverare dapprima il mio sogno e poi quello che magari avremmo potuto condividere in un futuro insieme. Ora che mi ero affermato nel mio lavoro, era forse ora di smettere di pensare a quello che saremmo potuti essere, ma di pensare al presente. Non si trattava neanche di rinunciare ai miei obiettivi, ma soltanto di conformarli alla vita che io ed Eve avremmo voluto vivere insieme.

Avevo bisogno di Lei, avevo bisogno di non sentirmi più solo e di condividere le mie paure con qualcuno che fosse sempre stato pronto a sorreggermi se fossi caduto. Dal canto mio, dovevo far cadere quella maschera che avevo indossato in tutti quegli anni: era il momento di accettare la presenza di qualcun altro nella mia vita e di abbassare il muro che, egoisticamente, avevo erto per non intaccare il mio sogno.

Sogno. Quella parola ormai suonava come un peso insopportabile nella mia testa. Era diventata un fardello.

Avevo bisogno di sentirmi amato profondamente per la prima volta in vita mia da qualcuno che non fosse mia madre o mia sorella e di sentirmi stringere da quelle braccia sottili, bianche come il latte e piene di lentiggini. Lei le odiava, io le avevo sempre adorate, ed ora sognavo di contarle, una ad una: sarebbe diventato il mio passatempo preferito perché finalmente avrei potuto starle vicino senza barriere a dividerci, senza paura, senza maschere, solo io e Lei, solo Harry ed Eve.

Quella notte non riuscii a dormire, anzi, passai ore ed ore disteso sul mio letto con gli occhi intenti a guardare il soffitto poco illuminato della mia camera da letto. Non pensai a quanto lavoro ci sarebbe stato da fare l’indomani in redazione, né ai rimproveri che avrei ricevuto dal mio capo per la mia poca attenzione, pensai solo a Lei, a Noi.

Perché sì, ci sarebbe stato un Noi.

Finalmente lo avevo capito. Avevo capito però che Eve non avrebbe aspettato ancora molto. Avrei dovuto pensare a come riavvicinarmi a casa e a gestire il mio lavoro allo stesso tempo, avrei dovuto cominciare a parlarne con il mio capo, con la mia famiglia e anche con Louis, la persona che mi dispiaceva lasciare maggiormente.

Non appena lo avesse saputo, Louis mi avrebbe ucciso. Non avevo alcun dubbio. 

La presa di coscienza sui miei sentimenti per Eve era arrivata come un uragano e, come quest’ultimo era solito fare, aveva lasciato segni indelebili nel mio cuore. Soprattutto mi aveva insegnato che sentirsi vulnerabili, scombinare i propri piani e mettersi in discussione non era poi così male per un ragazzo che aveva sempre seguito la propria strada con fermezza. Dovevo fermarmi, anche per un momento, e guardare senza il filtro della lente della mia macchina fotografica tutto ciò che, in quegli anni, avevo costruito e ciò che avevo lasciato indietro, la possibilità di amare ed essere amato.

Non ricordavo quando esattamente riuscii a prendere sonno: oramai la luna aveva lasciato il passo ad un timido sole che penetrava tra le tende blu della finestra. Una cosa, però, rimase impressa nei miei ricordi di quella sera: quella canzone, quella canzone che passò alla radio mentre facevo ritorno a casa non fu mai più adatta a quella notte.

Could you take care of a broken soul?
Will you hold me now?
Will you take me home?

Perché quella volta Lei, la mia Eve, mi avrebbe davvero riportato a casa.

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