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•Capitolo 8•


/Jackson\

Adam sta iniziando ad essermi più tollerabile, il che è strano per me. Da quando ho aggiustato il catorcio di sua sorella, non passa giorno che non mi ringrazi, come se avessi fatto un miracolo.
Forse mi ringrazia perché ho preferito dire a Bern che era una mia vecchia automobile che ho aggiustato, in conclusione ho preferito non chiedere soldi.
Mi rendo conto di essere stato sgarbato, ma non posso fingere di essere un Jackson che non esiste più.
È morto su quel ponte, e questo che è rinato è solo un involucro avvolto in un cellofan. 

La sera mi confondo tra corpi pieni, dall'anima vuota.
Spero sempre di cercare emozioni. Le rincorro come linfa vitale, ma resta sempre un senso di inappagamento che mi logora e mi spezza.
Cerco diversivi in una vita che tira avanti per inerzia.
Mi destreggio tra i drink, qualche battuta maliziosa, e a fine serata c'è sempre un corpo caldo pronto ad accogliere la mia voglia impellente di fottere e scordare.
Voglio dimenticare, ma non avviene mai. Non accade niente. Tutto torna a galla, e io annego di nuovo nel dolore pungente. Nel ricordo del mio eroe.
Mi mostro forte, per farmi scudo di una debolezza che purtroppo esiste. È radicata in me.

Faccio spesso confusione sulla persona che realmente sono, e su quella che faccio apparire, tanto da non distinguere più le due estremità.
voi mi chiedete chi sono...io rispondo: sono ciò che vedete.
Ma voi realmente non guardate, poiché siamo esseri complessi, dotati di mille sfumature, dove se ne cogli una le altre restano celate.
Potrei dirvi chi sono, ma voi mi credereste?
É facile descriverci con le parole, ma non sono mai la verità nitida.
Io non mi mostro, non dimostro, non chiedo e non mi comprendo.
Non tentate di trovare qualcosa che non esiste, perché sapete quale frase ogni mattina mi ripeto, mentre vedo il mio riflesso?!
"Chi sei?" Perché neanche io mi guardo dentro, perché se lo facessi, saprei che poi mi perdo.
E preferisco perdermi nei mille corpi che si gettano addosso, prendendosi le mie colpe ad ogni affondo.

Chiudo la porta di casa con un tonfo.
Sembrava che avessi scampato i mostri del giorno, per rifugiarmi nel silenzio.
Ma sento dei bisbiglii melensi, provenire dal fondo del salone.
Avanzo lento e pragmatico verso quella direzione, e ciò che mi si para davanti mi urta il sistema nervoso, già difettato di per sè.
La riconosco subito.
La sorella di Adam.
Che cazzo ci fa lei qui? Precisamente accanto a mia sorella?
Con i capelli rossi rilegati in una coda morbida, che le scende sulla spalla sinistra, mentre é china a colorare con Violet su un foglio.
E sento una strana morsa allo stomaco, nel fermare il mio sguardo su quest'ultima.
Un lieve e dolce sorriso stende i tratti di quelle labbra piccole e sottili, rendendo le sue guance più piene.
E vorrei essere io al posto di questa, di cui non mi ricordo il nome. Ma nella mia testa ne ha uno preciso.
Non amo dare soprannomi. Li trovo noiosi. Urtanti. Insignificanti proprio come lei.
Eppure mi va. Mi va di affibbiargliene uno. Perché non ho altro da fare, se non farla arrossire di una gradazione sopra il colore dei suoi capelli fuoco.
Leí che di focoso non ha niente.
Andiamo...la sto vedendo, e non vorrei sul serio. Eppure le mie iridi verdi si sono rivolte da sole su di lei, che solo ora mi accorgo ha alzato la testa, e un timido sorriso affiora sulle labbra nude e carnose.
Saluto mia sorella, che come sempre sembra avere dell'ovatta nelle orecchie, e continua a colorare con il pastello verde.

«Ciao.» Accenna a bassa voce, la rossa. Sembra che sia un pettirosso che sta esalando il suo ultimo respiro, giunto alle porte del paradiso, davanti al signore mistico.

Innalzo un sopracciglio scuro, con noncuranza, e allo stesso modo afferro da dietro il collo la maglietta sudata e sporca di grasso nero, sfilandomela in un unico gesto.
L'appallottolo per gettarla sul divano, e mi sembra di sentire un lieve sussulto sbocciare da quelle labbra.
Infatti con la coda dell'occhio, la noto mordersi quello inferiore più pieno del superiore.
Non farti illusioni Dea alata. Non spiegherai le ali sulla mia aquila reale.

Le volto le spalle ampie, ma so e sento che le sue iridi azzurre e luminose, sono puntate su i miei muscoli della schiena.
Li avverto accarezzarmi affamati e al contempo timidi.
E me ne compiaccio, cazzo.
Tutte uguali.
Nessuna esclusa.
Prevedibili.
Potrei farle un fischio e lei come una cagna si metterebbe a quattro zampe, davanti alla mia figura imponente, che torreggerebbe su di lei.
Immagino il suo viso da santa, gli occhi brillanti di voglia, attraverso quegli occhiali rotondi che la fanno sembrare la signorina Rottermeier, o come cazzo si chiamava.
La sua lingua inumidirsi le labbra carnose, che aspettano in trepida attesa di vedermi abbassare la cerniera, e mostrarle la mia asta dura per inghiottirla con ferocia.

Invece apro con un rumore refrigerato che spezza il silenzio, il frigo e afferro una bottiglia d'acqua fresca.
Mi volto nuovamente, e purtroppo per lei la noto abbassare lo sguardo in un secondo.
Vuoi dirmi, che non mi stavi fissando?
Vorrei passarle dei fazzoletti. La immagino già guardarmi stralunata, scesa appena sulla terra ferma, e chiedermi a cosa le servono.
E lì come una bomba ad orologeria, spezzerei le sue convinzioni, con una stronzissima: avevi dei rivoli di bava agli angoli delle labbra.
Ma infondo non sono così stronzo.
Ma bastardo e arrogante, si.
Quindi decido di poggiarmi con nonchalance al top di marmo ticchiolato della cucina.
Le caviglie accavallate e le braccia conserte, mentre la mano stringe la bottiglietta che mi porto sulle labbra disidratate.

Lascio vagare il mio sguardo su i suoi mocassini beige, anti sesso. Anti rizzacazzo.
Quelli che ti fanno afflosciare l'uccello come una proboscide.
Dei piedi piccoli sicuramente, dato le dimensioni. Una cenerentola. Brutta copia intendiamoci.
Le caviglie esili, i polpacci affusolati, fino a risalire sulle ginocchia. L'unico lembo di pelle scoperto, poiché il resto viene occultato da tanta castità.
La gonna a ruota plissé su i toni del beige.
E dico, che fantasia di colori.
La versione invertita di Morticia.
Così anche il maglioncino panna, a collo alto. A girocollo sarebbe stato troppo arrapante.
Mi chiedo come ancora non mi é venuta la malsana idea di saltarle addosso.
Il volto ovale a aggraziato, come le piccole efelidi che lo ricoprono.
Le labbra piene e carnose, e devo darle atto, quelle sono davvero delle belle labbra.
Labbra da onorare come si deve.
Il naso piccolo e all'insù, e le lunghe ciglia che incorniciano le iridi azzurre, dove le pupille sono un piccolo puntino d'inchiostro che le sporca sensualmente.

«Tu sei la sorella, di Adam.» Mi pronuncio scazzato, poiché i suoi occhi sembrano immobilizzati su i miei pettorali.
Lo so che questa conversazione è già avvenuta in officina, ma credevo fosse la sua ragazza. Mentre Adam mi ha riferito che era sua sorella. Pensavo che non l'avrei neanche rivista, poiché sono passate due settimane.
La vedo deglutire fortemente e scuotere la testa, come se si fosse risvegliata da un sogno.
Sogni perversi, sua santa castità? Non si fanno, birbantella.

«Io? Io...Si» Tu, ovvio, cazzo! Lo penso ma non lo dico. Potrebbe mettersi a piangere, e me ne fregherebbe il gran cazzo, ma non voglio che Violet mi dipinga come un mostro.
La amo più della mia vita.
É la mia piccola principessa, rinchiusa nel castello del silenzio, barricata in una fortezza dove nessuno può entrare, dove lei non vuole uscire.

«Cosa ci fai qui?» Le chiedo incolore, e poco socievole. Mi annoio e parlo. Mi annoio e nella mia testa la sfotto.

Si sfila gli occhiali, per aferrare un pezzetto di stoffa e pulire le lenti, meticolosamente, rispondendomi.
«Sono la nuova tutrice, di Violet.» Mi getta addosso dolce come zucchero filato, quella bomba nucleare.
Ma che cazzo?!? Dove sono le fottute telecamere?
Deve essere stata mia madre a contattarla. Non vedo altre soluzioni illogiche. E tra tutte proprio lei.
Sto aspettando Ashley. Il che significa: Urla, Ansimi, Molle che cigolano, testiera del letto che sbatte contro il muro, sudore, preghiere.
E non certamente quelle che conosce la cristiana fedele qui presente. La chierichetta.

Noto che guarda mia sorella, con le iridi piene di amore.
Ci tiene. La vuole aiutare. Inconsapevole che nessuno può. Che lei non può riportare in vita nostro fratello. Il mio pezzo mancante.
Non sarò mai completo.
Vivo per inerzia.
Consapevole di avere un'organo in meno, il più importante.

Mi stacco con uno slancio dal top, per avvicinarmi a lei, che deglutisce e non molla il mio sguardo, come a captare se l'attaccherò.
Se sarà il mio agnello sacrificale, o la risparmierò.
Le sono vicino, e mi abbasso su di lei. Il mio respiro le accarezza la cartilagine dell'orecchio. Anelo il suo profumo di paura e ciliegio.
Un connubio letale per un lupo come me.
«Non abbiamo bisogno di te, Rossa. Sto aspettando un'ospite, non so se voi cattolici praticanti, potete capire l'antifona. Ma mi sembri abbastanza intelligente, da intuire che devi togliere le tende, prima che mi spoglia davanti a te.» Le sussurro rauco e intenso, come un vero bastardo, e la sento strozzare un sussulto infondo alla gola.
«Ma forse vorresti partecipare? Assistere? Non sei la benvenuta.» La spezzo con quest'affermazione cruda, che mal combacia con il mio tono caldo.
E la vedo ora, stizzirsi, e innalzare la testa fiera.
Tira fuori le unghie la gattina cattolica.

«Ammirevole la tua convinzione, cazzone.
Continuerò a lavorare con Violet, quindi...» Si alza con eleganza, perdendo quell'aria spaurita e si china a sfiorare con le labbra il mio lobo. Un gesto che mi provoca un colpo sotto la cinta, come un vero cazzone. L'epiteto della suora.
«Fattene una ragione, Thomson.» Afferma sprezzante e come un dispregiativo mastica il mio cognome, prima di afferrare la mano di Violet, e condurla verso la porta.

«Dì a tua madre che Violet é con me, alla gelateria, se non sei troppo impegnato a capire come s'infila il bruchetto.» Cazzo, mi ha steso. E neanche ho potuto ribattere, poiché ha sbattuto con un tonfo sonoro la porta.
Dea stronza. Ecco il suo soprannome. Ecco il mio nuovo passatempo.

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