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•Capitolo 6•



/Jackson\

Ho iniziato da quasi una settimana l'università.
All'apparenza è come le altre.
I gruppi di ragazzi sono sempre i soliti.
Noioso e banale, sono le uniche parole che posso usare per descriverlo.
Io in quale gruppo rientro? Non me lo chiedo e neanche mi rispondo.
Non rientro in nessun gruppo. Nessuna classifica.
Svolgo solo ciò che voglio. Adempio ai miei compiti da studente.
E resto invisibile.

Invisibile. Questa parola mi è sempre rimasta affascinante. Curiosa.
Come puoi essere invisibile? Almeno che tu non sia uno dei Fantastici 4, beh, cazzo, non puoi esserlo.
Eppure io lo sono. Cammino per il campus.
L'erba umida che sembra finta, da quanto è perfetta e lucida sotto questo sole che picchia. Ringrazio il dolce refolo di vento, che mi smuove i riccioli neri.

Controllo l'ora sul display dello smartphone, constatando che tra meno di un'ora devo andare da Bern.
Altre auto d'aggiustare. Devo mangiare, e cambiarmi. Prima di tutto preparare il pranzo per Violet. L'ho lasciata con la signora Jhonson e l'ultima cosa che voglio, è che assaggi le sue leccornie.
Non avrei modo di rimanere a casa a curare un virus intestinale.
Sono ancora alla dannata ricerca di una tutrice.
E la falsa Parker mi aveva anche lasciato un messaggio, con dei nomi di vari istituti dove vi sono tutrici ottime.
Non l'ho voluto visitare, chiamare, neanche uno.
Io non ho bisogno di nessuno.

Srotolo tra le dita, il filo bianco delle cuffie, che come sempre si annoda e mi lascia imprecare.
I ragazzi si radunano in gruppi. Parlano di stronzate. Di come accaparrarsi l'ultima preda appena giunta. In che posizione fottere le ragazze che accalappieranno, come se fossero delle cagne e loro gli accalappia cani, per sbatterle in un recinto, che sarà il loro letto.
Le ragazze civettano tra loro.
La band degli sfigasassofoni (gli sfigati Nerd che suonano sassofoni e trombe, ma non trombano) creano un sottofondo che mi strazia i timpani. Ma ho le mie cuffie, e chi cavolo lì sente?
Le mani affondate nelle tasche del jeans sdrucito.
Tiro in avanti le spalle per aggiustarmi la giacca di pelle, e lo zaino nero.
Profilo basso. Testa china. Il mondo fuori falso, spento.
Il mondo dentro vero, acceso.

E sto per pigiare quel dannato pulsante che indica fiero -Play-, se una voce stridula non m'interrompesse, seguito dal passo frettoloso delle sue sneakers.

«Sei sordo? Sei autistico?» Mi domanda curioso, una voce roca a tratti affannata e petulante, a pochi passi da me.
Sono convinto che parla proprio con il sottoscritto, e mi convinco che l'invisibilità non esiste. Tu credi di esserlo, ma c'è sempre qualcuno che si accorge di te.

Giro appena metà volto, per guardare di tralice, chi possa essere la causa del mio improvviso cambio di umore.
Pel di carota di cui non conosco il nome e neanche me ne frega di saperlo. Mi volto lentamente dalla sua parte, con aria scazzata e indifferente, guardandolo da oltre le lenti a specchio dei miei Ray-ban. Io, invece, mi domando che cazzo di domanda sia la sua. Se l'ha pensata e ragionata prima di cagarla fuori dalla bocca piegata in una linea sbilenca, o se il suo cervello non colleghi bene il filtro, e faccia fuoriuscire parole come merda liquida.

E certe volte vorrei. Oh sì, cazzo se vorrei essere autistico. Perché sarei compreso di più in questa società. Sarei lasciato perdere. Attirerei meno sguardi. Meno interesse. Avrei un valido motivo per non punirmi.
Ma è per questo che io non sono morto nell'incidente avvenuto con mio fratello. La vita mi sta punendo per aver distratto Kyle alla guida con la mia litania stupida e straziante: "Kyle fammi guidare, ti prego, ti prego, dai, è il mio compleanno."
Il mio fottuto compleanno.

Sei una testa di cazzo marcia. Mi voglio ferire a parole, Perché quelle fanno più male di qualsiasi dolore esterno.
Mi voglio flagellare ancora di più dentro, fino a non capire più chi io sia, benché neanche adesso io lo sappia.

«Ehi, parlo con te...sei Jason Thomson, io sono Adam Spencer, frequentiamo lo stesso corso di biologia.» Persiste nel suo sproloquio, come se davvero lo stessi ascoltando. Ma ormai non sento più niente. Neanche il suo nome. Perché mi sono fermato al mio...Jason.
Così mi chiamava Kyle, per diminuire Jackson.
Serro le palpebre, coperte dalle lenti nere, per non mostrare le mie occhiaie violacee e le iridi verdi spente e arrossate, segno di notti insonni e abuso di pasticche per gli attacchi d'ansia.
Stringo la mano a pugno, tanto da sentire le vene schizzare sotto pelle e i muscoli tendersi come corde di un violino, pronte a essere suonate, pronto a suonarle.
La pazienza che si sta dissolvendo. La furia che scalpita e scalcia. Il dolore che riaffiora. L'autocontrollo che va a puttane, come me che le fotto ogni sera una diversa.
Unico diversivo per resettare il cervello infetto.

Mi avvicino fulmineo verso pel di carota. Un sorriso incurvato all'insù si affaccia su quelle labbra sottili contornate da piccole efelidi, come dei baffi.
Ma non ha capito le mie intenzioni, e infatti quando allungo una mano verso di lui, lo vedo abbassare sempre di più l'angolo del labbro e le pupille ingigantirsi vistosamente. Ma prima che si possa scansare o arretrare come un granchio, l'ho già afferrato dal colletto della polo che spunta dalla giacca cognac del giubbotto in pelle stile aviatore, e lo avvicino con prepotenza al mio volto sfigurato dall'ira che ha scatenato solo il sentire il mio nomignolo.
E non vedo le persone del campus attorno a noi. Forse ci accerchiano, come se stessero assistendo ad un esibizione da circo.
Forse si fanno i fatti loro. Forse vicino, forse lontano.
E sono i forse che fottono, e riempiono il mio cervello, di altre parolacce che insozzano.

Sento il suo respiro farsi affannato e pesante, e di scatto ritira appena il volto all'indietro come una tartaruga che si vuole richiudere nel suo fedele guscio.
Ma non mi lascio impietosire.
Un sorriso ora si apre sul mio volto. Un sorriso malevolo e derisorio. Dispregiativo come il tono tagliente che mi esce fuori, quasi incavato e roco da quanto poco parlo.
«Non osare chiamarmi in quel modo. Sono Jackson. Per te invece sono, nessuno. Questo è il mio nome. E ascolta bene la mia voce, perché non sono autistico, sono semplicemente uno Stronzo che non si confonde con gli sfigati.» Mollo velocemente e di colpo la presa dal suo colletto, che avevo serrato fortemente nel pugno saldo della mia mano, e lo noto barcollare leggermente su se stesso.
A questo punto dovrebbe sentirsi intimorito. Farsela sotto come lo sfigato che è. Invece che cazzo fa questo coglione pel di carota?
Mi sorride. Cristo Santo, il coglione mi sorride.

«Tu sei grande...amico.» Afferma brioso come lo sfavillio che hanno riassunto le sue iridi caramello.

Amico?!
Vorrei dirgli: "Chi cazzo ti conosce."
Ma ammetto che resto basito e con le labbra disidratate, mentre un'auricolare scivola e resta penzolante sul mio petto.

«Ti volevo ringraziare. Sei sempre sfuggente, e ti ho riconosciuto.» Mi passo esasperato e con uno sbuffo che esce dalle narici come un toro in un'arena, una mano tra i riccioli che mi solleticano in modo fastidioso la fronte.
Esattamente come lo è lui.
Ma cosa cavolo va blaterando?
Devo prendere parola.

«Ascolta...come dire. Non so chi cazzo tu sia. Benché meno che cazzo tu voglia. Non ho voglia di tirarti un cazzotto per vederti piangere e correre dalla mammina. Quin...» E giuro che stavo per finire la mia spiegazione logica e incolore, sul perché mi stia ancora gironzolando intorno come un cagnolino in cerca di croccantini, se non mi avesse interrotto.

«la scorsa settimana. Mi hai salvato da due ragazzi della Sant Clare University.» Afferma limpido come questo sole che mi urta i nervi, e riscalda la pelle del giubbotto.
Ritorno indietro ad una settimana fa.
All'incontro con Zoe. Con Susan.
E sì. Devo concordare con Pel di carota, che l'ho salvato. In realtà era solo un modo, un diversivo come sempre, per scaricare la mia frustrazione verso due che se la stavano cercando.
E così era lui?!
Come cavolo è microscopico il mondo.
Certe volte si dice "la Sfortuna".

«Quindi?» Alzo il mento indifferente,strappandomi anche l'altro auricolare che mi infastidisce ora come ora.
«Vuoi un mio autografo? Una foto?» Lo beffeggio sarcastico, contenendo un risolino che vorrebbe uscire e addolcire per un secondo i tratti del mio volto. Ma proprio non ci riesco.

«Veram...» Lo noto stopparsi, e il tono scemare, come un giocattolo parlante che sta per esaurire le pile, e le sue iridi caramello splendere di un bagliore luminescente. Le pupille ingigantirsi come un frisbee, puntando verso un qualcosa al di là delle mie spalle.

Mi volto giusto per mera curiosità, e nel breve tragitto che compio la torsione, vedo dei capelli rossi come il sangue, brillanti come fuoco scoppiettante, fluttuare liberi nell'aria.
La corsa leggiadra, dove le nappine dei mocassini sbatacchiano da parte a parte, e la figura di questa ragazza avvicinarsi lesta, mentre apre le labbra per dar voce a ciò che il cervello le ha comandato.

«Adam.» Grida con tono carezzevole e armonioso, il nome di pel di carota, che resta fermo come un soldatino di piombo.

E adesso dovrei andarmene sul serio.
Lasciarlo amoreggiare con Merida, del cartone. Informazione che so grazie ai dvd di Violet, e finalmente salvarla dalla Signora Jhonson.
Invece rimango anche io come una statua di sale, sotto il sole. Mio acerrimo nemico.

«Sky? Che ci fai qui?» Guizzo gli occhi da parte a parte, e nel momento che si avvicina, rallenta il passo, comincia a camminare, e le iridi che ora noto azzurre come il cielo, come il suo nome, da prima piantate su pel di carota, tergiversare lentamente sulle mie nascoste.

Il suo sguardo scorre sinuoso come seta raffinata, su tutto il mio corpo, senza lasciare neanche un piccolo squarcio, e posso già capire dove si fermano per un'istante di troppo quelle iridi da finta casta.
«Sono venuta per te, e per una nuova offerta di lavoro.» Risponde lineare come il modo in cui innalza le spalle. Dovrei davvero dirle che suo fratello è qualche centimetro più a destra, e che in questo momento sta parlando con il mio membro, a cui almeno non debba appoggiarci le labbra, delle sue parole gliene frega il beato cazzo.

Ma in tutto questo, preferisco defilarmi, prima che Merida scompaia e pel di carota torni alla ribalta.
Potrei salutare, invece mi rimetto gli auricolari, punto di nuovo i miei occhi attraverso le lenti, su i suoi che si aggrappano e si specchiano attraverso esse del suo riflesso.
Le sue dita che si sfiorano suadenti il profilo del collo, per raggiungere la nuca, e raccogliere i capelli ribelli in una coda.
I miei indomiti che si librano nel vento.
Le nostre labbra piegate in una linea retta.
Le nostre gambe che si muovono.
Le sue che si fermano dopo due secondi, passandomi di fianco, le mie che velocizzano il passo.
Annuso la scia di profumo floreale che lascia come una nube tossica.
Noto sfacciato le sue labbra carnose che si schiudono lentamente.
I nostri occhi abbandonarsi pigramente, come se volessero gustarsi le parti del corpo ancora inesplorate, solo per un altro pò.
Le sue ciglia lunghe e folte sbattono come ali di farfalla.
Il muscolo sulla mia guancia vibra, quindi spezzo l'incantesimo.
E me ne vado con Pel di carota che mi chiede di aspettare.
Non ho tempo.
Non aspetto.
Torno ad essere invisibile. Silenzioso.
E finalmente pigio il tasto -Play- sulla traccia:
-Enter sandman, Metallica.-

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