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Save private Will

Finalmente dopo una settimana di attesa, Azue scrisse come era diventata Zombie.

La sua storia fu letta ad alta voce da Letia. Nonostante fossero passati due anni dall'Apocalisse e l'invasione degli Spenti provenienti dall'Africa, la sua storia non era densa di eventi. Prima di diventare una Zombie aveva passato mesi in fuga alla ricerca di un posto sicuro, da sola e sfidando le immense distese di nulla della Russia. Tentando di arrivare in Giappone era stata morsa da uno Spento e da quel momento in poi aveva vagato per mesi alla ricerca di cibo, finché non aveva trovato un bunker pieno di vecchietti spaventati dove aveva passato la maggior parte del suo tempo, mangiando lentamente le sue povere vittime una ad una. Non scrisse però come aveva perso la mascella nei dettagli e nessuno chiese ulteriori spiegazioni, temendo di offenderla.

Rokuya invece era ancora restio a rivelare qualsivoglia informazione sul suo passato. Passava tutto il tempo in silenziosa meditazione ed osservazione. E soprattutto, sembrava fissarmi con un misto di odio e curiosità. Quelle attenzioni erano inquietanti.

Si decise di ripagare la fiducia di Azue, e magari stimolare quella di Rokuya, riunendoci verso sera per raccontare, almeno in parte, il nostro passato. Il primo a raccontarlo sarebbe stato Will.

Durante il giorno Azue e Letia girarono per il centro commerciale, mentre io convincevo Will e Dorian a chiudere al sicuro le nostre armi.

Dorian, con mia grande sorpresa e rammarico, non era d'accordo «Dobbiamo dimostrarci collaborativi. Mostrare sospetto non servirà a tranquillizzare gli animi. Cerchiamo di non essere paranoici e lasciamolo pure accedere alla nostra armeria. Non credo abbia voglia di tentare la fuga o una qualche sorta di suicidio.»

«No, ma potrebbe cercare di ammazzare noi!» Ribadii io.

«Ne abbiamo già parlato... noi non siamo umani. Non ci scanniamo per cibo come fate voi. Non prendiamo in considerazione nemmeno lo zombicidio!» Replicò Dorian.

Effettivamente, apparentemente gli Zombie fra loro non potevano ammazzarsi. Una sorta di inibizione da parte del virus forse, che rendeva impossibile per gli infetti uccidersi per ottenere del cibo. Mi chiesi se non riguardasse una sorta di gerarchia del branco, per cui in caso di contrasto con altri gruppi la regola d'oro del non uccidere andava a farsi friggere.

La frase di Dorian però mi fece pensare: per loro uccidere e divorare gli umani era come per gli umani uccidere una gallina. La cosa mi faceva ancora un po' effetto, ma probabilmente era solo il fastidio di non essere più al vertice della catena alimentare.

La sera, tutti attendavamo la storia di come Will fosse diventato Zombie. Infatti né Dorian né io avevamo visto la sua trasformazione, benché ne fossimo in parte responsabili.

Will era apparso una settimana dopo che avevamo attaccato la guarnigione dei soldati mandati a spegnere il reattore nucleare, scoprendo solo in seguito che anche lui ne faceva parte.

Eravamo tutti seduti nel ristorante "Old West Food", un locale molto curato nell'arredamento, a imitare lo stile di un vecchio Saloon. Mi sedetti dopo aver fatto scorta di bevande gassate e noccioline alla paprika. A farci compagnia c'era anche il vecchio Nelson: uno scassatissimo gatto nero a pelo lungo, che ormai era diventata la mia ombra. Gli animali di qualsiasi genere erano assolutamente ignorati dagli infetti, e qualora disturbavano gli Spenti, questi li mandavano via infastiditi, come fossero mosche. Persino il virus non sembrava voler a che fare con loro.

Will iniziò il suo racconto dopo che tutti si furono accomodati.

Partiamo dal briefing, che quando terminò ci lasciò tutti come idioti. Era chiaro saremmo morti tutti.

Alzai la mano per chiedere la parola.

«Sì, William, dica.» La voce del maggiore Torbeyich era rauca, nella sua vita aveva urlato troppo o fumato troppo.

«Quando torniamo, ad attenderci ci saranno le nostre vergini da scartare, Signore?»

Il maggiore non apprezzò la battuta, ma non tentò nemmeno di illuderci inutilmente sulle nostre chance. Alle sei del mattino, due ore dopo quel briefing, l'elicottero si staccò da terra, e si diresse verso il nostro obbiettivo: la centrale atomica WC 34. Circondata da un'orrida palude, raggiungibile soltanto tramite due strade asfaltate oppure in volo, era quel genere di operazione che persino geograficamente ti mettevano i bastoni tra le ruote.

La missione era soltanto apparentemente semplice: tappare il sarcofago che proteggeva il nocciolo, assicurarsi rimanesse chiuso e scoprire perché le misure di sicurezza non fossero scattate in funzione.

Sembrava facile sulla carta, dopotutto si poteva raggiungere la zona in elicottero, ma la squadra di prima non aveva fatto ritorno e avevano raggiunto la sala comandi, prima che le comunicazioni si interrompessero. Sapevamo soltanto che qualcosa aveva impedito loro di completare il loro obiettivo: la centrale, secondo le telemetrie della base operativa, restava attiva e potenzialmente pericolosa. Quindi, toccava a noi finire ciò che i colleghi di prima non erano riusciti a fare.

Il rumore delle pale dell'Osprey mi rombava nelle orecchie e ricordo che persino in quell'istante qualcosa non stava andando come previsto: l'aeroplano doveva subire delle riparazioni, i rotori stridevano in modo inquietante.

Come prima di ogni missione, eravamo tutti silenziosi. C'era tanto in ballo, così c'era tanto di cui pensare. Ognuno ricordava ciò che aveva perso, ciò che ancora non aveva perduto e a ciò che sperava, prima o poi, di riprendersi.
Io, d'altro canto, ero uno di quelli che venivano definiti, con rispetto e paura, "Dead men Walking": uomini morti che camminano. Un tempo, facevo parte di una squadra composta soltanto di questo genere di individui, ma io ero l'ultimo rimasto del precedente gruppo di disperati che avevano perso tutto, tranne la voglia di combattere e di vendicarsi. Ironicamente, ero sempre stato destinato a finire in quella categoria: tutto il mio mondo era bruciato durante un incendio, un incidente che mi aveva portato via moglie e figlia. Sopravvivendo alle fiamme che divorarono la mia casa e tutto ciò che amavo, fui costretto a morire un pezzo alla volta ogni giorno. Purtroppo, ero troppo codardo per suicidarmi e, sembrava, troppo fortunato per morire.

Di solito alleggerivo la tensione con qualche battuta, ma in quell'occasione preferii rimanere in silenzio, certo che non ci fosse il pubblico adatto. Credo che non lasciarmi andare nemmeno in una freddura portò sfortuna, ma inutile piangere sul latte versato!

Il Tenente a capo dell'operazione era un ex addestratore che era riuscito a raggiungere gli elicotteri dell'evacuazione da solo, fuggendo per giorni nei boschi ed evitando le strade. Un veterano che conosceva molto bene quelle zone.
«Tra dieci minuti si scende, signori. L'Osprey atterrerà sul tetto, così potremo scendere in silenzio ed evitare di attrarre troppi bastardi. Ci fionderemo verso il centro operazioni, chiuderemo il sarcofago e subito dopo faremo una veloce ispezione. Questo è tutto. Domande, dubbi? Confessioni? Cazzi? No, bene. Pregate in quello che volete e poi preparatevi.» Il Tenente si risiedette.

Guardai fuori dal finestrino e mi trovai a scrutare la centrale dei Simpson. Due giganteschi camini in cemento, vari prefabbricati tutto intorno, un recinto che circondava la centrale e misure di sicurezza ridicole. Probabilmente entrati nella camera delle operazioni avremmo trovato un ciccione calvo e grasso con una maglietta bianca e dei jeans blu che mangiava ciambelle...

Scendemmo e ci muovemmo velocemente verso la sala operazioni, eliminando ogni Spento che trovavamo sulla nostra strada usando le armi silenziate. Da tetto del primo capannone, un prefabbricato composto da giganteschi pannelli di metallo senza alcuna finestra, potevamo scendere direttamente agli uffici amministrativi e poi verso il nostro obiettivo.

Non appena entrammo nella zona amministrativa, alcuni Spenti ci vennero incontro. Non era la prima volta che li vedevo ovviamente, ma ancora, ogni volta, provavo un forte moto di repulsione. Avevo partecipato a guerre, missioni di salvataggio, cacciato terroristi, mercenari, corrieri, schiavisti. Avevo visto spesso uomini morire in modo atroce, tra sofferenze allucinanti. I loro occhi, per quanto quegli uomini cercassero di farlo, non potevano nascondere la loro paura, il loro terrore atavico di morire. Con gli Spenti, però, era diverso: i loro occhi erano vuoti, senza emozioni, così come i loro corpi erano spinti da una forza irrefrenabile. Si scagliavano contro di te, per picchiare, graffiare, mordere e infettare.

Sparargli in testa. Non pensare troppo. Non dar loro tempo di urlare. Due regole essenziali per non perdere la vita e la ragione.

Celermente raggiungemmo la sala operazioni, con pochissimi ostacoli lungo il cammino. Una volta dentro il centro di comando, non trovammo Homer, ma soltanto una Spenta che forse un tempo poteva sembrare provocante con la maglietta attillata che poco lasciava all'immaginazione. La sala in questione era un gigantesco ufficio, pieno di computer, apparecchiature traboccanti di bottoncini colorati, monitor attualmente spenti ed un solo distributore di snack.

Tutto era rimasto più o meno come nel momento in cui tutto era finito: bottiglie di acqua posate vicino alle testiere, radioline con attaccate le cuffie, scartoffie a cui nessuno dava più peso, Mars aperti lasciati a stagionare sulle scrivanie, foto di famiglie distrutte, di macchine ormai inutili, di luoghi di villeggiatura vivi soltanto nei ricordi dei sopravvissuti e mozziconi di sigarette abbandonati nei posaceneri.

Gli specialisti si fiondarono alle console, cominciarono a premere tutti i bottoni possibili. Alcuni monitor non funzionavano più, certi pulsanti andavano a vuoto, ma fortunatamente i sistemi di sicurezza potevano ancora essere utilizzati.

Due dei miei compagni (di cui, ahimè, non ricordo il nome) erano accanto ai monitor della sicurezza: gingilli davvero sofisticati per una centrale che aveva i sistemi di sicurezza degni della casa di Topolino.

«Ascoltate gente! Ora sappiamo perché i sistemi di sicurezza non hanno funzionato: la centrale è divisa in due. Il blocco in cui siamo ora funge da uffici e sala da controllo ausiliario. Il secondo si trova più in profondità e ovviamente funge da struttura primaria. A causa di un guasto ai livelli inferiori non possiamo attivare i sistemi di chiusura del sarcofago da qui.» Il Tenente si spostò verso la porta da cui eravamo entrati.

«La squadra Alfa verrà con me, la squadra Bravo rimarrà qui insieme alla squadra Charlie. La porta da cui siamo entrati è l'unica uscita, dovete proteggerla ad ogni costo.»
Non ero nella squadra Alfa.

Passarono pochi minuti. Il team Charlie si sparpagliò negli uffici antistanti per assicurarsi che nessun non-morto ci cogliesse di sorpresa. Purtroppo, bastava che anche solo uno di quei cosi per mandare tutto all'aria. Silenziosamente, uno Spento arrivò quasi alla porta della sala operazioni. Quando ce ne accorgemmo, era troppo tardi.

Era un non-morto in giacca e cravatta, pelle grigia, venature bluastre, occhi neri. Il suo urlo, purtroppo, non riuscimmo ad evitarlo. Il colpo che gli sparammo alla testa arrivò tardi.

Non ci fu tempo nemmeno per le domande. Sapevamo che presto una valanga di infetti avrebbe invaso la centrale. Accadeva sempre ed infatti dall'esterno al primo richiamo ne seguirono altri. Molti altri.
Che fine avevano fatto gli uomini di guardia? Perché non avevano dato l'allarme? Possibile che uno solo fosse riuscito a uccidere dodici uomini armati, furtivamente? Impossibile... forse erano semplicemente fuggiti...

Quando sbirciai fuori, trovai alcuni dei miei compagni a terra, morti. Pochi secondi dopo, l'ondata arrivò. Un coraggioso corse alla porta tagliafuoco e lanciò una granata, per poi sprangare la nostra unica uscita. Per assicurarsi che rimanesse chiusa ribaltò una gigantesca console ed iniziò a spostarne un'altra. Questo ci dava un po' di tempo.

Le scrivanie furono ribaltate e messe di fronte alla porta come ostacoli. Le torcee delle armi furono accese, illuminando l'entrata a giorno, mentre ventuno mitragliatori M 16 si preparavano a scatenare l'inferno.

Mi ricordò un film, uno di quelli in cui dove i buoni morivano. In quel momento mi resi conto che il mio tempo era agli sgoccioli.

La valanga arrivò esplosiva e trascinò con sé molti dei miei compagni. Gli Spenti spalancarono la porta e noncuranti dei proiettili che dilaniavano la loro carne, spezzavano le loro ossa e distruggevano i loro muscoli, raggiunsero la prima fila. Senza pensarci troppo, ordinai a tutti di darsela a gambe. Lo spettacolo era sempre quello: finiva sempre male. Ormai, la missione era fallita e l'unica cosa che contava era sopravvivere.

Mi resi conto però che la fuga non sarebbe stata una cosa tanto facile. L'unica via d'uscita era un condotto di ventilazione al livello del pavimento. Una volta dentro era quasi sicuro che ci avrebbero inseguito.

Spaccammo la grata e ci fiondammo dentro. Passai per secondo. Dietro di me le urla dei miei compagni. Le urla degli zombie che di umano non avevano più nulla. Urla uguali al gesso stridente sulla lavagna.

Nel buio del condotto di ventilazione, estremamente stretto, riuscimmo a passare. Arrivammo ad un'altra grata e una volta aperta tutti uscirono precipitandosi verso la salvezza. Uno dei soldati era rimasto in fondo.

«MUOVITI IDIOTA!» Gli intimai.

«N-n-n-n non ce la faccio... io non...» Balbettò lui.

«Manca poco, ancora un piccolo sforzo! »

«Troppo stretto... stretto... troppo...»

Claustrofobico. Sembra proprio che alcuni non abbiano abbastanza fortuna per sopravvivere. Era riuscito a fare solo pochi metri dalla grata. Poi le sue fobie avevano preso il sopravvento.

«Avanti... manca poco! Vieni qui! Poi sarà tutto finito!» Gli mentii, sapevo sarebbe solo stato l'inizio.

Fu inutile. Alcuni di quei cosi lo afferrarono per le gambe. Il rumore delle sue carni dilaniate fu zittito dalle sue urla di dolore. Guardai per un attimo il suo corpo che colto dagli spasmi sbatteva contro le pareti del condotto. Afferrai una granata, la lanciai e chiusi la nostra entrata. E forse anche l'unica uscita.

«Andiamo... dobbiamo raggiungere l'ascensore!» Esclamò uno degli specialisti davanti a me.

Uscimmo dall'ufficio. Ci ritrovammo in un lungo corridoio dalle pareti bianche e con una triste moquette grigia. Lo specialista consultò il suo pad, poi prese la destra. Incontrammo alcuni Spenti sulla nostra strada. Sparammo loro con le pistole per evitare sprechi di munizioni di mitra, rimaste poche dopo lo scontro.

Al termine del corridoio ne imboccammo un altro. Questa volta una delle pareti era composta da un'unica grande finestra che mostrava lo stabilimento sotterraneo. Era molto più grande di quanto potessi immaginare. Per accedere al reattore vero e proprio bisognava superare un lungo ponte che collegava le pareti dello stabilimento centrale, divise da una voragine artificiale.

«Non possiamo fare tutto il giro! Sfondiamo le finestre e scendiamo!» Urlò un tizio alla mia destra. Sulla divisa aveva scritto Rocket-man... Che razza di tamarro.

L'idea era buona e decidemmo di seguirla. Ma sfondare le finestre in plexiglass non fu così facile. Dovemmo usare una carica di C4 per incrinare il vetro e poi spaccarlo a forza di pugni e calci, cercando di non fare troppo rumore. Gli infetti erano sulle nostre tracce e un'esplosione avrebbe destato la loro attenzione. La minuscola dose di C4 incrinò il vetro e con le mani creammo un buco abbastanza grande da far passare un uomo. In fretta e furia legammo le corde e ci calammo lungo la parete di cemento, fino a raggiungere la passerella a ridosso della stessa.

Di fronte a noi si stagliavano le mura del complesso 34. Le gigantesche cifre nere erano dipinte sul grigio delle alte mura. Era inquietante: sembravano quelle di un tetro castello.

«Presto, dobbiamo raggiungere l'ascensore!» Lo specialista ci destò dalle nostre fantasie.

aggiungemmo la porta dello stabilimento, un grosso blocco di metallo rosso, un'unica grande lastra di acciaio, piombo e titanio che in caso di esplosione del nucleo avrebbe impedito la fuoriuscita di radiazioni. Il problema nasceva tutto da quella porta che in teoria era rimasta aperta durante l'evacuazione e che invece era palesemente chiusa.

«Perché cazzo siamo venuti fino a qui! La porta era già chiusa!» Urlò rocket-boy o come diavolo si chiamava.

«Forse i nostri compagni sono riusciti a chiuderla!» Affermai io.

«No, ci avrebbero dato conferma via pad. Fino all'ultimo le strumentazioni al piano di sopra ci mostravano la porta come aperta ed il sistema di sicurezza non attivo. Cosa che sta avvenendo tutt'ora»

Calò il silenzio. Alcune goccioline di acqua precipitavano dal soffitto fino alla passerella, imitando il suono di piccoli passi. Un cupo eco, probabilmente dovuto al vento, creava un suono simile ad un respiro.

Era una trappola. Per condurci qui.» Sentenziò lo specialista.

«Stronzate, gli zombie non fanno trappole!» Affermò Rocket-man.

«Non è detto che siano stati gli zombie. Magari sono sciacalli, che usano gli zombie solo per fare il lavoro sporco.» Affermai. «Questo spiegherebbe perché i nostri uomini di guardia non ci hanno avvisato...»

Era logico e mostruoso. Uomini che uccidono altri uomini solo per poche munizioni... e forse una tenue e fragile speranza di sopravvivere. Guardai i miei compagni. Eravamo rimasti soltanto otto. Di una squadra di ventuno soldati addestrati e ben armati ne erano rimasti soltanto otto, spaventati e preoccupati. Rocket-man era l'unico che non sembrava rendersi conto della situazione, lo specialista nascondeva la sua paura con metodi freddi e distaccati, gli altri erano visibilmente tesi e uno dei più giovani tremava visibilmente.

«Inutile rimanere qui. C'è un'altra uscita da qualche parte?» Chiesi allo specialista.

«Sì. Oltre questa porta. Possiamo prendere l'ascensore, e invece di salire per raggiungere la sala di controllo principale, possiamo scendere per raggiungere le fognature ed arrivare fino ai confini della città.»

«Da lì raggiungeremo il tetto di un grattacielo e ci faremo prelevare dall'Osprey... aprite quella porta.» Ordinai. Dal momento che i capi-squadra erano tutti morti, per anzianità prendevo il comando.

Lo specialista iniziò a bypassare i comandi della porta. Smontò il pannello e vi inserì il suo pad.

«Mettetevi in posizione! Non dobbiamo trovarci impreparati in caso di attacco!» Dissi.

«Signore: dovremmo cercare la squadra alfa... forse sono ancora vivi!» Sussurrò uno dei soldati.

«Non credo abbia molto senso. Perché non ci hanno contattato non appena hanno scoperto che la porta era chiusa? Non credo siano nemmeno mai arrivati qui.» Mi dispiaceva distruggere le sue speranze, ma era meglio essere sinceri a questo punto.

Il silenzio echeggiante della sala ci abbracciò. Lo specialista continuava ad operare al pannello, senza proferire parola.

«Allora? Manca ancora molto?» Chiesi allo specialista.

«Non molto, devo solo dire al computer che dopo venti secondi dall'apertura della porta, le cariche di dinamite facciano esplodere la volta, e sprofondare il ponte. La porta si chiuderà come una saracinesca nello stesso momento in cui la volta esploderà.»

«Bene, sbrigati! Mi sento vulnerabile qui.» Lo incitai, sperando davvero che almeno quella parte della missione andasse come previsto.

i spostai vicino ai miei compagni, e feci per accendermi una sigaretta.

Inspirai.

Mi godetti la prima boccata. Sputai il fumo fuori dalla mia bocca. La nuvoletta si mosse all'improvviso come colpita da un forte vento. La testa dello specialista esplose, macchiando la gigantesca porta rossa con il suo sangue scarlatto.

Un rumore di ingranaggi proruppe nella sala e lentamente il portone di metallo cominciò di alzarsi.

«CECCHINO! Buttate delle Flash! ACCECATELO!» Urlò Rocket-man. L'idea era buona, ma il frastuono del portone era il vero problema.

Le urla furono peggio di un proiettile: questo arriva silenzioso e ti uccide e se senti il fischio significa che sei vivo. Queste urla ti dilaniavano il cervello: sapevi che presto sarebbero arrivati.

Il tempo per pensare era finito.

Nel momento in cui un uomo sta per morire, vedi ciò che è veramente. Vedi se tutti gli ideali in cui crede sono solo parole e mere menzogne. Di fronte alla morte, l'uomo si mostra com'è, senza la maschera che si è creato.

Alcuni dei soldati si allontanarono dalla loro posizione e si gettarono sulla porta. Come topi in trappola batterono, graffiarono e picchiarono la paratia di metallo, sforzandola affinché si aprisse prima.

«Le porte non si aprono prima se le massacrate di pugni!» Urlai loro. «Tornate al vostro posto!»

Uno di loro, colto da un attacco isterico, iniziò a tremare, urlò come impazzito. Fui costretto a picchiarlo per farlo tornare in sé. Ma fu inutile, si lanciò oltre il parapetto prima che potessi fare nulla per fermarlo.

Il portone di metallo si alzava lentamente. Alcuni zombie uscirono allo scoperto e subito furono abbattuti. Da soli quei cosi non erano una minaccia, ma una cinquantina diventavano letali. Bastava un morso ed eri finito. Sfuggire dalle prese d'acciaio di quei mostri era difficile per un uomo ben allenato. Figurarsi per un essere umano normale sgusciare da un centinaio di folli cannibali.

Le ondate si facevano sempre più consistenti, presto saremmo stati sopraffatti.

«Il portone è aperto, dentro svelti!» Gridai, vedendo che c'era abbastanza spazio per sgusciarvi di sotto.

Dietro alla porta ci aspettava un lungo corridoio. Pareti in cemento, e sui lati tubi di acciaio e plastica. In fondo a questo la salvezza, sotto-forma di comodo elevatore.

Lo raggiungemmo. Ovviamente bisognava attendere...

Il portone continuava a salire ed i miei compagni continuavano a fare fuoco. Gli Spenti non erano abbastanza intelligenti da capire cosa stava succedendo e solo pochi si abbassarono per raggiungerci. Presto però la via sarebbe stata libera, anche se per qualche istante prima che gli esplosivi della porta la facessero rimpiombare giù. Un fiume di non-morti ci avrebbe comunque travolto.

«Granate! Pronti con le granate! Dobbiamo resistere fino all'arrivo dell'elevatore!»

Potemmo solo sparare: il nervosismo era troppo forte, non si riusciva a mirare e molti colpi andarono a vuoto. Un esercito di non-morti urlanti, con i loro occhi da folli, ci stava per massacrare.

L'elevatore arrivò. Letteralmente ci lanciammo all'interno. Rocket-man schiacciò il pulsante per il piano più basso.

La porta era aperta, gli zombie correvano verso di noi e le porte dell'elevatore erano ancora spalancate.

Se raggiungevano le porte era finita. Se i laser di sicurezza trovavano qualcosa a bloccare le porte, saremmo rimasti lì.

Vomitammo quei pochi colpi che ancora avevamo contro la valanga in corsa.

Fortunatamente, non raggiunsero mai nemmeno la metà del corridoio.

Le porte si chiusero. Scendemmo verso l'agognata salvezza. Erano tutti sollevati, ma ancora scossi.

Eravamo rimasti in sei. Senza munizioni, senza una mappa su cui fare affidamento e... senza sigarette. Nella corsa le avevo abbandonate. Comico che la cosa che più mi rattristava fosse la perdita del mio tabacco.
L'elevatore scendeva silenzioso nelle profondità del complesso.

***

«... e per oggi basta!» Will terminò il racconto.

Ovviamente seguirono lamentele e lancio di oggetti vari verso il narratore. Io ero l'unico che aveva bisogno di riposare, ma il lavoro da fare era parecchio. Esplorare i dintorni, cambiare le batterie delle torri radio, controllare che le squadre non fossero uscite dai bunker...

Si decise di continuare il racconto il giorno dopo.

«Dorian, vorrei farti una domanda...» Rokuya cercando di sorridere, prese in disparte lo Zombie.

Decisi che valeva la pena di investigare e facendo finta di non sentire, tesi l'orecchio. Sono certo che anche l'altro se ne fosse accorto, ma non sembrò importargli affatto.

«Dimmi, come posso...»Iniziò Dorian, subito interrotto.

«Come può quell'umano stare tra voi?! Insomma, non ha una coscienza?» Sibilòl'altro.

«Senti, Rokuya... Enea ha perso tutto. Anche la testa. Ora ha solo noi. Fatteneuna ragione.» Sbottò Dorian, girando i tacchi e allontanandosi.

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