Caccia al cacciatore
Il Sole quel giorno non c'era. Tristi nuvole grigie gettavano una luce biancastra sulla città, promettendo pioggia che però non era ancora scesa.
Per tutta la notte tuoni e fulmini avevano accompagnato il buio, eppure non una dannata goccia era caduta.
Era una classica giornata d'autunno, schifosamente umida e fredda, fastidiosamente ventosa, perfetta per chi aveva dolori articolari.
L'acquazzone non si decideva a scendere e le nostre possibilità di cavarcela erano ormai bassissime. Senza l'acqua a coprire il nostro odore, il tempo scarseggiava e se avessimo incontrato un gruppo di quei cosi sulla nostra strada, la fuga sarebbe stata l'unica opzione praticabile.
Superare il piccolo centro periferico era stato semplice, purtroppo si era anche rivelato un passaggio inutile. La cittadina era composta da una manciata di case di massimo due piani che spuntavano intorno alla strada principale come funghi, già saccheggiate e ottime per un agguato, ma pessime per passare la notte.
Il problema, ora, era il lungo rettilineo che avevamo davanti a noi.
Una lunga lingua di asfalto puntava dritto verso un'infinita sequenza di concessionari. Gli alberi ai lati nascondevano un fiume dal letto di cemento ed una ciclabile ormai assediata dagli arbusti. Una coda di automobili ostacolava il cammino, relitti abbandonati di fretta e che rappresentavano un'istantanea di panico e di disperata fuga. Era il luogo ideale per un'imboscata e non avevo intenzione di finire nel mirino di qualche sbandato o tra le grinfie di una banda di sopravvissuti.
L'ex macellaio consigliò di rimanere al centro, dove saremmo stati meno vulnerabili. Pareva una scelta saggia.
Il nostro gruppo era piccolo e forse era stato proprio questo a permetterci di allontanarci così tanto dalla città, diventata ormai un nido denso di pericoli. Allo stesso tempo, eravamo un gruppetto che difficilmente avrebbe spaventato un neonato.
Principalmente perché nessuno di noi poteva definirsi un combattente.
Eravamo un manipolo di sfigati, troppo sfortunati persino per morire senza troppe sofferenze: una segretaria che senza occhiali era quasi cieca, un grosso macellaio che ora lavorava un altro tipo di carne, un ragazzo troppo giovane e troppo confuso apparentemente appena uscito dalla discoteca ed il sottoscritto, un poliziotto in pensione che non aveva mai sparato a nessuno.
A nessuno, almeno fino a quel maledetto giorno...
Aprivo la strada armato di una XM-8, gentilmente offertomi da un soldato delle forze speciali ormai deceduto, il dito grattava nervosamente il grilletto, la mano pronta a scattare al pugnale o alla pistola se necessario.
Dietro di me veniva la segretaria, armata di un coltello da cucina e di un paio di scarpe coi tacchi, poi il macellaio che brandiva ovviamente lame di ogni genere e per ultimo il truzzo armato di cuffie e sigarette.
«Strano...» Sussurrò questi, guardandosi attorno preoccupato.
"Cosa? Che c'è di strano?" La voce della segretaria era roca, ormai provata da tutte le lacrime e le urla che l'avevano scossa. La povera donna era rimasta chiusa in casa per quasi una settimana, mangiando tutto ciò che aveva (comprese le scatolette del gatto). Quando l'avevamo trovata, stavamo per ucciderla, data la sua somiglianza con loro...
«Qui vicino dovrebbe esserci un grande centro commerciale... pensavo che ci fosse qualcuno in giro e invece...»
«E invece potrai sopravvivere qualche ora in più, se non ti sparo io prima per farti star zitto!» Sbottai, ovviamente con voce pacata per non richiamare attenzioni indesiderate.
Cautamente, ci infilammo tra le auto, in silenzio assoluto ed osando soltanto ricordare a tutti un dettaglio essenziale, sempre a voce bassa. «Attenti, alcune potrebbero avere l' allarme. Non toccate le auto e state al centro della strada.»
Procedevamo lenti e guardinghi, con i sensi in allerta per eventuali rumori sospetti, ogni passo attento e calcolato, il respiro dosato ad ogni gesto.
Gli uccelli cinguettavano, una sirena strideva in lontananza, urla echeggiavano distanti: era la melodia dell'apocalisse.
Nuvole di denso fumo nero si levavano dalla città. Mancava poco... così poco. I bunker sparsi al centro erano circondati da campi militari e gli hotspot per l'evacuazione erano ben difesi e pronti a ricevere i sopravvissuti.
Da settimane sentivano quella litania su tutti i canali radio della zona. Non poteva che essere vera.
Un improvviso suono ci fece sobbalzare tutti.
Uno stridulo sottile eruppe da dietro di me, un suono tanto fastidioso quanto potente che bloccò i battiti del mio cuore.
Mi voltai di scatto. L 'adrenalina era esplose nelle mie vene, il dito pronto sul grilletto ed i muscoli tesi in uno spasmo nervoso.
La fonte del panico era un pupazzetto per bambini, calpestato incidentalmente dalla segretaria.
Bestemmiai e tirai un bel sospiro. Il cuore cominciò a rallentare, i muscoli a sciogliersi, la mente a deconcentrarsi. Il primo a ridere fu proprio il macellaio. Era una risata bassa e contenuta e noi lo seguimmo a ruota. Dopotutto si sa, la risata è contagiosa.
Il truzzo durante la risata si appoggiò con la schiena contro un SUV. Fu un gesto naturale, dalle conseguenze catastrofiche.
L' allarme esplose, invase le orecchie, spezzò il silenzio e decapitò le nostre speranze.
Durò una manciata di secondi, poi l'allarme si spense, echeggiando ancora qualche istante nell'etere.
Ci guardammo. Sapevamo. Il nostro destino era segnato. Lacrime di rassegnazione sgorgavano dal viso della segretaria e del truzzo.
Uno scherzo del destino, Karma cattivo o un Dio con un senso dell'umorismo davvero strano?
Passi concitati sul cemento, gemiti, ringhi e rantoli ci rovinarono quell'ultimo attimo insieme.
L'ultimo a parlare fu il ragazzo. Non provavo odio per lui, ma mi rendevo conto che avrei dovuto lasciarlo morire diciassette giorni fa.
«Mi dispiace.»
***
Correvo, non volevo sapere dove. La flebile speranza di seminarli ancora mi illudeva e mi permetteva di andare avanti anche se le gambe protestavano, i polmoni bruciavano e persino la vista si faceva tremolante.
Sentivo le loro grida, i loro gemiti, il loro ansimare selvaggio dietro di me.
Dove fossero i miei compagni era irrilevante. Che fossero morti o meno, ormai non mi importava più nulla. Cercavo di non pensare alle loro urla e alle loro ultime suppliche.
Io volevo vivere, non potevo pensare ai morti né lasciarmi paralizzare dall'angoscia.
In tempo record ero riuscito a completare il rettilineo e puntare direttamente verso il primo capannone. Un magazzino per le merci che nelle zone periferiche vanno sempre tanto di moda: mura prefabbricate, grandi vetrate da un solo lato, porte di vetro infrangibile, giardinetti curatissimi automatizzati.
Tentai l'entrata principale, ma le porte erano chiuse. Feci il giro, passai sopra al cancello che chiudeva la zona di scarico merci situata sul retro e subito individuai delle scale d' emergenza.
Scattai verso l'agognata salvezza.
Due di loro mi bloccavano la strada, un uomo ed una donna, indossanti vestiti eleganti, ormai luridi e malconci. Senza indugiare troppo, sparai alla testa ed i corpi caddero con un tonfo. Non provai nulla nell'ucciderli: erano già morti prima che il mio proiettile facesse esplodere il loro cranio. Ormai, ammazzare quei bastardi mi veniva naturale, ero completamente anestetizzato al senso di colpa.
Salii le scale. Arrivai sul tetto, chiusi la porta d'acceso con la catena che trovai lì accanto. Tolsi le mani prima che i dannati bastardi alle mie spalle me le strappassero.
Mi spostai verso il centro del tetto. Uno spazio immenso, senza coperture, senza altra uscita se non quella da cui ero arrivato: un'oasi dove morire di fame...
Non guardai giù, mi bastavano le orecchie per capire che erano in molti. Che erano in troppi. Troppi per sperare di scappare. Avrebbero sfondato il cancello prima o poi. Avrebbero usato i corpi dei loro compagni caduti per formare una piramide per raggiungermi... Era la fine in ogni caso.
La disperazione mi colse, improvvisa, la logica conclusione della mia inutile fuga. Morire divorato o suicidarsi.
Sfoderai la pistola. Meglio una morte rapida, pulita, senza dolore e alle mie condizioni. Un privilegio che non tutti avevano e di cui ero grato.
Tolsi la sicura all'arma, la portai vicino alla tempia con mano tremante e gli occhi gonfi di lacrime.
Un attimo di incertezza prima di abbandonare l'inferno per un altro.
La pistola mi esplose tra le dita e parte della mia mano con essa.
Il dolore mi invase. La vista si appannò. Il fiato mi morì in petto, lasciandomi boccheggiante.
Confuso mi guardai in giro, la testa invasa da mille domande. "Non ha senso!" Pensai. "Loro non sanno usare armi, non ne sono capaci! Perché? Chi?"
La voglia di vivere scivolò via dal mio corpo. Persino l'angoscia sembrò spillar fuori dal mio corpo man mano che il sangue colava. Non mi interessava più nulla, volevo che tutto avesse fine, ma persino quel lusso ora mi era negato.
Passi, intorno a me. Lenti, controllati, umani. Tre figure, dai contorni incerti, mi accerchiarono.
Il Sole quel giorno non c'era. Avrei tanto voluto rivederlo ancora prima di...
Le mie carni straziate furono l'ultima cosa che percepii, prima che il nulla mi avvolgesse...
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