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Carpe diem

O fons Bandusiae, splendidior vitro,
dulci digne mero, non sine floribus (1)

"Non sine floribus" ripeté Orazio sottovoce, come se stesse recitando quei versi a sé stesso.

Una brezza leggera sollevò dolcemente l'angolo della sua pergamena, ripiegandola sull'inchiostro ancora fresco, ma non se ne diede particolare cura: conoscendo le sue abitudini letterarie, avrebbe ricopiato e rielaborato quei versi ancora un numero infinito di volte.

La silenziosa calura di mezzogiorno opprimeva i campi biondi di grano e assetava i buoi al pascolo, ma non aveva trovato accesso in quel piccolo angolo d'Arcadia. Seduto ai piedi del suo fedele leccio, Orazio aveva trovato riparo alla sua ombra. L'acqua scorreva con i suoi leggeri scrosci lungo il letto ciottoloso e qualche goccia gelida lo colpiva sul volto sudato, portandogli refrigerio.

Era solito recarsi lì per pensare, solo con i grilli nascosti tra gli alberi, lontano da tutti quei servi e quei clientes che parevano esistere con l'unico scopo di importunarlo. Aveva creduto che rifugiarsi alla sua fonte l'avrebbe aiutato a liberare la mente e a concentrarsi sui suoi versi, ma invano aveva sperato: l'ombra dei rami si era allungata sulle rocce sporgenti e lui aveva scritto soltanto quei due versi.

"Non sine floribus" sussurrò di nuovo, cercando disperatamente le parole giuste per proseguire il carme.

Sbuffò amareggiato, appoggiando la testa sulla corteccia ruvida dell'albero. Erano giorni che quel blocco lo assillava, intrappolando sulla punta della lingua quello che avrebbe voluto esprimere. Non gli era mai capitato prima: lui che aveva scritto il Carmen saeculare, lui a cui Mecenate aveva aperto le porte del suo Circolo, lui che aveva sempre qualcosa da controbattere sembrava aver dimenticato come dar voce ai propri pensieri!

"Non sine floribus... Non sine floribus...".

Gli giunse alle orecchie il rumore di ramoscelli spezzati e di un corpo che risaliva controcorrente, spostando con sé le acque intorno. Volse gli occhi a valle, accarezzando con lo sguardo il vivace fluire del torrente, e intravide tra le fratte la chioma dorata di una figura dolcemente nota.

"Sei tu qui, dunque, amice!", esclamò Mecenate facendosi strada tra gli arbusti, i piedi immersi nell'acqua fino alle caviglie, "Ti ho cercato ovunque!".

Orazio lo osservò in silenzio scansare con le mani la vegetazione sempre più rada, fermandosi ogniqualvolta la veste corta si impigliava in qualche ramo più lungo. 

"Stai di nuovo cercando ispirazione?", gli chiese arrivando finalmente alla radura, "La natura offre qualche rimedio alla tua piaga?".

"Non omnes arbusta iuvant humilesque myricae (2)" recitò l'altro sorridendo appena.

"Non credo che fosse questo che intendesse il nostro amico, ma chi sono io per sottilizzare?" gli rispose ricambiando il sorriso.

Mecenate lo raggiunse sotto al leccio e si sedette accanto a lui, spalla a spalla, le loro ginocchia si sfioravano appena nella penombra del sottobosco. Ormai si stava abituando a vederlo così, come un uomo qualunque, non come il braccio destro del princeps. La toga bordata di porpora debitamente riposta in un baule, i capelli cinti sulla nuca da un cordino sottile, per tutto simile nell'aspetto ad uno dei pastorelli che guardavano le greggi al pascolo.

"Perché mi cercavi, patrone? Posso esserti utile in qualche cosa?" gli domandò Orazio con riverenza.

"I formalismi lasciali alla corte: io, in questa campagna amena, sono un vir come tutti gli altri", lo rimproverò con la sua solita umile gentilezza, "Sono qui perché non hai mangiato molto stamattina e sono tre notti che il tuo sonno è agitato: ti sento rigirarti tra le coperte per ore ed ore, fino a quando Aurora non fa capolino da Oriente".

"Non era mia intenzione disturbarti" si scusò quasi sospirando, gli occhi fermi sulla superficie del torrente.

"Non devi chiedere venia, mi Horatie. Sono solo preoccupato per te: quale dolore ti affligge mai?".

Orazio si voltò verso di lui e si sorprese nel constatare quanto fossero vicini i loro visi. L'aveva sempre trovato affascinante, con quegli occhi grandi e quelle labbra sottili, e non si era mai sorpreso del suo successo: sebbene avesse guadagnato ricchezze incalcolabili e nelle sue mani risiedesse l'inestimabile potere di avere influenza sul princeps, aveva conservato la sua indole semplice e schietta e i suoi costumi integerrimi, come se la corruzione non attecchisse sul suo animo puro.

"Oh carissime, non darti pena per me!", esclamò con voce ilare e occhi tristi, "Genus irritabile vatum (3)!".

"Non sei irritato: sei triste", lo corresse Mecenate stringendogli le mani nelle sue, "Ormai ti conosco abbastanza bene da poter scorgere nel tuo animo attraverso le tue pupille. La bella Pirra ti ha incatenato a sé a tal punto?".

Orazio sentì le viscere smuoversi dentro a quel semplice contatto, come se qualcuno avesse mescolato il vino con dell'acqua putrida. Non erano mai stati così vicini - in effetti, non erano mai stati veramente soli. A corte, passeggiando per la Via Sacra, discutendo di poesia e di filosofia erano sempre accompagnati dal loro fedele Virgilio, dallo stuolo di clientes e di adulatori che speravano in un beneficio da parte del suo patronus.

"Pirra non mi infesta i pensieri e i sogni da tempo, ormai: un altro amore turba il mio animo!".

"Nulla affligge il cuore come una passione non ricambiata" sentenziò l'altro malinconico.

"Affligge anche te, amice? Soffri ancora per domina Terenzia?".

"No, mio caro: per quanto io ami teneramente mia moglie, amare ha ceduto il posto a bene velle. Avrei potuto comprendere che mi tradisse con uno schiavo - glielo avrei perdonato, d'altronde sono spesso lontano da casa e so bene quanto ci si senta soli in un letto sempre vuoto", spiegò Mecenate parlandogli a cuore aperto, "Altri sarebbero forse fieri che la propria donna abbia attirato le attenzioni del divo Augusto, ma io non sono tra questi: dopo anni di leale amicizia, speravo che anch'Egli mostrasse un certo rispetto nei miei confronti".

"Batillo, quindi, è la causa della tua sofferenza?" insistette Orazio.

"No, non è nemmeno lui. Mi compiaccio della sua eleganza e della sua grazia nel danzare, così come traggo diletto dalla sua compagnia nelle notti d'inverno. Eppure lui resta sempre un ballerino...".

"Che cosa intendi dire?" lo interruppe l'altro corrugando le sopracciglia.

"Ha un bel fisico e un carattere mite: ma nulla di più. Mi soddisfa quando si tratta del corpo, ma è così inappagante per lo spirito! A volte, quando gli parlo delle opere di Omero e di Ennio o quando comincio a riflettere ad alta voce sul mio Platone, ho come l'impressione che non capisca una parola di ciò che dico e che annuisca solo per farmi piacere. Le sue opinioni e le sue idee sono così deboli e semplici che basta solo una mia frase per cambiarle del tutto!".

Le loro ginocchia si toccarono, generando in entrambi una scintilla che infiammò i loro corpi.

"Vorrei qualcuno che mi sia compagno sempre", confessò Mecenate abbassando la voce, "Vorrei qualcuno che mi appagasse non solo nel corpo, ma anche nell'animo".

I loro visi si mossero in maniera quasi impercettibile, avvicinandosi l'uno all'altro. Orazio posò gli occhi su quelle labbra sottili e così morbide all'apparenza. Avrebbe voluto baciarle per scoprire se fossero soffici come le immaginava, per assaporarne il sapore segreto e proibito.

"E tu cos'è che desideri, mi Horatie?" gli domandò con un'aria innocentemente maliziosa, come se non sapesse quanto quelle parole lo colpissero nel profondo.

Dum loquimur, fugerit invida aetas: carpe diem. (4)

Si sporse in avanti quanto bastasse a colmare la distanza tra loro due e reclamò la sua bocca con un bacio. Un brivido lo attraversò tutto, correndo lungo la sua schiena come un cavallo nel circo, e si sorprese a tremare leggermente, come le foglie mosse dall'Euro.

Fece per staccarsi da quelle labbra tanto desiderate, ma non gliene fu data la possibilità: Mecenate gli prese con entrambe le mani il volto e, accarezzandolo con delicatezza, lo baciò con eguale ardore.

"Tecum vivere amem, tecum obeam libens (5)" gli sussurrò il suo patronus.

"Non chiedo nient'altro" mormorò Orazio, per poi annullare di nuovo quel breve spazio che impediva alle loro bocche di fondersi in un bacio destinato ad essere eterno.

(1) "O fonte di Bandusia, più trasparente del vetro,/ degna di dolce vino puro, non senza fiori", Carmina III, 13, vv.1-2 (Orazio)

(2) "Non a tutti giovano gli arbusti e le umili tamerici", Bucoliche, IV, v.2 (Virgilio)

(3) "Razza irritabile quella dei poeti", Epistulae, 2, v.102 (Orazio)

(4) "Mentre parliamo, il tempo sarà fuggito, inesorabile: cogli l'attimo", Carmina I, 11, vv.7-8 (Orazio)

(5) "Amerei vivere con te, morirei volentieri con te", Odi III, 9, v.24 (Orazio)

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