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CAPITOLO 9-A far spese

(Claudia)

Mi godo il vento. La velocità, l'aria aperta, tutto.

In effetti, ora che ci penso, non esco dal sottosuolo da un giorno. E dopo essere stata privata della luce del sole per sei anni, penso di avere il diritto ad usufruirne.

È una fortuna che, nei periodi di "quiete militare" (là così vien chiamata), sia stata addetta al rifornimento di vivande.

Ora, per viaggiare sulla strada e raggiungere Roma, sono stata fornita di un camion parcheggiato in una rimessa segreta nel bosco. Da lì partiva anche un sentiero che si ricongiungeva al percorso asfaltato. 

Ho già il luogo, e posso arrivarci col navigatore installato nel mio computer-sferetta (sì, pare ne avessi diritto anch'io). L'Associazione, ovviamente, pare avere un fornitore di fiducia. Vendendoci le scorte, intasca una caterva di soldi (tutti ottenuti violando riserve bancarie, erario e con varie altre azioni fuori dalla legalità). Non ha niente a che fare con noi, e penso se ne sbatterebbe altamente di chi siamo. Però, mi dicono, vende prodotti decenti e non fa domande. Non chiede neanche l'identità, gli basta poterci succhiare grana dal conto bancario, che tanto viene ricreato ogni settimana per mantenere la segretezza. Ottimo per fare affari loschi. Ovviamente, quando lo chiede, noi diciamo che vogliamo portare la merce a dei supermercati. Poi non arriva nulla, ma non è un problema perché nelle fatture non esiste un campo "motivo di acquisto".

Per fortuna la sua sede non è molto distante. Quando entro a Roma, il navigatore segna come tempo restante un minuto.

Difatti, dopo aver svoltato un po' di volte qui a sinistra e lì a destra, sono davanti ad una rimessa aperta. Non c'è nessun'insegna, né un cartello, ma è aperta ed all'interno si vedono parecchie scatole e sullo schermo continua a lampeggiare la scritta "DESTINAZIONE RAGGIUNTA."

Meno male che non c'è pure la voce ad insistere come in quelli tradizionali, altrimenti l'avrei già fracassato.

Comunque metto nella tasca bassa la sferetta e scendo dal camion, forzandomi ad avere un atteggiamento normale. Devo ancora ben afferrare cosa sia la normalità dopo aver passato sei anni in un videogioco, ma una giornata passata tra persone reali ha già dato qualche frutto.

Mentre cammino do una pacca alla tasca sinistra dei pantaloni, assicurandomi che carta di credito e lista siano ancora lì dentro. 

Appena varco la soglia della rimessa comincio a sentire freddo. Ovviamente, da stupida, ho scelto un abito a maniche corte.

Varie pile di scatoloni affollano le pareti. Alcune sono piazzate nel bel mezzo di questa gigantesca stanza, così che tutto è un po' un labirinto. Per prima cosa, devo trovare il venditore, senza sapere che aspetto abbia. Anche se presumo di poter chiedere al primo che incontrerò.

Mentre procedo zigzagando tra le scatole sento un ronzio. Alzando la testa, però, scopro che sono solo dei ventilatori appesi al soffitto. Non spostano molta aria perché non sento nulla, neppure un brivido od un soffio, ma di certo refrigerano a meraviglia.

Dopo aver girato per tutta la rimessa l'unica cosa che ho trovato, oltre alle scatole, è una porta bianca in fondo. Da dietro provengono varie voci, alcune più ovattate. Tuttavia, non riesco ad afferrare ciò che dicono.

Non avendo altro posto dove andare, la spalanco.

-Ma che cazzo fai?! - urla una voce prima ancora che riesca a mettere tutto a fuoco. Sobbalzo per la sua veemenza all'indietro, squittendo. 

Un uomo, seduto su una logora poltrona di pelle, si gira verso di me.

La sua faccia, tonda e con una rada barba, striata da qualche ruga, mi squadra con apprensione. -E tu chi sei?

Prendo un secondo per guardare la stanza. 

Non sarà più grande della camera che io e Stefano abbiamo nell'edificio sotterraneo dell'Associazione. In fondo c'è un televisore piuttosto vecchio, come si vede dalle dimensioni ridotte (è largo più o meno quando la poltrona) e dalla bassa definizione, poggiato su una mensola. Sta trasmettendo quella che probabilmente è una partita di calcio, anche se non vedo di più. Probabilmente da lì venivano le voci che percepivo come ovattate. Davanti alla poltrona c'è un tavolino, con un sacchetto di patatine aperto e tre bottiglie di birra vuote.

Dopo questa rapida analisi, rispondo. Tentenno un secondo, ma poi pronuncio: -Dovrei fare un acquisto.

Lui mi scruta. L'affermazione non sembra provocargli la minima reazione. -Mbe'? Che vuoi? - La pesante cadenza romana non m'ispira quella fiducia che cercherei in un venditore. Quando poi si alza, mostrando che indossa solo una canottiera macchiata e dei jeans tenuti da una cintura, la cosa peggiora ulteriormente. Ma tocca il fondo quando rutta, diffondendo per di più un orrendo odore di birra e saliva.

Mi sforzo però di tenere un sorriso. -Tutto questo - dico, tirando la lista fuori dalla tasca e mostrandogliela.

Dopo essersi avvicinato me la strappa dalle mani. Legge a voce bassa un paio di righe e poi commenta: -I soliti dei supermercati, eh? - Passa dietro di me, urtandomi con una delle sue grasse braccia. Comincio a capire perché facciamo affari con un questo tipo: a giudicare dall'aspetto, non si preoccuperà di certo di chi siamo, né ci farà domande. Credo non abbia neanche troppi clienti. Gli basterà che gli schiaffi i soldi in mano perché mi dia tutta la merce che chiedo.

Uscendo mi informa: -È un po' strano, ma mi viene chiesta questa stessa scorta ogni settimana. Fammi solo prendere un carrello. - Mentre lo seguo, getta un'occhiata di fuori. Mi chiede: -È quello il tuo camion?

Io, senza neanche voltare lo sguardo, rispondo in fretta: -Sì.

-Bene - afferma. Raggiunge un carrello da trasporto, di quelli usati nei magazzini (in fondo questo cos'è?), e lo spinge un pochino, davanti alla pila di scatole più vicina. Poi estrae dalla tasca una specie di bacchetta, un cilindro di ferro dipinto di verde.

Lo punta contro una scatola. Un lampo di luce scaturisce colpendola, e quella levita. Si libra in aria, letteralmente.

Mentre la fisso sbigottita ed incredula, lui muove un po' il bastoncino e la fa atterrare sul carrello. -Geniale, questa invenzione - commenta. -Altro che quel lavoraccio che facevo soltanto un anno fa... 

Quindi quell'aggeggio è stato inventato poco fa. Ecco perché non l'avevo mai visto. 

Cerco di esibire un atteggiamento rilassato, come se sapessi esattamente cos'è.

Ripete la stessa operazione con una cinquantina di scatole. Io quasi non mi annoio mentre sposta un pacco dopo l'altro, perché una simile macchina mi rapisce. Anche coi livelli che la tecnologia aveva raggiunto quando ero davvero giovane, non avrei mai creduto che un macchinario così si potesse creare.

Quando finisce, il carrello ospita nove pile da sei scatole ciascuna. Ora mi aspetto che afferri il manico e le trasporti, invece fa levitare anche il carrello e lo conduce fuori. 

Continuando a rimirare con la coda dell'occhio la luce bianca, che si proietta sul pavimento, penso: "Chissà che altro sarà successo in questi sei anni."

In effetti, all'Associazione Analogica non ho recuperato tantissimo del tempo perso. Ero lì, a fare, e punto. Non so ancora come si sia evoluto il mondo in questi anni, e con una dittatura informatica al comando non c'è certo da aspettarsi poco. 

Arriva poi al camion. Apro rapidamente gli sportelli posteriori del container, e lui trasferisce in blocco, sempre facendole levitare, tutte le scatole all'interno.

Le guardo soddisfatta. È stato un lavoro molto rapido.

-Vuoi pagare? - dice, risvegliandomi dal pensiero. Tocca qualche cosa su un tablet (non mi ero accorta lo avesse preso, né che lo avesse), poi me lo porge. 

-Quelli come voi mi pagano sempre con la carta di credito, ovviamente, così l'ho preparato da solo. Su, dai - mi esorta, indicando un rettangolo nero che contrasta con lo sfondo bianco. Occupa un quarto dello schermo, e non c'è altro. Capisco dal suo gesto che ci va messa la carta. Meno male che l'ha indicato perché altrimenti avrei dovuto chiedere cosa dovessi fare, dando a intendere che non conosco quest'aggeggio. 

Prendo la carta dalla tasca e l'appoggio dentro la forma, curandomi che il chip sia rivolto verso il basso. Meglio non fargli sorgere interrogativi mettendola male. Non ricordo se si usasse fare così anche sei anni fa, ma non credo di aver mai visto questi dispositivi. 

La tengo premuta per due secondi, poi la tolgo. Il rettangolo prende a lampeggiare, poi sparisce. Lascia il posto ad una tastiera numerica.

Com'era il pin? Quattro zeri.

Lo digito con la mano destra. Copro comunque la vista a lui con la sinistra, per non destare sospetti. 

TRANSAZIONE IN CORSO.

Ecco. Semplice. -Grazie - gli dico, restituendogli il tablet.

Lui, guardandolo, risponde. -E di che. Ciao - mi saluta, tornando verso la rimessa.

Mi fa quasi impressione che la mia prima (in realtà seconda) avventura nel mondo esterno sia andata così bene.

Però intendo restare coi piedi per terra e finire il compito in fretta.

Mentre salgo nel camion ed accendo il motore, comincio a pensare a dopo. 

In effetti non ho altri incarichi. A meno che i miei capi non mi sguinzaglino a fare scorte qui a Roma di nuovo, avrò praticamente il resto della settimana libera fino al prossimo combattimento. Certo, speriamo che magari per sbrigare queste commissioni scelgano uno degli altri addetti. Tra un po' dovrò iniziare l'addestramento, ma essere un militare ha sicuramente i suoi privilegi.

Con questo pensiero felice mi immetto nella strada, pronta a tornare nel bosco ed a godermi questa giornata di bivacco.

Assaporo la pace che regna qui. A quest'ora gran parte del traffico mattutino è svanito, rendendo il tragitto placido e silenzioso. Quant'è bella questa quiete.

Viene interrotto soltanto da un'assordante sirena della polizia. 

Mi sporgo un attimo a guardare: due loro auto sono nella corsia attigua alla mia. 

Sbuffo, tornando a guardare gli alberi per cercare un po' della tranquillità persa.

Ma poi mi blocco di colpo. Una delle auto mi ha appena sbarrato la strada. Freno istintivamente, mentre il suono della sirena continua a rimbombarmi nelle orecchie.

Capisco rapidamente, anche se non so perché, di essere nei guai. 

Un poliziotto spalanca il portello tirandosi fuori di fretta, e mi grida tenendo la pistola puntata. -Esci da quel camion ora, se non vuoi un proiettile in testa.

Non ho armi, non ho vie di fuga, sono in mezzo al nulla. Posso solo aprire e scendere. 

Tengo le mani in alto mentre mi avvicino alla macchina. -Cosa sta succedendo? - chiedo a voce alta.

-Imbrogliona!

Riconosco questa voce. 

Mi giro. Dietro di me c'è proprio lui, il venditore, affiancato da un altro poliziotto, che esce da una seconda volante.

Sento dietro di me i passi del primo che si avvicina. -Hai una bella faccia tosta a chiederlo - afferma -dopo che hai usato un conto corrente truccato per non pagare tutta quella merce.

Conto truccato? Ma di che parla? -Di che sta parlando? - chiedo confusa, rigirandomi verso di lui.

Vengo afferrata alle spalle, e voltata con violenza. Il venditore mi urla in faccia. -Quando sono rientrato, l'apparecchio diceva "conto vuoto"! Mi hai truffato! Ladra!

Il poliziotto lo strappa via da me, ma lui continua a gridare. -Ora mi ridai tutto! E fatti un bel giro al fresco!

L'agente lo ammonisce: -Signore, si calmi. È stata catturata, ora tocca a noi e faremo giustizia.

Quasi rido quando pronuncia la parola "giustizia".

Il venditore non ribatte, ma mi guarda ancora con uno sguardo carico d'odio. Ed in tutto questo io ancora non sto capendo nulla. Ma quando sento le mie braccia venir trascinate giù, una fredda morsa metallica ai polsi ed il suono d'un clic metallico, capisco di aver ben poche possibilità.

-Ti dichiaro in arresto - dice il poliziotto dietro di me. -Ora, seguirci. Niente storie, e vedi di non far la furba.

Non ho nessun piano per questo. Sono spacciata.

Mi trascina verso la sua volante, lontano dal venditore. Lontano da ogni speranza, dall'Associazione, verso chissà cosa.

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