Capitolo 4 You can close your eyes to reality, but not to memories
Sì che il mondo cangiò gravosamente e gran parte delle vecchie vie andarono perdute, dovetti tornare al Santuario del Legame del Fuoco.
Ahimè, mi rammaricai non trovando l'afflitto cavaliere al quale avrei voluto chiedere consiglio, sperai almeno che ovunque fosse, egli avesse intrapreso la strada del coraggio.
L'unico e solo aiuto cui potevo appellarmi, dipendeva invero dall'alto.
Volsi lo sguardo alla torre in rovina, ove vi era il corvo col suo nido.
Questi s'accorse della mia presenza e rivolse il piglio.
Sapevo che a causa della sua schiatta, non avrebbe potuto condurmi alla città, ma scelsi comunque di tentare codesta insania.
«Corvo! Pur conoscendo l'antica ed ingiusta colpa che gli Dei t'attribuirono, bandendo per l'eternità la Dea Velka e tutto ciò ch'era legato ad essa dalla Città Divina, or dunque a te mi rivolgo per varcarne le porte! Ch'io domandi qualcosa di folle, credetemi, invero lo so! Ma disperazione che mi è nemica, m'assale e mi percuote sì che non vedo alcuna risoluzione a siffatto problema.» m'inginocchiai innanzi ad esso con riverenza «V'imploro di accompagnarmi se possibile, fino le mura di Anor Londo giacché io possa proseguire nella mia missione.»
Immobile, attesi con pazienza fino a quando le enormi zampe artigliate mi cinsero e passando per perigliosi dirupi, il corvo s'alzò maggiormente in volo ed io potei ammirare i luoghi della mia terra oramai in rovina.
Vidi l'opprimente e angusto Borgo dei Non Morti e successivamente, ciò che immaginai essere la Chiesa dei Non Morti ove svettava la prima Campana del Risveglio, poi notai un'enorme costruzione che invero faticai a riconoscere sì che oramai l'antico fasto l'ebbe abbandonata.
Siffatta visione troppo mi ferì ch'io ne ebbi sgomento!
Mi sentii come trafiggere ma agli occhi che videro tale scempio, nessun danno fu recato!
Tant'è che voi vi interpellerete: da qual parte allora ti ha raggiunto?
È al cuore che provo cotanto dolore.
La Fortezza di Sen fu fatta costruire con valorosi e nobili intenti per addestrare giovani prodi e valenti affinché fossero fatti i cavalieri più rinomati di tutta Lordran, ovvero i Cavalieri d'Argento facenti parte dell'esercito di Lord Gwyn.
Se il trascorrere dei giorni non fosse stato stravolto in siffatto modo dai tragici eventi che il destino mise sulla mia strada, avrei invero conseguito tale prova con onore e coraggio sotto il comando del nobile capitano Arkon, vestendo la fulgida armatura per servire il regno ed essere una lama a disposizione del nostro Lord ove e quando egli lo richiedesse.
Ebbi rinnovato stupore quando vidi che vi erano ancora due laboriosi giganti e con essi, il Golem di Ferro, ultima ed angosciata difesa posta innanzi le mura della città.
Rimembravo come fosse ieri il dì in cui lo vidi destarsi per la prima volta, poiché fu anche il giorno in cui dovetti dire addio a ciò che ebbi di più caro, la mia dimora e mio padre.
Egli ci fece salire sul cocchio e tra le urla accorate di mia madre che s'appellava invano affinché venisse via con noi, tanto da giungere a strapparsi i capelli e graffiarsi il volto per disperazione, partimmo udendo ciò che furono le parole d'un vero cavaliere:
«Non rammaricatevi per la mia sorte! Siate fieri di me, sì che vostro padre non abbandoni con codardia la città! Non temete, sentirete ancora decantare le mie gesta.»
Fu tuttavia allora stesso che giurai sul mio onore di cavaliere che avrei fatto ritorno per prenderlo.
Malgrado la parola data a mia madre di non cimentarmi in siffatta impresa e di non far più ritorno ad Anor Londo, l'ultimo sorriso rivoltomi da mio padre ogni notte mi dava tormento. Valent'uomo sereno ma rassegnato al proprio infausto destino.
Or dunque io chiedo a voi se dopo aver subito tale onta non avreste invero bramato vendetta o riversato odio e collera sui tristi invasori non morti, che altro non recarono se non dolore e sconforto.
Il corvo m'adagiò all'estremità opposta del ponte sulla quale si ergeva minaccioso il costrutto di ferro, poi si levò nuovamente tra i cieli facendo ritorno nella stessa direzione dalla quale era venuto.
Finché potei lo seguii con lo sguardo poi mossi un paio di passi e rivolsi il piglio verso quello vacuo del golem.
Esso mi osservava ma tuttavia non attaccò e per questo meritò gratitudine.
Poi oltre la sua mole, vidi qualcosa: le porte che conducevano alla città erano state murate per impedire a chiunque di varcarne la soglia!
Prima che Angoscia potesse prendere posto alla mia destra e mal consigliarmi recandomi inutile affanno, notai che tra me ed il costrutto, adagiato sulla pietra, vi era ciò che ai miei occhi parve un sigillo di luce.
M'inchinai su di esso poi lo toccai lievemente.
Nulla accadde, fin quando dei rumori rassomiglianti al battito d'ali degli uccelli si fecero via via sempre più vicini e delle scure ombre deformi s'allungarono sulla pietra e su me quasi a volermi inglutire.
Con rapido movimento alzai il capo e fu allora che li vidi!
«Ah, empi demoni! Che m'abbiate teso una trappola invero lo capii troppo tardi ma posso giurarvi, sul mio nome e la mia schiatta, che a caro prezzo pagherete siffatto affronto!»
Ch'io m'adoprai con smania per tenere fede alla promessa fatta a codesti felloni alati e deformi, potete stare certi che lo feci, ma essendo che erano più d'uno – sei ne contai, forse! – riuscirono nell'intento di prendermi e tenermi con forza a mani e piedi, mentre i rimanenti s'adoprarono a trasportare la pesante alabarda.
«Bestie! Indegne e brutte bestie! Non osate toccarmi con quelle mani artigliate prive di grazia, appena ne avrò concessione vi assesterò sì tali colpi che non sprizzerà solamente sangue ma anche cervello! Vi strapperò anima e favella, se invero ne aveste una!»
A nulla valsero le parole e ancor di meno il divincolarsi con forza, ché questi si levarono in alto costeggiando la parete di roccia e allor sì, che dovetti stare bene immobile temendo caduta mortale!
Appena risalite le mura, innanzi ai miei occhi si presentò siffatta visione che non seppi invero se provare gioia o afflizione.
La trovai bella e luminosa come allora, traboccante dell'antico sfarzo!
Anor Londo, la Città degli Dei, ove le immense guglie svettavano verso il cielo bagnandosi nella calda e confortante luce solare.
Ahimè non potetti ammirarla come sarebbe convenuto ché i demoni alati discesero veloci tra gli edifici e scansando arcate e pinnacoli, riuscirono nell'intento di allontanarmi dalla mia destinazione che scorsi brevemente e con affanno.
Or dunque non potevo di certo stare in balìa di queste imbelli creature per sempre!
Ebbene, non v'annoierò narrandovi come sfuggii alle loro prese salde, poiché incorrerei nel rischio di tediarvi, ma sappiate che numerosi colpi furono sferrati al volto dei felloni e – grazie alla daga – arti e teste caddero, permettendomi di appropriarmi dell'alabarda.
Vedendosi invero in difficoltà, i restanti furono costretti a lasciarmi cadere! Gli dei m'arrisero ancora una volta: nonostante l'altezza, ne uscii indenne, con nessun osso spezzato!
Sia lodato il sole e Lord Gwyn!
Appena riuscii ad issarmi in piedi e riprendermi dall'affanno, mi guardai attorno ed allungo.
Il silenzio dimorava tra le vie della parte bassa della città ma io potevo sentire un'eco distante, quello appartenuto ai ricordi del mio tempo.
Rammentavo il trascorrere della vita quotidiana e dell'affollamento delle genti che vi era in siffatta strada, in passato adibita al commercio.
Mossi pochi passi riconoscendo ove prima vi fosse una bottega molto celebre in cui venivano vendute delle pellicce.
Pelli di volpe e di faina, tuniche bordate d'ermellino, mantelli di sciamito e seta arabescata foderati di zibellino e vaio orlati di passamanerie resistenti e rigide.
Ah, mio padre soleva dire che non vi fosse bottega migliore in tutta Anor Londo!
Poco più avanti, sul lato opposto vi era invece un lavoratore d'arte orafa, ove i nobili facevano la fila e spesso si contendevano gli ornamenti visti! Una volta v'assistetti di persona!
Due dame si disputavano a parole l'appartenenza d'un anello con marcassite e quarzo.
Mai quel piccolo negozio fu vuoto o privo d'acquirenti, chi vi lavorava creava diademi con carbonchio incastonati, orecchini con vistosi topazi, collane, bracciali, spille e fermagli che spesso non venivano baciati dalla luce della luna poiché durante il giorno erano acquistati!
E come non nominare la libreria ove mia madre faceva suoi, a poco prezzo tra l'altro, parecchi libri?
Scoppiai a ridere ma non con gioia come voi state immaginando, bensì con amarezza.
Cosa facemmo invero per meritare tutta questa sventura?
L'immolazione di Nostro Signore Lord Gwyn non bastava, forse?
Era necessario venir separati dai nostri cari e perdere la nostra casa?
Non volli sapere risposta ma visto ciò che scoprii più avanti e ch'io vi narrerò, probabilmente sì.
Risalendo verso la parte alta della città, notai fatto alquanto strano: in più punti, distanti tra essi, vi erano degli incavi nel muro contenenti delle statue ben fatte di Ornstein l'Ammazzadraghi e un altro.
Che però non ottenne mai il cavalierato!
Questi infatti era un esecutore e della peggior risma, oserei dire!
Sentii vociferare tra loro mio padre e mia madre sul perché Lord Gwyn stesso lo respinse, Smough il Giustiziere soleva praticare cannibalismo sulle sue vittime, una condotta inaccettabile ed inammissibile per chi aspirasse a divenire un cavaliere!
Ma chi avrebbe potuto commettere tale blasfemia? Affiancare un vile ed infame dio – se tale si potesse definire – ad uno, se non al più importante e fedele, vista la sua alta carica, cavaliere di Gwyn.
Se mai trovassi chi ha fatto ciò, avrei certamente lieto il privarlo della testa con la mia fida alabarda!
Non m'attardai oltre ed arrivando alla parte alta della città, ove un tempo vi abitavano i nobili, m'imbattei in una porta aperta.
Per lungo tempo stetti ad osservarla poi, senza intenti fallaci e di ladrocinio, sia ben chiaro, ne attraversai l'uscio.
Passata l'anticamera giunsi in una sala ben arredata, ove la tavola era approntata per il desinare.
Ogni cosa pareva esser stata lasciata al suo posto, oggi come quel dì, l'ultimo trascorso ad Anor Londo.
Invero provai inquietudine ma sottraendomi all'affanno che ne deriva, proseguii ed attraversai un'arcata, raggiungendo il lungo corridoio ornato di pesanti tende di velluto vermiglio adorne di fili d'oro che portava alle stanze della servitù, ove la mia nutrice era solita rincorrermi poiché solevo nascondermi da mio fratello durante i nostri giochi.
Nulla fu cangiato in quei secoli, tant'è che m'incolpai di stare vaneggiando!
Ma mentirei se vi dicessi che il cuore non si colmò di gioia quando vidi la sala ove io e mio fratello riposavamo! Ancora rammentavo nostra madre narrarci, come fosse un gran segreto, le leggende sui cavalieri pigmei che uccidevano i draghi a fianco alle divinità.
Stupore più grande ebbi nel vedere la porta di legno ornata con disegni raffiguranti dei fiori, tanto che cuore e gambe rischiarono di venir meno!
Presi titubante la maniglia poi l'abbassai e aprii, per un momento mi sembrò di vedere mio padre seduto a scrivere, tant'è che saltai per lo spavento!
«Padre!»
Ma mio padre non era invero lì, gli occhi e il cuore m'ingannarono, sì che ne provai smarrimento e dolore.
E poi lo vidi.
Il dipinto di famiglia posto sul camino, ove lo avemmo lasciato.
I volti di mio padre e mia madre erano stati corrosi dal tempo, lasciando visibili quello mio e di mio fratello.
Osservai l'affresco per un tempo indeterminato: eravamo sì stati separati, ma qui figuravamo ancora tutti assieme. Questo mi rinfrancò lo spirito ed infuse nelle mie membra stanche un rinnovato ardore e, poiché che a muovermi non era altri che Speranza, in essa riposi tutto ciò che mi rimaneva. Perfino Ragione le affidai, ed incurante di cosa potesse attendermi mi rimisi in marcia.
Un cavaliere che si rispetti però, prima di compiere i suoi oneri personali, avrebbe dovuto occuparsi dei compiti dagli altri affidatogli e così avrei fatto io.
Nonostante fremessi per scoprire che destino fosse toccato a mio padre, abbandonai la nostra vecchia dimora e mi diressi – tramite un complicato ma ben congegnato sistema di ascensori – al luogo designato sin dal principio, ovvero, la Sala del Dipinto.
Cosa vi era di così importante in questa stanza tanto da richiedere una missione di tale portata? Anche io mi ponevo siffatto quesito in quanto più di una volta in passato visitai codesto luogo e posso giurare che mai nulla di insolito vi notai.
Ed invece, con lo scorrere per nulla magnanimo del tempo, palesemente le cose erano cambiate.
Non appena calcai il suolo in questione notai dei loschi individui facenti sfoggio di una particolare tunica color dell'alabastro e – pericolosamente armati con doppie lame ricurve – essi erano disseminati per ogni angolo dell'atrio, in particolare una maggior concentrazione di uomini la si poteva notare dinanzi al dipinto.
Gli occhi miei non poterono credere a tal vedere: mai vidi delle scolte vegliare così attentamente su un dipinto che – per quanto bello fosse – non avrebbe meritato comunque tanta importanza.
Ma certo ben ne disponeva se codesta tela celava qualcosa di assai segreto.
In qualsiasi modo muovessi passo, non potevo aggirare il manipolo di uomini e se questi avessero anche solo notato la mia figura, mi sarebbero corsi contro tutti assieme con tale furia che affrontare un cavaliere con lancia in resta durante una giostra, sarebbe stato più semplice.
Or dunque, che fare?
Questi guardiani dall'aspetto devoto erano inoppugnabilmente l'ostacolo più insidioso postomi dinanzi fino ad ora. Al contrario dei lenti – ma abili costruttori di imboscate – non morti, questi davano l'intuizione di essere sinuosi nei movimenti tanto quanto letali e, nonostante la mia stazza, avrei dovuto ponderare per bene le mie mosse, sì che essi potessero essere forti ove io ero debole e loro deboli ove io ero forte.
Avanzai di pochi passi e prima ancora che potessi armarmi della rilucente alabarda, un fellone mi lanciò contro un pugnale che schivai flessuosamente, poi questi si gettò con furia brandendo le doppie lame ma – prima che potesse anche sol pensare di riuscire a gabbarmi – mi armai rapidamente della corta daga parandone i fendenti.
Tanto egli fu assorto nella sua tracotanza da non notare che la mano libera giunse all'asta dell'alabarda e con un secco taglio dall'alto, spirò nelle peggiori delle maniere.
Che Nito potesse averli in gloria! Quantunque essi potessero esser dei prodigi nel tirar di spada, la loro stolidità nel non saper riconoscere un periglioso nemico li avrebbe fatti fallire!
Allora si inducevano a credere che solamente Onore – che sedeva alla loro destra sussurrando soavi lodi tanto da gonfiarli facendo scoppiar il petto – avesse potuto accompagnarne le gesta ma Onta, che invece sostava alla sinistra come un cupo e truce spettro, era capace di lunghe attese ed al minimo fallimento oltre che beffarsi di loro poteva decantarne la morte vergognosa.
Pena peggiore vi era di questa ed era l'esilio ma ahiloro, queste sentinelle che mi si pararono dinanzi, non lo avrebbero conosciuto.
E così infuriò battaglia in quanto vedendo i loro fratelli d'arme in pericolo, accorsero anche gli altri: tre dal centro della sala ed altri tre alle loro spalle, più due che speravano di offrir loro supporto stando in disparte agli angoli, dietro le maestose colonne.
A lungo il clangore delle spade riecheggiò tra quelle mura, con sola ed unica spettatrice la statua di Nostra Signora, Regina della Luce Solare Gwynevere che nonostante fosse una scultura di ottimo pregio, pareva posar gli occhi su quei nemici blasfemi che avevano osato adontarla solo con la loro presenza, garantendosi d'assisterne alla disfatta.
Così fu.
Non ne uscii indenne io in quanto i pugnali perforarono l'armatura in più punti, causandomi fastidiosi graffi brucianti ma a loro toccò un destino assai peggiore, poiché non ne risparmiai nemmeno uno.
Riposi sulla spalla la fida ed affilata compagna di viaggio e levando gli occhi in alto, compresi che finalmente ero riuscito a giungere ove il mio compito avrebbe dovuto volgere al termine.
Il Dipinto di Ariamis non era altro che un affresco raffigurante un ponte di legno sospeso al di sopra di un'immensa foresta innevata, sulla quale si ergevano con fare funereo delle rovine d'un castello diroccato.
Mi accostai alla tela e prendendo dalla cintola la misteriosa bambola insolita trovata al Rifugio dei Non Morti, la portai in avanti quasi come a volerla mostrare.
Nulla accadde.
Prima di poter urlare d'aver subito un pesante gabbo, posai la mano sul dipinto sperando di scoprire qualcosa che fosse celato oltre di esso ma ecco che accadde l'impensabile.
Stregoneria! Incantamento! Chiamatelo con qualsiasi nome lo si voglia, apparteneva a siffatta branca!
Qualcosa o qualcuno, mi attirò con tale forza da alzarmi da terra e invero mi fece attraversare la tela trasportandomi direttamente al suo interno!
Arrancai quanto più fiato potei e nonostante il disorientamento iniziale, portai ambo le mani a tenermi al corrimano di quello statico ponte di legno.
Mi guardai attorno più volte con agitazione sperando fosse un abbacare della mia mente, ma così non fu.
Mi trovai dentro l'affresco!
Mi trovai davvero all'interno del Dipinto di Ariamis!
Sì che rimaneva solamente un ultimo compito da perseguire: trovare ciò che vi era di pravo in quel luogo ed estirparlo.
Anche se ne avrebbe richiesto una forza immane.
Note Autore:
Buongiorno, lettori e lettrici. Spero abbiate passato una piacevole lettura anche quest'oggi, ma soprattutto che qualche domanda alla quale non avete trovato risposta nel precedente capitolo sia stata chiarita. In caso fosse così, ben lo spero e se invece non lo fosse, sappiate che a breve ogni cosa vi sarà svelata.
Come potete ben notare, in questo capitolo ho voluto portarvi Anor Londo in tutto il suo splendore ma ho immaginato anche i suoi quartieri bassi, che purtroppo nel gioco non abbiamo potuto visitare per ovvi motivi. Così mi sono rimboccata le maniche e mi sono chiesta come potesse essere nei tempi d'oro in cui era ancora abitata: del resto parliamo di una città maestosa con degli abitanti che si sono autoproclamati dei sopra ogni cosa, ma questi dei – come credo sia per davvero – dopo aver costruito una maestosa capitale come Anor Londo dovevano pur avere una quotidianità. Essendo che si ritenevano comunque nobili, ho immaginato delle botteghe che potessero soddisfare i loro bisogni... o capricci, naturalmente ben tenendo conto dell'epoca in cui si svolge il primo Dark Souls. Spero davvero di essere riuscita a darvene una vaga parvenza leggendo queste righe.
Ho immaginato cosa volesse dire per un dio tornare nella propria città, nella propria casa e trovare sì tutto abbandonato ma stranamente (e noi ben sappiamo il motivo di ciò) tutto perfettamente in ordine, statico se vogliamo utilizzare il giusto termine. Nel mentre accompagnavo il mio protagonista riga per riga ho provato così tanta empatia che io stessa stavo per scoppiare in lacrime perché se c'è una cosa che mi fa molta tristezza di una così bella città – nonostante comunque sia le divinità non fossero dei santi – è vederla vuota. Tornare in ciò che era la propria casa e lasciarsi travolgere dai ricordi è qualcosa che letteralmente, non ha prezzo.
Invero cari lettori, vorrei ricordarvi che "i cari ricordi possono tenerti in vita".
Detto questo, vi lascio alle vostre supposizioni e teorie che – come sempre – vi invito a rivelarmi le vostre supposizioni e teorie poiché per uno scrittore non c'è niente di meglio che sentire il pensiero che hanno i lettori sulla propria opera. Al solito vi ringrazio, sia se votate e/o commentate, sia se darete una lettura silenziosa. Grazie, grazie, grazie!
Ci si vede al prossimo sabato!
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