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Capitolo 10

«Cambiare scuola?» borbottò Kat.
Stranamente l'idea non suscitò nulla in lei.

«Ma certo! Se tornerai alla tua, avranno tutti da parlare. Come pensi ti tratteranno? Sarà un vociferare unico. Cosa pensi diranno ai loro genitori? La gente riconoscerà il cognome di tuo padre. No no. Cambierai scuola e non dirai nulla ai tuoi nuovi compagni.» preoccupata sua madre si toccava i capelli senza darsi pace.
Preoccupata del giudizio del mondo su di sé, del proprio giudizio feroce che non le dava modo di guardare oltre se stessa.

Katherine rise di una risata amara che durò pochi secondi, mostrando i denti in un ghigno.
Era tutto sbagliato. Davvero sua madre era tanto disgustosa? Ancora, il peso rabbioso nel petto.
«Non mi interessa.» scosse la testa sentendola vuota.
Tutto quello, tutte quelle questioni erano insulse. Qualsiasi cosa, qualsiasi preoccupazione si era semplicemente rivelata insulsa davanti alla gravità della morte.

Guardò sua madre. Ebbe pena per la sua stupidità. Preoccuparsi tanto per quelle cose prive di valore, era tempo sprecato. Era vita sprecata. Perché la gente si preoccupava per delle cazzate? Perché aveva sempre passato il tempo a preoccuparsi per cose inutili, come andare bene a scuola o essere accettata dagli altri?

Le sembrava di essersi svegliata da un lungo sogno. Per la prima volta pensò che forse era meglio fosse andata così. Forse si sarebbe abituata in fretta al vuoto, forse un giorno avrebbe smesso di mancarle la se stessa innocente, o forse no.

«Non cambierò scuola.» decise ghignando, coprendosi il volto con una mano.
In realtà l'idea di non vedere più quella gente e quella dannata prigione era buona, ma tutta quella rabbia non le avrebbe mai permesso di darla vinta a sua madre.

Per la prima volta in vita sua Kat si rifiutò davanti agli ordini dei suoi genitori.  Non poteva più evitarlo. L'odio era diventato insopportabile per starsene fermi, a peso morto come burattini.
«Ma Katherine! É una pessima idea, è ovvio che dici così per il trauma che hai subito. Non ti rendi conto della gravità! Non se ne parla. Non voglio che ti rifacciano questo.»

Valentine guardò di sbieco sua madre. Non capiva. Riusciva a dire mille cose sbagliate e poi a giustificarle tutte con una giusta. Sembrava quasi le volesse davvero bene, sembrava quasi ci tenesse davvero.
Ma come poteva tenerci e allo stesso tempo farle tanto male? Non se ne capacitava.
La convinzione con cui sua madre copriva il proprio egoismo le diede sui nervi.

Il senso di colpa che era in grado di causarle con un misero "Non voglio che ti rifacciano questo" era esagerato.
Sarebbe stata in grado di dimenticare tutto il resto, per la semplice illusione che sua madre tenesse davvero a lei. Il senso di colpa legato al bisogno di amore che palpitava tra le sue costole, la fece infuriare più che mai.

«No. Tu non vuoi rimetterci la faccia. Tu non vuoi fare brutta figura. » sputò veleno tra i denti.
La signora impallidì sgranando gli occhi. Confusa da quell'atteggiamento che sua figlia non aveva mai avuto. Strinse i denti sentendosi aggredita, rispondendo al veleno col veleno.

«Stai scherzando, Katherine?
Ti rendi conto che hai tentato il suicidio? Io ti dico queste cose perché ti voglio bene. Ti rendi conto che sei fuori di testa? Insomma! Sei davvero così egoista da non pensare alle conseguenze del tuo gesto su di noi, la tua unica famiglia? Non pensi al dispiacere che hai causato a tuo padre che già ha una certa età?»

Valentine smise quasi di respirare. Quelle parole le avrebbero fatto atrocemente male… se avesse sentito qualcosa, ma il suo vuoto la salvò. Vista da fuori, senza tutte quelle emozioni a risucchiarla, si rese conto di quanto sua madre fosse scorretta.
Puntare sul suo senso di colpa, usare suo padre per ferirla. Rigirare un gesto tanto disperato e doloroso, etichettandolo come egoismo. Per infine nascondersi dietro ad un "perché ti voglio bene.". Uno dei pochi che aveva mai sentito in vita sua, ed uno dei più malsani.

«Io non cambio scuola.
Non puoi costringermi. Ho diciott'anni.» rispose nella propria apatia. Il volto di sua madre divenne rosso dalla rabbia. Era certa stesse per farle una scenata, ma prima che potesse urlare bussarono alla porta.

Suo padre entrò nella stanza, in mano aveva il suo zaino azzurro pastello.
«Papà...» bisbigliò Kat dispersa.
«Katherine...» suo padre le si avvicinò affranto, sforzando un sorriso.
«Come stai?» inghiottì la saliva, trascinando una sedia vicino al suo letto, dall'altro lato della moglie.

«Bene...» mentì, più per non farlo preoccupare che per abitudine.
Suo padre annuì, scrutandola con occhi caldi.
Le diede i brividi. Sembrava sempre vedere dentro di lei, in qualche modo. Avrebbe desiderato sentire più spesso il suo calore.

«Io ti ho portato questi...» senza esitare aprì lo zaino tirando fuori un paio di libri fantasy. Doveva averli presi dal suo comodino, erano  quelli che doveva ancora finire.
«Ho pensato che potrebbe farti bene... anche per passare il tempo... per distrarti...
Ti ho preso anche il Nintendo.» suo padre era disagio, Kat lo poteva vedere dal suo sguardo basso e le sue parole titubanti. Faceva sempre fatica a dirle cose dolci, nonostante dimostrasse spesso di volerle bene, almeno in confronto a sua madre.

«Grazie Pa.» trovò il suo sguardo.
L'uomo cercò la sua mano piccola stringendola forte, quasi stesse cercando un appiglio per non scivolare via.
«Mi sei mancata tanto.» la guardò dritta negli occhi e Kat ci vide la paura e il sollievo di riaverla. Era sincero. Sempre così distaccato nei modi, ma sincero.

'Tu mi manchi sempre...' pensò Valentine senza dire niente con sguardo dispiaciuto.
E ancora la rabbia a competere con quel bisogno di amore nel suo petto.
'Devo davvero arrivare a suicidarmi per meritare un po' del tuo tempo?' una nota insolente, delusa, nella sua testa. 'Oggi mi dici queste cose e domani sparisci di nuovo. Ormai ci ho fatto l'abitudine.' quel pensiero come a ricordarle di non fidarsi troppo. Di non rischiare troppo e fare lo stesso errore, ora che il nulla poteva salvarla.

«Ti prego, non farlo mai più.» la supplicò guardandola fissa negli occhi. Le rughe sulla sua fronte gli spezzarono il volto in un'espressione sofferente. Valentine si perse nei suoi occhi caldi, vacillando, sfiorando il senso di colpa.
«Non succederà.» rispose soltanto, seria. Suo padre continuò ad osservarla come se stesse cercando la verità, come se stesse cercando propria figlia in quello sguardo morto, e in qualche modo la trovò.
Il suo corpo si rilassò. Abbassò le spalle tese e si lasciò andare un sospirò flebile.

Kat strinse le pellicine del labbro tra i denti. Non voleva sentirsi in colpa. Non voleva assolvere i propri genitori di tutto quel male che stava venendo fuori. Di tutta quella solitudine in cui l'avevano lasciata, di cui mai si era resa conto, perché mai aveva avuto motivo di pensarci.
Era così da sempre. Pensava fosse normale da quando era bambina, rimanere a casa da sola a leggere e giocare, ad aspettare il nonno.
Ora che quel dolore pesava tutto su di lei, forse egoisticamente, non voleva pensare che suo padre e sua madre non fossero parte di quel tentato suicidio.

La rossa sorpresa del silenzio si girò verso propria madre, trovò curioso il modo in cui guardasse dall'altra parte.
«Katherine non vuole cambiare scuola.» la nota negativa nella sua voce.

Suo padre incrociò le braccia.
«Non preferiresti, Kat? La situazione potrebbe peggiorare a scuola...»

«No. Non mi interessa. Voglio rimanere nella mia.» rispose pacatamente.
Suo padre la guardò negli occhi per qualche secondo e Kat ricambiò lo sguardo con determinazione.

«Mh... se sei sicura, va bene.» fece un cenno col capo, toccandosi la fronte, come se non fosse convinto del tutto.

La donna bionda lo guardò per qualche secondo, incredula, prima di scoppiare.
«Va bene? Stai scherzando? No, che non va bene. Devi smetterla di assecondarla su tutto. È già viziata per colpa tua.» 

Parole già dette, già sentite.
Le ricordavano come lei avesse tutto, troppo e non meritasse comprensione. Le ricordavano quanto fosse egoista a pensare solo a se stessa, a vivere per se stessa.
Ricordavano quanto poco amore meritasse...

Katherine era sicura, e per la prima volta non se ne sentì in colpa.
Odiava terribilmente propria madre.

*


«Madonna, speriamo vada tutto bene.» Charlotte fuori dalla porta spingeva la carrozzina avanti ed indietro lungo i corridoi, per scaricare la tensione.
Continuava a pensarci, ma proprio non capiva perché fosse successo.
L'unica cosa di cui fosse certa era che West ne era la causa, almeno in parte.

Non poteva essere una coincidenza che fosse stata lei a trovarla. Non potevano essere stati solo i suoi bulli a ridurla così, senza alcuna ragione. La risposta doveva essere Elizabeth West. Se lo sentiva.

Quella consapevolezza le aveva bruciato lo stomaco per giorni. Era stato un incubo. Aveva passato il tempo impotente a non poter far nulla, solo a guardare quel piccolo corpo addormentato, pregando di rivederlo animato prima o poi. Non sopportava più la propria impotenza.

La vendetta aveva corroso più volte il cervello di Charlotte. Il bisogno di giustizia, di proteggere i deboli, di proteggere l'unica amica che aveva varcato i suoi muri.
Chiunque avesse fatto quello a Kat, avrebbe pagato, in qualche modo.

«Scusami, ecco, non trovo la stanza P13. Sì, lo so che basterebbe seguire i numeri sulle porte, ma sono ore che sto cercando e sbaglio sempre corridoio. Non sono molto in forma.» una voce sconosciuta la interruppe dai propri pensieri.
Odiava essere interrotta durante le proprie lunghe riflessioni.

«Sì, è...» si bloccò, 'la stanza di Katherine.' Charlotte alzò lo sguardo.
«W-West E-Elizabeth.» l'adrenalina la colpì, scuotendole le ossa. Il cuore prese a batterle violentemente per la sorpresa.

Non aveva mai visto West dal vivo, ed ora ce l'aveva davanti. Ora che era il suo nemico.

«Ci conosciamo?» chiese insicura Jade.
Non ricordava di aver avuto una studentessa disabile, ma magari lo era diventata dopo. Tutto poteva essere.

«No, ecco...
Studio psicologia. Ho tutti i suoi libri, ecco...» inghiottì la saliva sentendosi a disagio. Il sangue le pulsava nelle tempie, sforzò un sorriso.
West dal vivo era affascinante, nonostante avesse un aspetto poco curato rispetto alle foto, anzi guardandola meglio, aveva davvero un aspetto di merda.
Aveva un mazzo di fiori e dei cioccolatini. Di certo erano per Kat, per comprarla, o comprare il suo silenzio.
Nonostante questo Charlotte capì come mai Valentine fosse così dipendente da lei. Si poteva vedere, oltre ai suoi occhi stanchi, il suo gelido charme.

Elizabeth sorrise, non potendo far a meno di provare piacere nell'essere riconosciuta. Almeno quella ragazzina l'avrebbe sicuramente aiutata a trovare la stanza se era una sua ammiratrice. Non era sicura di poterla trovare da sola in quelle condizioni, o forse non voleva trovarla per paura...
«Oh, che bello. Mi fa piacere.»

«Sì, ecco... adoro i suoi libri! Specialmente la serie di ricerche sulla psicosi, trovo sia estremamente affascinante ed innovativa.» Charlotte la osservava ammaliata, con uno stupido sorriso sul volto.
Jade capí di essere una sorta di idolo per quella ragazza.

«Oh, grazie. Sì, penso che quello sia uno dei miei lavori migliori. Ora però mi dispiace, ma ho davvero bisogno di aiuto per trovare questa stanza.  Se sai dov'è, possiamo chiacchierare mentre mi ci porti.» propose innocentemente.

Charlotte annuì entusiasta.
«Sì sì. So la strada, posso aiutarla io, Signorina West.» fece dietro front spingendo le ruote ed aspettando che la raggiungesse.
«Una cosa che mi sono chiesta spesso è come mai ha smesso con la ricerca. Stava andando così bene.» chiese guardandola con la coda dell'occhio, spingendo le rotelle più lentamente del solito, pur di guadagnare tempo.
Charlotte si sentì in colpa per quella domanda, ma non poteva fare a meno che essere curiosa. Aveva passato anni a leggere delle sue ricerche e prenderla come punto di riferimento.
Dopo quello che le aveva raccontato Kat la sua figura era crollata completamente, ma trovarsela di fronte era tutta un'altra cosa.

West si guardò attorno, leggendo i numeri su ogni porta, alla ricerca di quella giusta.
Quella domanda la colse impreparata, portandola ad abbassare lo sguardo affaticata. «Ecco, era diventato scomodo...
Non era un buon periodo, inoltre scarseggiavano i fondi per la ricerca.» mentì sentendosi stupida per non aver trovato una scusa migliore. Sperò che la porta arrivasse presto, prima che quella ragazzina la riempisse di mille altre domande a cui non aveva voglia di rispondere.

«Quei fiori sono per qualcuno di importante? Se posso sapere...» osò Charlotte nascondendo un sorriso calcolatore.

«No, ecco... sì.
Una mia alunna, non sta molto bene...» Jade deglutì la saliva, svagando lo sguardo.
Così era ancora peggio con le domande.

«Ha tentato il suicidio?
Sa... nel reparto psichiatria, è spesso così.
Anche io sono qui per una mia amica.» Charlotte abbassò lo sguardo triste, stringendo l'odio tra i denti. Ai suoi occhi non sfuggiva una sola espressione di West.

L'insegnante abbassò lo sguardo sui propri passi.
«Sì... ma si è risvegliata, per fortuna.
Grazie a Dio l'ho trovata in tempo.» Liz strinse la presa sui fiori. Provò il ricordo del sangue, di tutta quell'impotenza nel suo petto.

Charlotte sentì i nervi a fior di pelle. Digrignò i denti per obbligarsi a tacere. Avrebbe fatto le cose per bene, come sempre.
«Secondo lei West, perché delle ragazze così giovani vogliono morire?» sputò quella domanda lecita, fatta da una studentessa ad un'esperta ricercatrice.

«Io... non saprei.» strinse le labbra, sentendo lo stomaco bruciare di un senso di colpa fin troppo forte. 
«Forse alcune persone sono troppo per questo mondo. Si sentono troppo fragili per la vita. Troppo sole, troppo ferite.»

«Sì... Ferite.» Charlotte masticò quelle parole a lungo prima di lasciarle uscire dalla propria bocca.
«Alcune ragazze vengono ferite. Ragazze fragili di cui le persone si approfittano. Ragazze che sopportano l'insopportabile.
Tutto per colpa di mostri egoisti, di pezzi di merda che creano squarci indelebili, senza farsi manco un problema delle conseguenze. Esseri del genere pensano solo a se stessi, al proprio guadagno. Finché non rovinano o uccidono una giovane vita.» aggiunse Charl,  facendo trapelare tutto il proprio disgusto, tutta la propria rabbia.

West nel silenzio sentì i propri sentimenti urlare. Quella ragazza parlava della propria esperienza, ma aveva ragione, le sue parole erano giuste.
Jade si sentì sull'orlo; sul lato dei mostri, degli assassini. Fece di tutto per rimanere in piedi mentre la testa minacciava di farle cadere il corridoio addosso.
«Già...» rispose soltanto, affaticata. Senza accorgersi del sorriso soddisfatto della ragazza in carrozzina.

«Siamo arrivati.» Charlotte si girò verso Jade facendole un cenno verso la porta e dedicandole il proprio miglior sorriso.
«Senta, prima devo farle un'ultima domanda...» la chiamò prima che potesse avvicinarsi.
«Pensa che a spingere al suicidio la sua alunna Katherine Valentine, sia stato il fatto che lei, la sua professoressa di Matematica, abbia creato un rapporto di dipendenza, basato sulla violenza psicologica, per abusare sessualmente di lei?
Perché io credo di sì, Elizabeth.»

Jade impalidí, le gambe si fecero molli mentre il corridoio ruotava violentemente.
Chi era quella dannata ragazza?

«Ti vedo pallida, West.
Forse ti farebbe bene sederti, abbiamo molto di cui chiacchierare.» Charlotte sorrise bastarda, sicura che sarebbe stato divertente giocare quel gioco.

Era in una posizione favorevole. Avrebbe vinto, persino contro Elizabeth stessa.
L'adrenalina le correva lungo le ossa.
'Avanti West, dato che ti piacciono tanto questi giochetti, vediamo come te la cavi con chi è del tuo campo.'

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