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Sensi di colpa

Quella serata non l'avrebbero mai superata. Quel senso pesante che si faceva strada come un serpente lungo le viscere dei loro corpi. La stanza bianca della sala d'attesa era anche più difficile da gestire, quello spazio bianco e senza emozioni era in grado di prosciugare ogni forza che le loro cellule cercavano di produrre.

Se non avessero permesso ai ragazzi di allenarsi con il vento… se Idaho non fosse stato assente… se tutto questo fosse stato solo un brutto sogno… nelle loro teste aleggiavano così tanti dilemmi che non sarebbero riusciti a dormire nemmeno un minuto. Jake camminava avanti e indietro davanti alla porta, non avevano notizie di Jessie da ore e nessuno si era palesato per almeno informarli delle sue condizioni di salute. La scena della sorella immobile sul prato lo devastava, lo mangiava da dentro. Si sentiva impotente e irresponsabile, si sentiva un pessimo fratello in quanto non aveva provveduto a proteggere a dovere la sorella che ora lottava per la vita e la morte.

Logan non era messo meglio: fissava il pavimento azzurro con le piastrelle lisce in un modo tanto insistente che forse avrebbe voluto vederle bruciare. Lui era l'adulto del gruppo insieme a Lisette, ma era il braccio destro del conduttore del loro circo e avrebbe dovuto proteggere tutti e tutelarli. Avrebbe dovuto impedire che succedesse una cosa del genere, e quel silenzio lo stava schiacciando dall'alto. Avrebbe voluto spaccare tutto e mandare all'aria il mondo intero, se avesse potuto riavvolgere il tempo lo avrebbe fatto senza pensarci due volte, se avesse potuto prevederlo li avrebbe fatti scendere… ma quando mai gli aveva dato il permesso di farsi del male in quel modo.

Belle e Charlotte erano abbracciate, sedute un po' più distante dal gruppo. Charlotte si vergognava per quello che era successo. Era spaventata, sentiva di aver deluso tutti, di aver deluso Idaho per non aver tenuto insieme la situazione, per non essere stata una persona responsabile. Il ragazzo dai ricci dorati se n'era andato affidando a loro l'incolumità del circo e loro avevano permesso che una degli acrobati si facesse male, segnasse la sua vita con un punto di non ritorno. Sapeva che avrebbe dovuto fermarli, sapeva che avrebbe dovuto impedire in ogni modo che i ragazzi prendessero iniziative, sapeva che aveva fatto bene ad opporsi all'idea di cambiare le cose. Le cose non devono cambiare, devono restare come sono o le conseguenze fanno in modo di rimettere a posto le falle a modo proprio, anche se può comportare pessime azioni. Una parte di sé voleva andare ad abbracciare il giovane trapezista, dargli il conforto di cui aveva bisogno, ma sentiva di essere l'ultima persona di cui sentiva il bisogno di avere vicino. Lei che aveva guardato per tutto il tempo e non aveva fatto niente per impedirlo. Lei che aveva opposto resistenza quasi potesse prevedere il futuro di quella maledetta giornata e non aveva tenuto le redini a dovere. Lei che avrebbe dovuto avere il buon senso di evitare tutto quel che era successo.

Non è stata colpa tua, Charlotte. Le avevano detto andando in ospedale, ma lei non era in grado di elaborare la cosa. Aveva la nausea, le veniva il vomito, le girava la testa e le pesavano le gambe. Sentiva addosso un peso più grande di lei, un velo di odio che la perseguitava, che la teneva lontana da tutti anche se non fisicamente.

Non è colpa tua, Charlotte. Non importava quante volte le vorticava nella mente quella frase, nulla poteva convincerla davvero. Non vedendo Jake scosso e logoro dalla tensione.

“Perché non esce nessuno…” sussurrò Belle drizzandosi con la schiena, ma solo per non sentire quei brividi che le stavano graffiando la pelle talmente erano fori e pronunciati, non lasciava la presa dalla sua amica che quasi nemmeno respirava, paradossalmente era la più spaventata in tutta la situazione.

“È colpa mia… è solo colpa mia” disse poi il ragazzino passandosi le mani sul viso, “Non dovevo darle retta…”

“Jake. È successo. Non è colpa di nessuno” Lisette era l'unica apparentemente tranquilla. Forse perché sapeva che non avrebbe prodotto nulla allarmarsi e agitarsi prima di avere certezze chiare, prima di sapere di che morte sarebbero morti. Era indubbiamente preoccupata per Jessie, per i danni che poteva aver riportato, ma voleva essere positiva e cercare di scaricare la tensione che si era creata.

“Invece è colpa mia. Non è vero che è successo e basta” ribatté il ragazzino avvicinandosi, con gli occhi gonfi e rossi per le lacrime, “Non dovevo accettare di allenarmi con quel vento. E lo sapevo benissimo che poteva succedere”.

“Poteva. Ma non significa che sarebbe successo in tutti i casi”.

Jake avrebbe voluto ribattere, avrebbe voluto esplodere, lo vedevano tutti. Ma si trattenne. Non ne valeva la pena. Non aveva senso. Adesso l'unica cosa che gli importava davvero era sapere come stava sua sorella e se e quando si sarebbe ripresa. Avrebbe voluto strapparsi i capelli, uno per uno per soffrire davvero tanto; avrebbe voluto buttarsi sotto ad un treno, fare qualche stupidaggine che potesse costargli la vita. Senza sua sorella non aveva senso continuare a vivere, non quando l'unica persona che gli era rimasta appartenente alla sua biologica famiglia poteva non tornare mai più. E sapeva benissimo che Lisette aveva ragione a parlare così, che nessuno poteva prevedere una cosa del genere, ma era impossibile restare calmi e lucidi quando in gioco c'era la vita di una persona cara.

Ecco cosa succede quando i sensi di colpa, quando tutti i se iniziano ad ammassarsi in testa impedendo al cervello di ragionare, quando tutte le domande poste durante un viaggio infinito colpiscono gli angoli del cranio fino a far scoppiare la testa. Succede che nessuno ha più la certezza di sapere cosa sarebbe andato bene, cosa si sarebbe potuto evitare, cosa non era previsto. Se non avessero insistito per sfidare il vento… se avessero ascoltato le ragazze quando dicevano di scendere… se avesse anticipato di un secondo solo… ma nulla di tutto ciò poteva avere una risposta che fosse diversa da quella che avevano davanti agli occhi. Stava di fatto che tutto il corso degli eventi li avevano portati a quell'ospedale.

Charlotte si buttò in avanti, sorreggendo il viso con le mani: “Non ce la faccio più ad aspettare…” quell'attesa le bloccava il respiro, cancellava quel poco di aria che tentava di entrare dalle sue narici, dalla sua bocca. Sentiva un nodo così grande da fare da tappo, la voce forse non era nemmeno uscita, non come aveva pensato lei. Non aveva avvertito movimenti, se non quelli di Jake che era tornato a segnare il perimetro di quella stanza vuota e silenziosa, e l'unico rumore erano le lancette di un orologio che ticchettava svogliato.

Poi, come se fosse stato un miraggio, la porta si aprì piano, mostrando un medico e un'infermiera. Tutti alzarono la testa nella loro direzione, con mille espressioni diverse per cercare di interpretare, o anticipare, le parole che avrebbero pronunciato poco dopo.

“Dunque…” mormorò il medico squadrando la sala d'attesa, per poi leggere la cartella che stringeva in mano, “Chi sono i genitori della ragazza?”

“Non ci sono” disse sicuro Jake, “Ma ci sono io”.

“Ne sono responsabile io” intervenne Logan alzandosi, eseguì qualche piccolo passo per raggiungere le uniche persone che in un modo o nell'altro avrebbero messo fine a quell'attesa, “Dica a me cosa dobbiamo sapere”.

“La piccola è fuori pericolo” lo disse tutto in una frase sola, “Ha una spalla molto danneggiata, fratture multiple… ma per fortuna siamo riusciti ad impedire che la clavicola bloccasse il respiro troppo a lungo. Le abbiamo riallineato l'osso, ma non può muovere il braccio. Forse non ci riuscirà più”.

Per quanto quella confessione potesse sconvolgere chiunque, per quanto sapere che un braccio non avrebbe più potuto muoversi avrebbe reso chiunque inutile agli occhi di tutti, sapere che Jessie era fuori pericolo sollevò tutti i circensi. Non importava cosa sarebbe successo dopo, non importava quanti danni avesse e quanto fossero gravi, importava che la ragazzina stesse bene, o almeno che fosse ancora viva. Charlotte dal canto suo sentì un peso rompersi in mille pessi e sgretolarsi, lasciando libero il suo animo tormentato. Non era tutto perduto, non aveva del tutto deluso il suo conduttore dai capelli dorati, e da lì le cose si sarebbero aggiustate pian piano, sarebbero migliorate senza avere troppe ripercussioni.

“Si è svegliata? Sta bene? Posso vederla?” chiese il ragazzino con fare insistente voleva vederla ora che sapeva di poter ancora godere della sua presenza.

“Per ora ha bisogno di riposare, ma se vuoi puoi restare seduto accanto al suo letto” l'infermiera gli diede una carezza sul volto, sentendo il calore della tensione che pian piano scompariva, si affievoliva, vedendo la sua espressione rilassarsi gradualmente. Nei suoi occhi una gratitudine silenziosa passò in rassegna sul medico e sulla donna che gli rivolse un sorriso rassicurante come risposta, una sorta di amore materno che lui aveva dimenticato con gli anni, e solo grazie a Lisette gli ritornavano alla mente fugaci coccole da cui era impossibile ritrarsi.

Però, un quello spavento e in quella relativa calma successiva, nel loro sollievo e nelle loro riflessioni per capire come sarebbero cambiate le cose da quel momento, Charlotte tornò a mangiarsi dentro per le condizioni di Jessie. Adesso sapeva che era viva, che si sarebbe ripresa e andava bene così, ma se il suo braccio non fosse più stato in grado di muoversi correttamente? Se lei non avesse più potuto volteggiare sul trapezio come aveva semore fatto? Era comunque una perdita per la loro compagnia, un numero in meno in grado di ammaliare e sorprendere un pubblico ignaro di quello che un tendone bianco e rosso era in grado di celare. Adesso erano senza un acrobata, erano senza un numero prezioso e Jake non avrebbe accettato di eseguirlo da solo.

Quella sensazione tornò: un moto di delusione, di dispiacere, di paura investì la ragazza senza darle il tempo di metabolizzare tutto quello che stava succedendo. Idaho sarebbe tornato e avrebbe cacciato tutti dalla sua compagnia. Perché loro avevano provocato questo.

“Charlotte?” la chiamò Belle, risvegliandola da quei pensieri disumani. Si accorse solo in quel momento di avere le dita cotte per colpa del lungo tempo in acqua e sapone. Mollò il panno che stava strizzando.

“A cosa stai pensando?”

“A tante cose” la sua risposta fu un sussurrò, “A Jessie, Idaho, al nostro circo… è come se acessi in testa un uragano di pensieri da cui non riesco a uscire”.

“Non ti devi più preoccupare adesso” Belle si sedette accanto a lei, invogliandola a guardarla negli occhi, “Ora il peggio è passato. E Jessie si riprenderà. Deve solo superare lo spavento”.

“Solo?” non era solo quello, non doveva solo metabolizzare lo spavento e Charlotte lo sapeva bene. In gioco c'era ancora troppo, se non avesse più potuto usare il braccio, in automatico sarebbe diventata inutile agli occhi di tutti.

“Guarda che il dottore non ha ancora dato per certo che il suo braccio non guarirà” la francesina parve legger nella sua mente, anticipando la domanda che avrebbe voluto fare, “Ha solo detto che ha una spalla rotta e che deve riposare”.

Ha solo detto. E quante volte si sono rivelate vere quelle parole al momento di decidere se un essere umano poteva tornare come prima o restare compromesso per sempre? Anche al circo di Grave molti acrobati o fenomeni da baraccone avevano finito per condurre un'esistenza pietosa dopo un infortunio solo perché David rifiutava di pagargli le cure. Per il momento potevano essere parole vuote, suggestive e senza un senso preciso, ma Charlotte temeva davvero potessero portare al risultato peggiore. E continuava a credere che le cose avrebbero potuto andare diversamente.

“Se dovesse aver bisogno di un'operazione o altro, la aiuteremo. Tranquilla”.

“Il problema, Belle… è che lui si fida a di noi e adesso noi stiamo mettendo a rischio tutto quello che ha costruito?”

“Charlotte, senti” questa volta la francesina assunse un tono severo, serio e decisamente fermo, “Non è che sarebbe andata diversamente, se ci fosse stato Idaho. Ci siamo fatti male tante altre volte con lui o senza di lui. Abbiamo dovuto reinventarci i numeri per stare dietro a tutte le esigenze. Perché ti colpevolizzi così?” era una domanda lecita, Charlotte aprì la bocca sperando di poter ribattere ma non uscì una sillaba. La verità era che non aveva un motivo per addossarsi quel peso, ma era il modo più comodo che aveva per affrontare la cosa. Era stupido, ridicolo, un segno di vittimismo, ma forse perché era talmente abituata ad avere il trattamento peggiore e uscirne non era così semplice.

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