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27

Minù

Minù era nata in una zona di compagna. Molti bambini le dicevano che profumava di latte di capra e che, anche se gli anni passarono, non aveva mai perso. Non aveva mai conosciuto i suoi genitori, morti poco dopo per colpa di un virus che aveva fatto il giro delle fattorie circostanti, e gli zii non avevano mai dimostrato un grande interesse per la nipote, rifiutando di prenderla in affidamento. Non era mai stato strano il pessimo rapporto che i membri della famiglia della piccola avessero tra loro, tanto da non avere mai dato disponibilità tra loro per un aiuto economico. Le strade diverse avevano inaridito ulteriormente quei fili conduttori di sangue, tanto che alla prima occasione, il lato di Minù era stato debellato totalmente.

Per lei un pasto era sempre stato un premio ambito tra tutti i piccoli orfani, spesso un solo piatto per cinque, che lei non riusciva mai ad ottenere; il fatto che Jake le avesse invece servito uno stufato caldo davanti al volto che lei non avrebbe dovuto difendere con le sue forze fu una cosa che la destabilizzò totalmente. Non si sarebbe mai aspettata di ritrovarsi in una stanza calda circondata da ragazzi poco più grandi di lei. Era per lo più abituata ai grandi lavoratori che non avevano mai perso un giorno senza vessarla e schernirla in tutti i modi, solo per il fatto che era una dei bambini più mingherlini, tante volte si era ritrovata senza coperte durante l'inverno o senza acqua per lavarsi.

“Ti è piaciuto lo stufato?” chiese una ragazzina con i capelli castani, molto simile al ragazzino che le aveva offerto il piatto.

La piccola annuì lentamente, con fare diffidente.

“Forse dovremmo lasciarla respirare un momento, sembra molto turbata per via del risveglio un po' confuso” disse una ragazza dai capelli biondi e ben legati, massaggiando il suo piccolo polso con fare rassicurante. Le piaceva, aveva uno sguardo del tutto diverso dalle altre persone che aveva conosciuto in soli otto anni della sua vita: uno sguardo dolce e morbido, con un sorriso rassicurante, quasi comprensivo.

“Forse dovremmo andare da chi di dovere e dare una bella ripassata ai suoi metodi poco ortodossi!” mugugnò un omone grande e grosso dai capelli rossi. Lui le faceva paura, aveva uno sguardo crudo, pronto a sgridare tutti, un vocione rauco che non le ispirava fiducia; eppure tutti intorno non sembravano esserne affatto turbati.

I due che la attiravano di più erano il ragazzo biondo con la giacca rossa e la ragazza dai capelli mori e il vestito bianco, che le aveva aperto la porta poco prima che svenisse e l'aveva portata di sopra. Avevano degli occhi allegri e ben disposti, parevano curiosi di sapere di lei.

Poi una donna e un bambino poco più piccolo di lei, che erano rimasti in silenzio e la osservavano con fare amichevole. Quel gruppo era particolare, non si sarebbe mai aspettata di trovare quel tipo di gente nell'ultimo appartamento che era stato preso in affitto.

“Come ti chiami piccola?”

“… Minù”.

Quel beau nom, il a une belle sonorité! Mi piacerebbe sapere chi ti ha dato un nome così bello”.

“Io… non me lo ricordo” non le aveva mai chiesto nessuno da dove venisse il suo nome, addirittura qualcuno aveva osato definirlo di pessimo gusto e per nulla aggraziato; quella compagnia vestita con abiti variopinti sembrava uscita da uno di quei libri illustrati che aveva visto un paio di volte nelle vetrine che costeggiava quando le toccava vendere le scarpe e le calze. Le piacevano però: avevano un modo del tutto diverso di approcciarsi con lei, non era come quei mobili che la ignoravano, nel migliore dei casi. Ma ora che li guardava bene, riprendendosi del tutto, li aveva già visti: erano la compagnia circense che si era esibita pochi giorni fa al parco. Ne aveva sentito parlare in fabbrica, quando il proprietario si era fatto sfuggire uno dei suoi colorite sgradevoli commenti sul fatto che, a detta sua, sembrassero degli scappati di casa. Non li aveva visti bene dal primo momento, ma alla bambina invece ne era rimasta incuriosita e le sarebbe piaciuto vedere uno spettacolo.

“Non hai dei genitori che ti aspettano, piccola?”

“No, non li ho avuti per tanto tempo. E alle signore e alle famiglie che vengono per adottare, i bambini grandi non interessano affatto. Prendono sempre i più piccoli, e alle famiglie spesso interessano i maschi”.

“Una selezione odiosa, la conosco” fece Idaho sedendosi accanto alla piccola. Suo padre ne aveva visitati e operati di orfani, e quella regola non scritte l'aveva imparata talmente bene da poterla recitare a memoria. La parte più sconcertante era che non esistevano giustificazioni solide, ma solo un discorso di eredità che spesso non veniva neppure stipulato correttamente; perché nessuno alla fine avrebbe affidato il proprio patrimonio ad uno sconosciuto.

“E non è mai venuto nessuno per te? Sei così dolce e bella”.

“I conventi femminili non sono molto vicini in questa città, ma solo un monastero maschile dove vengono accolti giovani che non vanno alla leva militare. Non siano molte bambine infatti”.

Charlotte diede un rapido sguardo al giovane dai ricci dorati, era chiaro che quella piccola non avesse nessuno a cui affidarsi, nessuno che potesse prendersi cura dei suoi bisogni e soprattutto era chiaro che non esistevano cristiani che provassero un minimo di compassione per una creatura fragile. Lei sapeva bene quale dolore provocassero quelle consapevolezze, conosceva quegli sguardi indifferenti e Minù stava patendo la sua stessa sorte, solo che la sorgente era un po' diverso.

Gli fece un veloce cenno di seguirlo in corridoio, mentre tutti gli altri erano impegnati a dare attenzioni alla piccola.

“Non voglio lasciarla andare via da sola. Stava morendo di freddo e a nessuno stava preoccupando!”

“Lo so, non te le avrei mai chiesto” Idaho le prese una mano sentendola agitata. Immaginava che volesse parlargli in modo più privato e dettagliato della questione, e anche del fatto che il suo discorso avesse un finale preciso.

“Teniamola con noi. Non darà fastidio a nessuno, è così piccola e timida”.

“Charlotte, ehm...” quella richiesta, per la prima volta, il ragazzo avrebbe preferito non sentirla. Non voleva lasciare una bambina in balia della tristezza e della solitudine, non lo avrebbe mai fatto; ma tenere un'altra persona nella compagnia circense... non avevano posto per accoglierla, non avevano vestiti da darle né un letto per dormire. Non voleva risultare cattivo, ma quella richiesta purtroppo non era fattibile. Ed era perfettamente conscio del fatto che rifiutando avrebbe creato nella ragazza dei pensieri confusi: lui che era sempre visto come un soccorritore dei deboli, un angelo in grado di tirarti fuori dall'inferno… sarebbe stata la seconda volta che le avrebbe impedito di aiutare qualcuno, anche se alla fattoria di quel Signore burbero era poi andata bene. Ma in quel caso era arrivata a capire. Lasciare sola una bambina invece...

“Non starai davvero pensando di riportarla alla fabbrica, spero!” sbottò incredula la ragazza, “Idaho non hai idea del male che potresti arrecarle! Ti prego non puoi abbandonarla a sé stessa!”

“Non ho intenzione di riportarla in quel postaccio, ma non puoi chiedermi di tenerla così su due piedi! Non saprei nemmeno due farla dormire, cosa farle indossare...”

“Ma non l'hai sentita? Nessuno vuole prenderla con sé, non esisteva una sola famiglia che avesse voluto adottarla! Perché ti rifiuti anche tu?”

Idaho si spostò un ciuffo biondo, emettendo un verso vagamente infastidito: “Non è un rifiuto, Charlotte. Però cerca di capire: non abbiamo gli strumenti adatti per stare dietro a una bambina”.

“Però con me lo hai fatto...”

“Ma con te era diverso, tutto quanto”.

Charlotte non se ne capacitava, si sentiva fraintesa e delusa, si sentiva ignorata e avvertiva una forte barriera di riluttanza da parte del ragazzo. Ma perché faceva così? Perché rifiutare di dare un alloggio sicuro a Minù? Iniziava a sentire le lacrime, di rabbia e tristezza, porgerle gli occhi chiari. Che fastidio poteva dare una bambina? Non occupava neppure molto spazio, si sarebbe comportata bene, perché Idaho non ne voleva sapere?

“Charlotte…”

“Tu non hai idea di cosa voglia dire vedere quegli sguardi crudeli…” la sua voce si stava rompendo pian piano, sentendo sempre di più quella barriera schiacciarla, “Non hai idea di cosa tu possa provare a vedere quelle persone che ti passano davanti ignorandoti, se tutto va bene, altrimenti riempiendoti di parole crudeli!”

“Charlotte, per favore…”

“Non puoi capire cosa voglia dire vivere con una persona che di te se ne interessa così poco da non percepire nemmeno la differenza da una tua assenza piuttosto che una tua presenza… Dio santo Idaho quell'uomo l'ha fatta uscire per farla morire di fame, freddo e stenti! Quel mostro di Grave voleva mandarmi in pasto ai cani randagi alla prima occasione!”

Idaho cercò di prenderle le spalle, capendo che la situazione stava iniziando a sfuggire di mano: “Dai, basta…”

“Davvero come puoi essere tanto insensibile?!” lei fece per prendergli la giacca rossa e strattonarla, ma quella frase toccò un punto troppo dolente nell'animo del giovane dai ricci dorati. Era un frase anche troppo cattiva per lei, che in un momento di rabbia non si era resa effettivamente conto del significato che le aveva appena attribuito.

“No!” sbottò Idaho afferrandola e immobilizzandola, nei suoi occhi un chiaro lampo ferito, “Questo non te lo permetto! Non mi puoi proprio dare dell'insensibile!”

Rimasero fermi per qualche secondo, in silenzio e ognuno nella propria zona franca. Charlotte aveva capito di aver esagerato, lo poteva vedere dallo sguardo di Idaho che teneva una rabbia innocente addosso, lo aveva ferito in modo troppo violento e solo per una richiesta che lui non si sentiva di esaudire. Aveva preteso troppo in un momento solo.

“Se fossi stato un insensibile, ti avrei tirato fuori da quella gabbia, accolto con noi e fatto in modo che tu ti ambientassi? Ti avrei permesso di toglierti dei vizi, di pensare al tuo amor proprio?” lasciò lentamente le spalle della ragazza, allentando la presa ma tenendola comunque salda, “Lo sai molto bene che non avrei fatto niente di tutto questo, se fossi stato un insensibile. Mi sono sempre preso la responsabilità di aiutarvi tutti, di provvedere ai vostri bisogni, di seguirvi come persone e non come oggetti! Non mi puoi proprio definire in quel modo e non puoi prenderti questa libertà solo perché non me la sento! Ti ho detto che non l'avrei mai riportata in quel posto, perché so la fine che farebbe, conosco il trattamento che le riserverebbero! Troverò un posto per lei, una famiglia che le voglia bene, se non qui in un altro paese, stato, continente… ma NON PUOI CHIEDERMI una cosa di cui non posso fare fronte, Charlotte! Io non faccio miracoli, mi dispiace!”

Non voleva essere così dura, ma lo aveva davvero ferito. Aveva usato una parola che lei per prima sapeva non gli si addicesse affatto. E aveva ragione: Idaho aveva preso con sé tutti loro per dargli una seconda possibilità e adesso lei era solo capace di chiedere, chiedere e al primo no trattarlo come una brutta persona. Non se lo meritava per niente, non dopo tutto quel tempo che le aveva dedicato.

“Mi dispiace…” disse con un filo di voce, lasciando la giacca del ragazzo e abbassando la testa.

“Non la abbandonerò, te l'ho detto. Però non puoi chiedermi così tanto”.

“Ma almeno… fintanto che non ha un posto dove stare… può stare nel mio letto, dormo io sul divano! Provvedo io ai suoi sogni, tu non devi fare niente!” lo guardò di nuovo negli occhi, ma così che lui potesse vedere il suo sincero dispiacere per aver ferito i suoi sentimenti e per avergli rovinato una serata così bella, “… te lo prometto”.

“… troveremo un modo, se possiamo”.

“… grazie”.

Belle diede un rapido sguardo al corridoio. I due erano scomparsi dal campo visivo e non aveva nessuna idea su cosa stessero facendo. Aveva intuito stessero parlando della sorte della bambina, ma era sicura al cento per cento che Idaho non l'avrebbe lasciata da sola a patire. Certo: forse non poteva restare con loro, ma le avrebbe trovato di sicuro un posticino più dignitoso. Magari avrebbe potuto prendersene cura lei, aveva sempre desiderato una sorellina.

“Non fa niente, davvero” disse Minù senza alzare lo sguardo, “So che non potete farmi restare. Va bene così”.

“Per il momento non andrai via” la voce di Idaho fece voltare tutti verso di lui, “Con questo freddo tu non vai da nessuna parte. Ma soprattutto non tornerai in quella fabbrica”.

Charlotte si avvicinò alla piccola, le diede una carezza sul visino sorridendole rassicurante. Avrebbe pensato lei al suo bisogno, come promesso. Era decisa a non far pesare niente al ragazzo, a caricarsi di tutto quello che ne sarebbe seguito. Si sentiva in colpa per il trattamento di prima, e sentiva ancora che lui fosse arrabbiato.

La serata comunque passò tranquillamente, l'atmosfera si alleggerì e l'arrivo della piccola diede modo ai ragazzi di avere più spunti per la festa. Tra una risata e l'altra le ore passarono velocemente, e tutti decisero di coricarsi nelle proprie stanze. Solo il ragazzo dai ricci dorati rimase ancora alzato: si era offerto di sistemare l'appartamento per una volta.

Logan apparì dalla porta della cucina: “Non sai proprio dirle di no, vero?”

“Tu che avresti fatto al mio posto?” disse lui asciugando l'ultimo piatto, aveva appoggiato la giacca rossa su una sedia e si era arrotolato le maniche della camicia bianca per non bagnarle.

“Devo riconoscere che, per non aver mai avuto grandi rapporti con le persone, sa molto bene come abbindolarti” Logan ridacchiò appoggiandosi al bancone vicino al lavandino.

Idaho lo imitò, eseguendo un movimento storto della bocca per riflettere: “… però ha ragione. Non potrà mai vivere in quelle condizioni, e non possiamo lasciarla da sola”.

“Indubbiamente” il grande uomo muscoloso mise a posto i piatti puliti, “Però… in questo caso devo farti un appunto”.

“Cioé?”

“Non permetterle di prendersi certe libertà. Queste cose si devono decidere tutti insieme. Deve imparare che esistono dei ruoli qui”.

Idaho non disse niente, ma capiva l'ammonizione del suo amico. Per tutto quel tempo gliele aveva passate tutte sapendo quello che aveva passato, ma come per i bambini, un no non l'avrebbe ammazzata. Charlotte doveva anche capire che se una cosa non era fattibile non si faceva, punto. Era vero: non era capace di dire di no a lei, ogni volta che lo guardava con quegli occhi, lo destabilizzava totalmente.

“Non lo sto dicendo per fare un torto a lei, sia chiaro” continuò Logan, “É solo che… tu ti sei preso molte responsabilità nei nostri confronti, anche troppe. Hai sempre provveduto a darci da mangiare, da bere, farci dormire in un letto caldo… non ti devi sentire in colpa se per una volta non te la senti. Sei umano, Idaho”.

Idaho percorse il corridoio poco dopo il suo compagno, per raggiungere la sua stanza. Passando incrociò la porta della camera di Charlotte, vedendola coccolare la bambina ormai addormentata. Quella visione lo addolcì tanto, aveva una delicatezza innata, come se riuscisse a capire subito se un soggetto fosse fragile o meno. Gli dispiaceva trattare quella piccola come un oggetto da dare via, ma non poteva fare altrimenti, non questa volta.

“Idaho…” la voce della ragazza lo bloccò, mentre stava continuando il suo percorso, “Io… volevo davvero chiederti scusa, per prima. Mi sono proprio posta male, e non mi dovevo permettere. Io non penso che tu sia un insensibile, hai fatto così tanto per me e per gli altri…” nel suo volto e nella sua voce, un sincero dispiacere e una delusione verso sé stessa. Idaho però le sorrise, allargò le braccia per invitarla in un abbraccio dolce e senza rancore.

“Vedrai che troveremo una vita felice anche per lei, Usignolo”.

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