CAPITOLO 2
CASSIOPEA
Il mio riflesso è disgregato.
Mi osservo allo specchio del bagno e vedo il niente, il nulla più assoluto.
Tremo, tremo talmente tanto che all'improvviso vedo tutto sfocato.
Mi appoggio al lavandino per non cadere.
Non posso svenire, non oggi.
Mi osservo i polsi, le braccia piene ti tagli, ormai è diventato un rituale giornaliero, qualcosa di cui non riesco a fare a meno. Sento un mostro che mi tiene in gabbia. Non voglio mangiare, voglio solo sparire.
Dopo averlo fatto per l'ennesima volta, prendo con le mani tremanti il taglierino e lo infilo nella tasca dei pantaloni
Mi copro le braccia con le manche del maglione nero.
Prendo la matita per gli occhi e ne ricalco pesantemente il controllo e poi mi dipingo le labbra con un rossetto rosso fuoco come se niente fosse
Non è successo niente.
Non succederà mai niente.
Le braccia bruciano ma ormai non ci faccio più caso, non faccio più caso a nulla,
Sono ancora una bambina, una ragazza di sedici anni.
Non ho più lacrime da versare, non le ho mai sapute versare.
Scendo di corsa le scale per non farmi vedere da mamma, una donna premurosa, fin troppo attenta. Il papà non ce l'ho, non so dove sia e neanche voglio saperlo.
«Tesoro, non fai colazione?»
Mia madre si affaccia dalla porta della cucina.
«No, mamma.»
«Ma devi pur mangiare qualcosa!»
«Non ne ho voglia.» Affermo mentre apro la porta di casa. Me ne vado così ogni mattina, non saluto mai nessuno.
Con passo svelto mi dirigo verso l'autobus.
Mi siedi su una panchina e attendo non so neanche io cosa aspetto, forse nulla, forse tutto.
Il mio sguardo è fisso sulla strada, il rombare delle auto mi irrita.
Quando alzo gli occhi trovo accanto a me Alex Yoshida, un tipo taciturno della quinta B. Mi osserva e, dannazione, il suo sguardo mi irrita. Mi stringo le braccia al petto, mi sento colpevole, dannatamente colpevole.
Così mi alzo e mi allontano da lui.
Cammino trascinando i piedi come se fossero massi di marmo, come se si appiccicassero all'asfalto.
Mi viene da piangere. Piango non curante della matita sugli occhi. Piango e mi accorgo che la gente mi osserva, la gente sa, la gente spia.
Ho paura , paura delle persone, paura di me stessa. La verità è che non voglio morire. Voglio solo naufragare per poi risalire.
Ci impiego un quarto d'ora per arrivare a scuola. Sono sudata, le maniche del maglione sono appiccicate di sangue.
Tutto brucia, sanguina e fa dannatamente male.
Non arrivo in aula, faccio tappa in bagno. Mi chiudo dentro e comincio ad ansimare, mi manca l'aria, mi manca l'aria, mi manca tutto.
Il mostro mi tiene in gabbia.
Così, ancora, scoppio a piangere. Ế dura nascondere la propria sofferenza.
Sto scoppiando.
Sto morendo e io non voglio morire, In cambio non chiedo niente solo un sorriso.
Così prendo a pugni la porta del bagno, i pugni sono forti ma non abbastanza .
Picchio la porta con i calci.
Fino a quando sento qualcuno entrare, sento l'acqua scorrere dal lavandino.
Forse devo farmi vedere, forse ho solo bisogno di attenzioni.
Mi tappo le orecchie e urlo. Urlo la mia sofferenza, urlo la mia verità.
«Ma che diavolo...» Sento qualcuno parlare mentre io urlo.
«Va a chiamare qualcuno, Anna!»
«Ma che succede?»«
«Che ne so, non la senti la ragazza urlare?»
Urlo ancora, sempre più forte fino a quando qualcuno scardina la porta del bagno in cui mi sono chiusa.
La bidella mi afferra per le braccia e mi scuote.
«Si può sapere che diavolo succede?»
Mi scuote talmente tanto le maniche del maglione che si sollevano. Si vede tutto.
«Oh signore....» Leggo nei suoi occhi lo spavento.
«Che diavolo ti sei fatta? Per la miseria!»
Scuoto la testa, non lo so nemmeno io, forse non lo saprò mai.
«Ti porto in infermeria.»
«No, ti prego...» Affermo in preda alle lacrime.
Non voglio che si sappia, non voglio che la gente sappia. Non voglio che lo sappia mamma.
«Mi tocca farlo, cara, non posso lasciarti così....»
Mi prende sottobraccio e mi conduce dall'infermiera che mi guarda perplessa mentre mi medica le ferite e mi fascia le braccia.
«Non farlo mai più, intesi?»
Fosse così facile, fosse davvero facile uscire da questo limbo maledetto.
«Ci proverò.»
Sussurro più rivolta a me stessa che all'infermiera che mi fa alzare dal lettino.
«Seguimi.» mai dice sorridendo.
«Dove andiamo?» Domando confusa.
Ho paura di ciò che può succedere, del susseguirsi degli eventi, dello scorrere del tempo.
«Ti accompagno dalla dottoressa Ferrari.»
L'infermiera non smette di sorridere e mi chiedo cosa ci sia di così divertente.
«La psicologa?»
«Certo cara.»
«No.» Mi blocco all'improvviso. Non posso andarci dalla psicologa, non posso permettermelo.
Non posso per me, non posso per mamma che ne morirebbe.
«Cass....»
Come sa del mio nome? Scuoto la testa e mi metto nuovamente a piangere.
«Ce la puoi fare, dolcezza, devi solo volerlo.»
Il problema è che non so se lo voglio davvero. Così l'infermiera mi prende per mano e ci dirigiamo verso la sala d'aspetto.
L' mi blocco ancora, su una sedia vedo Alex Yoshida.I nostri sguardi si incontrano. Ci guardiamo fino a quando la dottoressa Ferrari apre la porta del suo studio ed esclama trionfante :
«Entrate ragazzi miei!»
Io e Alex ci scambiamo un altro sguardo.
Cosa ci facciamo io e Alex assieme?
«Non fate i timidi!»
Esclama Clara Ferrari, si avvicina a noi, ci prende a braccetto e ci conduce dentro il suo studio.
Non ho idea di cosa stia succedendo.
Alae braccia bruciano.
Il cuore trema.
L'anima duole.
Forse qualcosa dentro di me cambierà.
Qualcosa di intimo.
Qualcosa di profondo.
Fino a scomparire.
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