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CAPITOLO 1

ALEX

Ế mattina presto. La luce penetra dalle tapparelle e irradia camera mia.

«Sono solo, solo.... Solo.» Sussurro. Mi dico sempre così ogni volta che mi sveglio.

Ế una frase ad effetto, parole al vento.

Vorrei soffrire da solo, da solo, poi il tempo passa e io mi fossilizzo su questo letto che ormai ha preso la mia forma.

Non ho più speranze né passioni. Ogni giorni, ogni santissimo giorno inizia così e finisce così.

Chiudo gli occhi sperando di addormentarmi ma tutto finisce in sospiri e lacrime.

La verità è che sono davvero solo Ho i miei genitori, ma è come se non li avessi, sono presenze che vagano per casa, probabilmente non si amano più.

Probabilmente si detestano e detestano anche me, il frutto di un amore passato, ora non sono altro che l'odio concentrato nei loro cuori.

Stringo tra le mani il lenzuolo e penso che fa maledettamente male doversi alzare e cominciare una nuova giornata a scuola. In quella scuola.

Ho diciotto anni ma dentro di me dimostro una vecchiaia inaudita.

Attorno a me sento solo il silenzio, il devastante silenzio che ogni volta che mi sveglio mi assale.

Non o più amore, non ho mai provato amore.

Guardo la mia chitarra, la mia unica salvezza.

«Dovrei suonarla più spesso. Dovrei amarti mia adorata chitarra. Ma la verità è che non ho mai amato e mai amerò.»

Ế una litania la mia, un continuo susseguirsi di pensieri. Le voci nella mia testa mi tormentano

Vorrei scappare da questa casa, vorrei fuggire nel posto più isolato della Terra e pensare a ricostruire e rinsaldare il mio essere.

Ma sono bloccato qui, nel posto dove mi sono annullato. Vago senza ritorno.

Vivo costantemente bloccato in un limbo dal quale non riesco ad uscire.

Ế dura andare avanti quando tutto crolla.

Ế dura essere ciò che sono. Perché semplicemente non sono nessuno, se non soffro non sono nessuno.

E vago nell'aria senza aspettative, rinunciando a tutto, a me stesso, alla vita.

«Alex, svegliati Ế ora di andare a scuola!» Urla mia madre.

La sua voce è acuta, assordante. Ế una donna cinica.

Mio padre invece è giapponese , è stato il loro un amore folle e intenso che si è bruciato subito.

Così la mia famiglia si disgregata e io sto andando sempre più a fondo.

«Alessandro mi hai sentito?»

Mi alzo dal letto, ma mi ci risiedo subito.

Sono stanco mi mancano le forze. Mi aggrappo al davanzale della finestra e spio il mondo circostante. Scruto Milano che, alle sette del mattino, è già caotica. Odio il caos e questa città che non mi è mai appartenuta.

«Alex!» Cazzo, non sopporto più la sua voce , il suo stridere.

Così mi lavo, mi vesto velocemente, meccanicamente. Non mi appartiene più questa vita e io sto morendo, sto lentamente scomparendo.

Scendo le scale e guardo negli occhi mia madre. I suoi occhi glaciali che mi hanno sempre spaventato, ora mi creano angoscia, un'ansia che non sono in grado di descrivere.

Mio padre è già al lavoro e probabilmente non lo vedrò nemmeno a cena.. Non lo vedo quasi mai e un po' mi ferisce ma ormai mi ferisce tutto.

Apro la porta di casa e, come un automa, mi dirigo verso la fermata del bus.

Scendo alla mia fermata.

Cammino, cammino e mi sento sempre più stanco. Le gambe cedono, il cuore esplode.

Stringo i pugni e mi dico che dovrei scappare.

Ma dove? Perché? Non ha senso tutto questo dolore incontrollato, incontrollabile.

Mi siedi su una panchina, accanto a me c'è una ragazzina vestita completamente di nero, nel sugli occhi, neo nel cuore.

I suoi capelli sono rosso fuoco, lunghi e mossi. La conosco di vista, ma non l'ho mai vista parlare con qualcuno. Io che sono sempre stato distante dai miei compagni, la osservo e la trovo interessante.

Forse abbiamo molte cose in comune, forse nessuna.

Non le tolgo gli occhi di dosso, lei si accorge del mio sguardo insistete. Si alza dalla panchina e si allontana da me in silenzio.

Sorrido, va sempre a finire così.

Mi porto le mani sul volto stanco .

Sono stufo, stufo dei giorni che se ne vanno e io rimango sempre uguale, niente migliora, niente peggiora.

Il mio cuore batte ma la mia anima muore lentamente.

Non ha senso questa vita, non smetterò mai di ripeterlo.

Mi dedico alla scuola, alla musica che tanto sento dentro di me ma che non basta. C'è sempre una parte di meche muore, che se ne va lasciandomi in balia di me stesso.

Intanto la scuola si anima di studenti.

Inizio a provare una fastidiosa angoscia. Odio le risate dei miei coetanei, il loro modo di fare.

Probabilmente sono invidioso.

Sono invidioso dei loro sorrisi, delle loro lacrime versate per amore, del loro flirtare, del loro accalcarsi.

La ragazza misteriosa è scomparsa e io mi sento vuoto, mi sento niente.

Così indosso gli auricolari ma non ascolto nulla, la mia è solo una tattica per tenere lontana la gente.

La scuola si anima, ma io velocemente mi dirigo in classe.

Non c'è ancora nessuno. Mi siedo al mio posto, l'unico banco singolo, quello accanto alla finestra.

Mi sbarazzo degli auricolari e per un attimo osservo il paesaggio.

La gente vive , si muove, fa rumore, io invece annego nel mio silenzio.

E all'improvviso una strana sensazione mi colpisce. Un sonno profondo mi attende , sono stanco, affaticato dalla vita nonostante non faccia nulla per uscire da questa situazione di stallo.

Così appoggio la testa sul banco e mi addormento. Forse sogno.

Sogno di evadere, di liberar armi dalla mia stessa prigione .

Queste mura, casa mia sono la mia malattia.

Mi sveglio appena in tempo. La campanella suona.

I miei compagni si siedono trascinando le sedie. Parlano, hanno tante cose da dirsi.

Il professore di latino, un signore alto e magro, è eccitato e dallo sguardo sereno.

Dannazione! Mi sono dimenticato della verifica!Non ho studiato nulla, ma poco mi importa.

L'insegnante passa banco per banco e consegna la versione che dobbiamo tradurre in un'ora. Prenderò sicuramente un brutto voto ma non so se mi debba interessare. Mentre gli altri ragazzi lavorano in silenzio, io scarabocchio la scheda, riempiendola di frasi e di disegni.

Oggi la mia testa va per conto suo, finché qualcosa in me scatta,rabbia repressa, insoddisfazione, terrore della vita.

Mi alzo di scatto, appallottolo la scheda e la lancio addosso al professor Vitti.

Mi guarda stupito, poi rabbioso.

«Che diamine hai intenzione di fare Yoshida!»

Non mi muovo, rimango fermo e mi sento addosso gli occhi dei miei compagni.

Poi guardo lì insegnante, ci sfidiamo con lo sguardo.

«Andatevene tutti a fare in culo. Compreso lei!» Dico indicando il professore.

Prendo il mio zaino e esco dall'aula come se niente fosse successo.

Mi dirigo verso l'uscita della scuola, quando sento qualcuno afferrarmi per un braccio. Vitti mi strattona, mi conduce verso la segreteria, la attraversiamo velocemente e poi ci fermiamo di fronte allo studio della dottoressa Ferrari, la psicologa della scuola.

«Sei sospeso, Yoshida!» Vitti mi continua a guardare sperando di spaventarmi, ma la verità è che ormai niente mi spaventa, neanche il naufragare della mia stessa esistenza

«Mi sospenda pure, me ne frego.»

«Fregatene puree, ma sappi che non tornerai nella mia aula se prima non parli con la dottoressa Ferrari.

«Una strizzacervelli?» Mi vuole davvero mandare da una psicologa?!

«Crediamo tutti che tu ne abbia bisogno.»

«Tutti chi?» Domando scettico.

«Anche i tuoi genitori.»

«Ha parlato con loro?»

«Ebbene sì, caro Yoshida. Attendi qui l'arrivo della dottoressa e mi raccomando non dare i numeri.

Vitti se ne va , lasciandomi sbigottito e solo, sempre solo.

Mi siedi in sala d'attesa.

Potrei andarmene, mandare tutti al diavolo, ma qualcosa mi trattiene qui su questa sedia.

Quando alzo lo sguardo non credo ai miei occhi. La ragazza dark della panchina mi osserva, ma questa volta non se ne va. Si siede accanto a me.

Rimaniamo in silenzio.

Lei gioca con il cellulare, poi lo ritira e comincia a fissare il vuoto.

Ed è così che mi rendo conto di non essere più solo.

Non lo sono mai stato.

Sono immerso nei miei pensieri, quando all'improvviso. La dottoressa Ferrari apre la porta. Ế una donna bassa a magra ma molto elegante e dal temperamento allegro.

«Entrate ragazzi miei!»

Entrate? Io e la ragazza?

Presumo che proviamo le medesime emozioni perché facciamo qualche passo indietro.

«Oh su non fate i timidi!» La Ferrari ci prende a braccetto e ci conduce nello studio.

Il mio cuore trema.

No dalla strizzacervelli no!

Ma mi lascio trascinare.

Questa è la mia vita.

La mia stupida insignificante esistenza.


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