Un giorno nuovo
Riconoscevo il vuoto profondo delle mie oscurità ed ogni sfaccettatura delle mie perversioni. Col tempo avevo imparato a conviverci, ero cresciuto con loro, nascondendole per coccolarle di nascosto, con maggior calma, con più attenzione.
Anche il Grillo conosceva queste mie perversioni, non le disapprovava ma sapevo bene che se le incentivava era solo per un proprio tornaconto personale. Era per avere un corpo, per smettere di essere solo una voce che sussurra alle cellule del cervello, per essere un essere vivo e vivente, come lo ero io.
Tuttavia stavolta fremeva, si agitava, scalpitava per andare via, per lasciare quella bidonville e le macchine che lo abitavano ed ero io a zittirlo, a calmarlo, a raccontargli che saremmo passati comunque al cambio della guardia, che c'era tempo.
Intanto le mie mani frugavano ancora quel corpo di latta, quelle forme sinuose e perfette, fredde e eterne.
- Sei così bella e perfetta, non capisco perché noi che vi abbiamo concepito ora vi odiamo così tanto - dissi, quasi sovrappensiero.
- È stato l'errore, a concepirci, non voi né nessun Dio – sussurrò, allungando le mani verso il mio volto.
- L'errore? - domandai. - A me non sembri un errore, mi sembri perfetta come nessun'altra cosa al mondo.
- E a me sembri perfetto tu - rispose lei, accarezzandomi il volto. - Con il tuo sangue, il tuo calore, la tua fragilità, questa barba che cresce da sola, questa pelle...
La baciai e sentii il vuoto insipido della sua bocca, quel sapore metallico e malinconico che mi affascinava. Le sfioravo il seno con le dita. Non c'era nessun cuore in quel sarcofago e non ci sarebbe stato nessun fremito, tra le sue gambe, ai miei baci. Ma la baciai comunque, in ogni dove, scoprendo il corpo di quel modello un frammento alla volta.
La baciai sulle labbra, sopraffacendola, accompagnando il suo corpo alla mia eccitazione.
Lei me lo concesse, piegandosi al mio volere, mettendo da parte ogni sua forza meccanica, assecondando i miei movimenti con il suo corpo freddo, perfetto.
- Servimi - le sussurrai.
- Usami come meglio desideri – rispose. - Posso essere tutto, ogni tua maggiore perversione, sono nata per te, per essere la tua schiava.
Avrei voluto amarla e di fatto la amavo, amavo come mi aveva sottomesso solo pochi minuti prima così come amavo quel momento in cui ero io, a sottometterla.
Mi scagliai violentemente dentro di lei, tentando di portare la vita in quello che vita non era, cercando di trovare un'anima tra le parabole elettriche dei suoi circuiti.
Lei simulò ogni cosa perfettamente, reagendo con dolore e piacere ad ogni spinta. Digrignavo i denti, le stringevo i freddi seni tra le mani. Rimasi incantato dalla perfezione della sua gola, dal bagliore lucido delle sue ossa e dal lento vibrare del suo motore.
- Sei perfetta - dissi.
- Sono come tu mi vuoi, donna o macchina, padrona o schiava, viva o morta. Che differenza fa, in fondo?
Nell'impeto della passione la sollevai per la schiena, portandomela di fronte.
- Nessuna - dissi, affondando le labbra nel suo collo aperto, cercando con la lingua il freddo del metallo, il vibrare elettrico del suo corpo. Lei dimostrò piacere anche in quel caso, sibilando malamente, esalando solo aria calda.
Era un orgasmo, il suo, artefatto per accompagnarmi, assecondando sempre di più il mio piacere.
- Dimmi, come sono stata, vivente? Ti ho dato il piacere che cercavi? - mi domandò.
Le scostai i capelli sintetici. C'era qualcosa di dolce, in quella perversione, qualcosa di assoluto e perfetto. La baciai su una guancia, abbracciandola per cercare ancora un po' del calore del suo orgasmo. Ma era fredda, oramai.
Guardai il cielo schiarirsi e le stelle scomparire tra le tegole scostate del soffitto della casupola. La Pista taceva, come se tutto ci avesse lasciati soli.
- Si, sei stata perfetta – sussurrai, senza accorgermi di aver parlato.
- È stato uno dei miei utilizzi... - rispose. - Ed ora ne ho un altro – continuò, mettendosi a sedere. - Devo andare agli scavi.
La guardai in silenzio, illuminata dalla luce spettrale del mattino. I vetri rotti creavano costellazioni di riflessi alle sue spalle ed il suo corpo statuario, perfetto, delineava i suoi contorni nello sfondo di squallore, nella profonda desolazione che accomuna me con quella stanza.
- Ci rivedremo? - attesi che mi guardasse.
- Lo spero – rispose, allungandomi una carezza. - Mi piacciono i viventi.
Mi allungai verso le sue labbra gelide, verso quel sapore metallico di paradiso. La desiderai di nuovo ma lei si sottrasse.
- Non ho più tempo – mi sussurrò, come se fosse triste.
"Addio"sembrò dirmi. Ma non potevo capire. Una macchina non prova, simula, ma non vive.
La lasciai andar via, senza domandarle se era lei ad avermi servito o ero io ad aver servito lei. Mi lasciai cadere sul materasso sporco completamente sfatto, il corpo rovente, sudato. La testa mi si svuotava di ogni pensiero, come sotto l'influsso di una potente droga, ed il mio corpo si decomponeva in un sonno buio.
Sul comodino c'era una vecchia borsetta polverosa. Incuriosito allungai la mano, la afferrai e mi misi a sedere tentando di allontanare il sonno scuotendo la testa.
La piccola borsa conteneva pochi oggetti di nessun valore, immondizia, per lo più. Un vecchio portafoglio vuoto, scatole di cosmetici, un telefono senza più batteria, un'agendina indecifrabile vecchia di secoli ed una serie di strani documenti. "Passaporto", lessi. Sembrava molto antico. Conteneva un nome ed una foto, una data di nascita ed una nazionalità, poi decine di timbri di differenti paesi. Lo studiai con attenzione, leggendo ogni nome, facendo tesoro di ogni simbolo, infine rimisi tutto al suo posto e mi rivestii con calma domandandomi, in silenzio, cosa fosse una nazione mentre il Grillo, dal canto suo, non riusciva a smettere di riflettere sulle sottili differenze tra i capelli del modello e quelli della donna in foto.
Mi lasciai alle spalle la bidonville alle prime luci dell'alba, gli ultimi di Loro tornava dalla Pista diretti agli scavi con passo fermo e regolare.
Visti alla luce di quel primo mattino notai che molti di loro erano mancanti di piedi, mani, a volte persino un braccio, una gamba o addirittura l'intera copertura di testa, schiena o petto. Come erano diversi, lontani dalle luci della notte, visti senza il filtro della mia eccitazione.
Erano creature in esaurimento, vittime di un mondo in declino, di un deserto che avanza, che seppellisce e polverizza tutto. Erano Dei, Dei malinconici che si allontanavano all'alba, divinità di un tempo perso, scomparso, estinto come si estingue tutto sotto questo cielo e questo sole che consuma ogni cosa, perfino le ossa, lasciando spazio solo a chilometri di polvere bruciata.
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