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Ritorno alla Pista

Non riuscii mai a capire se, quel mattino, Obasi mi avesse mentito o avesse parlato sul serio, se veramente le sue investigazioni si erano arenate con la morte di Aminata oppure si trattasse di un altro dei suoi stupidi giochetti mentali, fatto sta che, tornato dal turno del pomeriggio, non trovai più nessun piantonatore a tenere d'occhio la mia casa nè nessuna persona sospetta negli immediati dintorni. 
Passai almeno un'ora a guardare discretamente fuori dalle finestre, tra una faccenda domestica e l'altra, prima di convincermi che la mia sorveglianza era stata annullata, ma perché? Cosa era cambiato con la morte di Aminata? Che fossi stato semplicemente escluso dalla lista degli indagati visto che il mio piantonatore poteva confermare il mio alibi o c'era altro? 
Attesi la mezzanotte per sgattaiolare fuori dal mio appartamento e librarmi nel vuoto per raggiungere il rifugio provvisorio. 
Estrassi il cilindro dalla sua valigia ma non sentii il Grillo fremere come suo solito, aveva taciuto per due giorni e la cosa mi dava un certo senso di inquietudine. Non avevo veramente voglia di affrontarlo, non avevo voglia di scoprire nessuna verità su di lui, volevo solo che tutto tornasse come prima della morte di Malaeva. Volevo solo soddisfare i miei desideri.
Lo infilai comunque, misi gli occhiali e lo schermo al led si accese sul nero. 
- Cos'è non mi vuoi parlare? - domandai. 
"Hai dei dubbi" rispose. "Non mi piacciono".
- Tutti li avrebbero. Come facevi a sapere dell'esplosivo?
"L'ho intuito"
- Intuito da cosa?
"è importante?" domandò. 
- Sì, lo è. 
Il Grillo rimase in silenzio per qualche decina di secondi. 
"Andiamo alla Pista" disse. 
- Stai cercando di distrarmi? 
"No, andiamo e basta".

Come avevo immaginato, l'appartamento del mio piantonatore era vuoto, pulito e ordinato. Gli agenti del governo dovevano aver risistemato tutto con la massima attenzione dato che non mi rimase neppure un mezzo indizio. Decisi quindi di accontentare il Grillo, o meglio finsi di dimenticare le nostre questioni in sospeso per inseguire la febbre del mio desiderio. Non avevo voglia di affrontare discorsi seri, magari complicati. Ero stanco, stanco di essere messo sotto indagine, stanco di avere degli occhi puntati sulla mia vita. 
Volevo tornare alla mia solita calma, alla quiete statica della mia abitudinarietà, delle mie fantasie. 
Stavolta non diedi modo al Grillo di prendere il sopravvento, non mi immersi nel vuoto antistante, rimasi al controllo del mio corpo librandomi nell'aria nella medesima maniera che avevo visto fare a lui, eseguendo i suoi stessi movimenti, oramai impressi nella mia memoria muscolare. 
Era notte fonda e anche senza il discorso di Munillipo muoversi sui tetti era una manovra facile e discreta. Le strade del resto erano deserte e solo alcuni malinconici viaggiatori si attardavano presso i locali per poi occupare le cabine vuote degli Elobus notturni. 
Arrivato all'altezza delle Torri stavolta sfruttai i nuovi guanti per superarle ed atterrare nella fredda sabbia oltre i confini dell'insediamento. 
La Pista era là, ma non illuminata dai suoni e dalle luci della riprogrammazione, stavolta era silente, buia, addormentata, eppure anche così riuscì a farmi palpitare il cuore, a cancellare tutte le ansie e le paure dei giorni prima. 
Improvvisamente la morte di Malaeva, il presunto suicidio di Aminata, le indagini di Obasi, tutto era scomparso, divorato dalla mia eccitazione, dal batticuore dei miei bassi istinti. 
Mi diressi verso la Pista quasi correndo, in preda ad un'emozione febbrile, alla voglia bestiale di ritrovare Naftalia, di stringerla di nuovo tra le mie braccia. 

Arrivai nei pressi della bidonville trovandola quasi deserta, solo poche ombre meccaniche si muovevano tra le casupole di legno consunto e il metallo arrugginito. Passai tra di loro indisturbato, nessuno si volgeva a guardarmi, nessuno mi degnava della minima attenzione, gli ero indifferente in tutto e per tutto continuando a svolgere i loro compiti come se io non fossi lì.
Tutto era così diverso rispetto alla mia prima notte con Naftalia, tutto era così statico, così silenzioso. Mi mancavano quei corpi meccanici che si muovevano al ritmo dei boati del Faro, mi mancavano quelle luci abbaglianti che si stagliavano contro il buio cielo notturno, mi mancava quell'odore metallico di elettricità che impregnava l'aria facendola frizzare. 
Cercai di orientarmi in quel labirinto di bizzarre costruzioni regolari, tra gli incroci delle viuzze di polvere e fango, tutti così simili seppur così diversi. Mi muovevo in una griglia regolare, una pianta romana che però mi imprigionava come un labirinto e al pari di un labirinto magico la bidonville mi dava l'impressione di cambiare forma repentinamente, anche in quel momento alcuni di Loro si impegnavano a ricostruire case, a modificare facciate, a migliorare questo o quell'edificio cancellando i punti di riferimento che solo la volta scorsa mi erano sembrati così chiari. 
Ad un tratto mi ritrovai perso, immerso in quel tugurio labirintico senza più sapere quale direzione prendere o da quale ero arrivato. 
- Ci siamo persi? - domandai. - Dov'è casa di Naftalia? 
Il Grillo materializzò qualcosa ma non ebbi neppure il tempo di leggerlo che una frequenza radio mi contattò al cilindro. 
"Naftalia? Così mi chiami?"
Mi volsi, una di Loro mi guardava dal centro della polverosa strada in terra battuta con i suoi freddi occhi di piombo. Era lei?
"Non credevo che saresti tornato" continuò. "Di solito quelli come te non tornano mai, tu invece..."
"Sono venuto qui a cercarti..." dissi, attraverso il cilindro. 
"Ora mi hai trovata" rispose. 
La abbracciai stringendo quel corpo minuto eppure freddo, solido, pesante. 
- Sei una strana bambola di carne - mi disse, guardandomi negli occhi attraverso gli occhiali. 
- E tu sei uno splendido sogno artificiale.

Rotolammo sullo stesso materasso sporco dell'altra volta, avvinghiati nelle lenzuola della mia passione, nella stretta del mio amore perverso, della mia tecnomania. 
In un attimo lei era la mia padrona ed io il suo stupido bambolotto di carne, un'effige umana da stuzzicare, stimolare, torturare. Ero certo che provasse un certo piacere nel pungolare la mia carne, nell'osservare come ogni stimolo provocasse una reazione biologica nel mio corpo. Quasi rideva toccandomi tra le gambe, dove il sangue ora pompava più forte, studiando i limiti della mia sensibilità, osservando le mie espressioni vagare tra dolore e piacere, tra paradiso e dannazione. 
Mi diede piacere in tutte le maniere possibili e immaginabili, senza riserve, senza remore, agendo da macchina come una macchina, sempre più cosciente che io non cercavo il piacere umano ma un piacere diverso, più sordido, più perverso.
Poi venne il mio turno di prendere il controllo, di esercitare su di lei le mie perversioni, la mia violenta eccitazione e lei si concesse a me così come aveva fatto la volta precedente, da schiava, una serva immortale piegata al mio unico piacere. 



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