Requiem per un mondo morente
Oltre i monti dalle rocce brune mi aspettava solo un altro deserto, un altro immenso, infinito deserto fatto solo di sabbia, caligine e vento battente. Strane costruzioni con grosse pale in cima erano gli unici elementi differenti in quell'orizzonte di desolazione, loro e quella grande struttura, le cui torri erano così familiari così come familiare era la cima della cattedrale, il profilo degli alti palazzi, i ponti sospesi, la Torre Radio.
Mentre scendevo dalle montagne osservando il distante insediamento silenzioso, sospeso sulla distorsione del calore, una visione immersa in quel giallo panorama di calore, pensavo a quanto simile fosse il mio insediamento, mentre mi volgevo allontanandomi dalla Pista, quel giorno in cui la mia stessa follia, o forse la confusione, mi avevano trascinato nel deserto.
Contai i giorni, sembrava passato un mese invece erano poco meno di un paio di settimane. Chissà come avevano reagito quelli del Sindacato alla mia scomparsa? Chissà se era stato aperto un fascicolo su di me e magari lo stesso Obasi si era messo sulle mie tracce?
Sorrisi, oramai per me quelli erano pensieri lontani, preoccupazioni di un vecchio me stesso che sfuggiva alla sua natura, che si nascondeva. Qui fuori nessuno avrebbe badato a me, nessuno mi avrebbe controllato o guardato con sospetto, qui fuori potevo essere me stesso, il mostro assetato di metallo, il demone con l'aspetto d'insetto, quella fusione di entrambi che lentamente mi apprestavo a diventare. Solo il calore era il mio unico nemico, il calore e la fame. Nel fresco della notte trovavo un po' di sollievo, camminando sotto il cielo stellato, terso, in assenza di vita e rumori, anche la fame diventava meno fastidiosa ed io riuscivo a sentirmi finalmente in pace con me stesso.
Sarei morto, certo, del resto quella era la mia intenzione finale, ma prima avrei trovato il mio luogo di sepoltura in quella città spettrale, non sarei diventato compost, la mia materia non si sarebbe mescolata a quella degli altri dell'insediamento, non avrei partecipato alla loro sopravvivenza. In qualche modo era una scelta egoistica, ma una scelta egoistica che mi faceva sentire bene, del resto io non ero mai stato parte di quella società, ne ero solo un attore, un abile trasformista che si nascondeva nel proprio ruolo secondario per non mostrare se stesso, per mascherare la propria natura.
L'idea in qualche modo mi rassicurava e rassicurava anche il Grillo visto che, per la prima volta da quando avevo lasciato il Vuoto Antistante, le sue antenne riprendevano a vibrare.
Le grosse pale ruotavano nel sibilante vento del deserto, muovendosi su antichi cardini arrugginiti cigolavano, producendo acuti strilli, in un canto di dolore e disperazione che si univa allo scrosciare della sabbia diventando una sinfonia, la sinfonia dell'ultimo caos, il requiem nel quale si estingue un mondo.
Alcuni di quei giganti erano già collassati, cadaveri colossali consumati di ruggine, sbriciolati dal calore, stinti nella propria stessa cenere turbinante nel vento. Più di una volta mi fermai presso di loro, ammirandoli per tutta la loro grandezza, domandandomi quale fosse il loro scopo o la loro utilità.
Erano centinaia, forse migliaia, costruiti a perdita d'occhio, un esercito di guardiani sparpagliati attorno alle alte Torri, loro gemelle immobili, strette su palazzi dalle altezze vertiginose calati in un silenzio surreale, ben visibili anche da lontano.
Compresi cosa fossero solo quando trovai la prima centralina elettrica, circondata da quello che rimaneva di un paravento metallico, anch'esso smembrato e consumato dal tempo.
"Controllo mulini a vento" diceva il cartello, appena leggibile, appeso su una di queste cabine affiorante solo per metà dalla sabbia.
- Mulini a vento... - mormorai, gustando quella parola.
Compresi che i mulini facevano la stessa cosa che facevano i nostri motori marini, producevano energia, energia che avrebbe alimentato lo spazio entro le Torri, energia avrebbe scandito la differenza tra il giorno e la notte, che avrebbe alimentato i macchinari industriali facendo la differenza tra la vita e la morte dell'insediamento, ma se tanti erano ancora in piedi e ancora attivi a più di trecento anni di distanza, non poteva essere stato quello il motivo per cui la colonia aveva cessato di esistere.
Proseguii nel calore letale, anche se razionavo l'acqua sempre più spesso le mie labbra si attardavano, nel momento di bere, così in meno di due giorni di viaggio iniziavo a sentire i primi sintomi della disidratazione, già indebolito per la mancanza di cibo; pronto per un secondo viaggio di delirio ma stavolta senza la fortuna di trovare un altro Gin, ad accogliermi.
Chinavo la testa e proseguivo, del resto non mi importava ciò che mi sarebbe accaduto, lo scopo era arrivare, arrivare ed accasciarmi in quella città morta, lontano dai miei simili, lontano dal mostro che ero diventato, finalmente in pace con me stesso e con le perversioni che avevano sempre dominato la mia vita.
Passai per puro caso nei pressi di un altro fermo di posta, stavolta un conglomerato più integro di quello saccheggiato dal buon Gin. Erano una decina di edifici in tutto il cui legno corroso si apriva su interni desolanti, privi di qualsiasi memoria del passaggio umano, pieni solo di sabbia, polvere e fantasmi, anch'essi seccati dal calore spietato, quasi ultraterreno, che batteva quell'angolo di desolazione.
Dei vecchi abitanti di quel luogo non era rimasta nessuna traccia, nessun segno era sopravvissuto al tempo e in quelle sale in cui in passato le voci di viaggiatori, mercanti e vagabondi riecheggiavano alte ora rimaneva solo il cigolare delle pale, il frusciare del vento contro la sabbia, il requiem eterno che spirava sulla superficie.
Ripresi la marcia che era notte fonda, nel fresco della notte sentivo la testa contemporaneamente pesante e leggera, le gambe di piombo, le braccia rese a scomode escrescenze carnose, pesi ingombranti che mi sfiancava trascinarmi appresso. Camminai, immemore, fissando solo i miei piedi che calpestavano l'asfalto rigato, rischiando di inciampare più volte e inciampando altrettante, finché le prime luci del mattino non rischiararono l'orizzonte, infrangendosi sulle alte torri la cui ombra ora gravava su di me, attirando il mio sguardo con tutta la loro immensità.
- Siamo arrivati - sussurrai, piegando le labbra in un sorriso doloroso.
Il Grillo mosse debolmente le antenne, anche lui si stava accasciando, sfinito della mia stessa stanchezza ma felice.
Nella brezza fresca del mattino approcciammo le alte mura, stavolta insieme come non lo eravamo da molto tempo.
Attraversammo un punto di controllo deserto, simile in tutto e per tutto a quello che avevo attraversato ogni giorno della mia vita per dirigermi al depuratore. Era strano vedere quell'edificio di passaggio, quel punto così nevralgico che un tempo doveva essere stato affollato di guardiani annoiati, così desolatamente deserto. Allo stesso tempo fui curioso di avventurarmici all'interno per ammirare una volta tanto stanze e luoghi normalmente proibiti.
Camminammo attraverso le guardiole deserte, cercando tra i mobili consumati almeno un segno di quelle liste che i guardiani si divertivano tanto a compilare, ma ogni tipo di incartamento doveva essersi oramai trasformato in polvere, così come polvere erano diventate le vecchie divise appese negli stanzini laterali, quegli spogliatoi che un tempo dovevano aver ospitato tante voci, tanto allegro cameratismo i cui echi si erano estinti da secoli.
Cercai di recuperare un po' d'acqua dalle docce, poi dai lavandini, tentai persino dai water, nulla, le tubature sembravano essere completamente prosciugate.
Tornai sui miei passi, in parte deluso dall'ordinarietà di ciò che avevo trovato, quando notai una scalinata che scendeva verso il basso, era la stessa che avevo visto più volte di sfuggita anche nell'insediamento ma che mai avevo visto percorsa da qualcuno. Scesi le scale verso una tenebra più fredda e mi ritrovai in un grosso stanzone sotterraneo nel quale erano state allestite gabbia abbastanza grandi per ospitare degli uomini. Sull'altro lato della stanza, invece, un nuovo corridoio si perdeva in una tenebra ancora più profonda che non ebbi il coraggio di affrontare. In verità temevo di morire nell'oscurità, temevo l'idea che il mio corpo si consumasse nel buio lontano da un posto adatto. Tuttavia trovai una sorta di mappa ancora custodita dietro il vetro di un quadro, in parte era stata opacizzata dal tempo ma il lato che riuscii a studiare mostrava una serie di condotti e stanze sotterranee che si estendeva lungo tutti i confini dell'insediamento.
Mi allontanai da lì subito dopo, intenzionato ad esplorare almeno parte della città prima di esaurire completamente le energie.
Penetrammo quasi subito in una periferia fatta di alti palazzi nel quale il fischio del vento produceva un sibilo differente, un suono variegato forse dalle stanze dei piani più alti, nel quale l'aria poteva entrare liberamente attraverso porte e finestre sfondate, sfruttando gli edifici come gigantesche casse di risonanza armonica capaci di amplificare in maniera ancora più distinta i mille respiri prodotti da quel luogo morente, da quei ponti sospesi, da quella terra arida che un tempo avevano ospitato orti e giardini in fiore, da quelle basse stalle, ora vuote, dei cui animali non era rimasto neppure l'odore.
Camminavo in quei simil Vot con gli occhi al cielo, ammirando quella colonia dal basso rapito dal senso surreale di familiarità che quei luoghi mi ispiravano. Era come camminare nell'insediamento, stessi palazzi principali, stesse strade, stesse ramificazioni, stessi pilastri dell'Elobus, pronti a reggere cavi tesi e vetturine oramai scomparse. Vecchie catene e travi dei ponti pendevano sospesi nel vuoto rendendo quasi impraticabile la rete di strade superiore. Anche se più volte fui tentato di salire una delle scale inferiori per perdermi tra quei corridoi superiori da cui avrei potuto godere di una visuale ancora migliore della città, desistetti sempre: era più la paura di morire a un passo dal mio obiettivo che la paura di morire stessa.
Raggiunsi la piazza centrale quasi senza accorgermene, guardandomi attorno disorientato nel vedere quel luogo deserto. Persino la cattedrale era la copia identica di quella del Simposio, a me così tanto familiare: medesime forme, medesime statue, medesima mole mastodontica che mi schiacciava come aveva sempre fatto, come le volte in cui mia madre mi trascinava lì per le funzioni principali, prima che la follia la cogliesse.
Mi ci volle uno sforzo di immaginazione immenso per comprendere che quello non era lo stesso edificio, che quello non era il medesimo insediamento, eppure tutto era così uguale, così spudoratamente identico da non sembrare neppure un'opera umana.
Guardai attraverso il portale divelto, l'intera navata era stata ripulita dei preziosi materiali di cui i preti del Simposio amavano tanto vantarsi, ma gli affreschi rimanevano, i grotteschi murali che rappresentavano banchetti tanto ricchi in cui demoni, uomini ed angeli condividevano un pasto fatto di abbondanti portate di carne, di frutta e verdura di tutti i tipi e di grandi boccali, che si sollevavano in brindisi all'ingordigia.
"Torneremo a banchettare" dicevano i prelati, ma gli unici banchetti rimasti dovevano essere i loro visti i profumi che invadevano la piazza all'ora dei pasti.
Guardai il grande altare di pietra, un raggio di luce quasi ultraterreno lo illuminava, nel buio fresco dell'edificio sembrava attendesse solo il peso di un corpo, pronto a diventare il talamo sul quale avrei giaciuto con l'amata morte.
Decisi che sarei tornato lì, quando le forze mi avrebbero quasi abbandonato del tutto, che quella gigantesca cattedrale in quell'insediamento morto sarebbe stata la mia personale catacomba.
"La cripta di un mosto" pensai, con un mezzo sorriso.
Ma le forze sembravano essermi tornate tutte, ora che camminavo per quella città, forse a causa delle forti emozioni, forse perché l'ora era più che mai vicina, non sentivo più il peso di sete o di fame, solo leggerezza e la voglia profonda di scoprire altro, di camminare ancora un po', di godere del sole di quell'ultimo giorno e di quel requiem, vibrante nel vento, che faceva da colonna sonora ai miei passi nella silenziosa città.
Percorsi le strade del centro, tra gli antichi negozi dei piani superiori si potevano vedere i rimasugli di vecchi prodotti, giochi per bambini oramai ridotti in pezzi o tanto fragili da finire in frantumi con il solo tocco, nelle botteghe disordinate ogni tanto raccoglievo qualche oggetto di tutti i giorni come pettini, spazzolini, penne, stralci di stoffa che un tempo dovevano essere vestiti, occhiali, braccialetti, roba di poco conto dimenticata lì dai coloni in fuga. Alcune attività erano state sbarrate, forse quelle dei primi che avevano abbandonato l'insediamento, altre dovevano essere state violate dalla furia del vento quando la città era già stata abbandonata, o forse saccheggiati subito dopo, definirlo era difficile tra quel marasma di polvere e sabbia.
Raggiunsi la sede del Bigoverno, l'edificio del campidoglio, terreno quasi sacro ed inviolabile per comuni cittadini come me, sotto la lente di quella desolazione assumeva l'aspetto di un cadavere mastodontico, uno dei tanti, non così differente dai mulini a vento collassati o dalle silenziose guglie dell'alta cattedrale. Tuttavia nelle sue forme regolari e spigolose rimaneva ancora un po' di quel rigore istituzionale che stimolava in me una profonda avversione. O forse erano i sentimenti del Grillo, quelli che confondevo per i miei, il cui interesse per Munillipo non è mai stato un mistero.
Con una certa tensione penetrammo in quei territori normalmente proibiti, oltre quelle mura deserte, un tempo vigilate da soldati in divisa, verso uno spazio di terreno brullo nel quale giacevano le statue della Fondazione. Dei dodici padri ne erano rimasti in piedi solo una manciata, gli altri erano crollati lasciando solo busti acefali o statue prive di braccia. Non mi fu difficile immaginare che un tempo quello spazio doveva essere stato un giardino in fiore, visto che più volte avevo ammirato i giardini di fronte al campidoglio, quando ero adolescente, andando ad ascoltare il fruscio del vento sulle fronde degli alberi per togliermi dalla testa le grida di mia madre, per cui un po' rimpiansi di poterne visitare solo quella copia.
Il portale metallico del campidoglio era serrato così come serrati dietro spesse paratie metalliche erano anche tutte le finestre dei piani inferiori. Decisi quindi di cercare un qualche ingresso posteriore o un qualche punto in cui i muri potevano essere collassati. Non trovai niente, tutto ciò che scoprii fu che all'interno del territorio cintato esistevano altri tre edifici, tutti collegati al campidoglio da ponti sospesi. Il primo sembrava essere una sorta di succursale dell'istituto biotecnico, uno spazio circondato da serre, ora deserte, dove fila e fila di vasi avevano contenuto piante e fiori di qualsiasi tipo, il secondo aveva l'aspetto di una centrale ad energia solare, un edificio di modeste dimensioni che però doveva produrre e immagazzinare sufficiente energia per alimentare l'intero campidoglio. Soprendentemente questo era ancora in funzione, sentivo i macchinari continuare a lavorare nelle profondità, produrre energia che in qualche modo doveva essere consumata.
L'ultimo edificio era una sorta di palazzo ottagonale, circondato da tubi metallici e altri apparati elettrici di cui ignoravo la funzione, anche questo come gli altri era stato completamente sigillato e anche in questo sentivo dei macchinari lavorare in sordina, nel buio di quelle misteriose stanze, ma ciò che mi rese quel luogo sinistro e al contempo irresistibile, fu una sensazione di inquietudine profonda, l'inquietudine scaturita dall'aspetto familiare della struttura.
"Io qui ci sono già stato" mormorava una voce, dentro di me. E non era quella del Grillo, bensì la mia, anche se più infantile.
Il Grillo fremeva, eccitato, trasmettendomi il desiderio irresistibile di entrare lì dentro. Agii d'impulso, del resto anche se non me ne rendevo conto avevo perso lucidità e mi muovevo come in un sogno. Avevo ancora gli stivali ai piedi e i guanti alle mani, così provai a sparare i miei rampini verso l'alto, ma la sabbia doveva aver compromesso gli ingranaggi dato che non riuscii a lanciare nulla, a quel punto pensai di attivare gli stivali a gravità alterata. Lo feci stupidamente, accecato dall'eccitazione.
Spiccai il balzo, ma la spinta degli stivali doveva essersi ridotta, forse per il calore o per la sabbia del deserto, così saltai solo per una decina di metri, finendo contro la parete liscia dell'edificio e scivolai all'indietro, cadendo nel vuoto, impotente.
Incapace di ragionare lucidamente allungai le braccia verso l'alto, sperando forse di riuscire ad aggrapparmi a qualcosa, ma non afferrai altro che aria e ancora prima che me ne rendessi conto ero precipitato nel buio.
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