Lo Scoglio Nero
La familiare finestra sospirava di brezza marina lasciando sventolare dolcemente le tende bianche, decorate con i motivi floreali che la mamma amava ricamare su tutto.
I suoi fiori, la sua unica gioia, la letizia con cui riempiva la casa.
Era strano risvegliarsi nella mia vecchia stanza come un adulto nella coscienza di un bambino, assistendo ai miei stessi movimenti lenti, subito dopo il sonno, come il Grillo aveva probabilmente fatto per anni, assiepato in silenzio nella mia coscienza.
La camera era identica a com'era all'epoca, solo ora che la rivedevo, però, riuscivo a ricordarla: piena di fogli sparsi, schemi tecnici, libri aperti, dottrine di studio che solo ora, uomo adulto che ritorna nelle stanze della propria infanzia, mi sembravano così sinistri, così innaturali,.
Dov'erano i giochi? Dov'erano i testi per bambini? Dov'era l'infanzia?
Eppure quel mattino scendevo le scale felice, guidato dal profumo della prima colazione che la mamma stava preparando sul fuoco mentre mio padre, chiacchierando dolcemente con lei, la accompagnava in ogni movimento osservandola, sorridendole, coccolandola.
Non ricordavo nemmeno che quei due andassero così d'accordo.
Il me stesso bambino sedette al tavolo, una tavola apparecchiata per quattro.
- Hai riposato bene tesoro? - mi domandò mia madre con un sorriso smagliante, il più bello che potessi ricordare.
- Sì mamma - risposi, mettendomi ubbidientemente a mangiare le mie barrette proteiche e la frutta tagliata.
"La frutta è per voi" sorrideva sempre mia madre, preparandosi un decotto con le bucce avanzate.
- Finalmente anche la principessa si è svegliata - commentò mio padre, sorseggiando il suo decotto con un sorriso.
Mi volsi verso le scale e finalmente la vidi: mia sorella.
Per la prima volta non la vedevo con il volto eclissato o confuso e quasi mi sorprendeva vedere che non fosse altro che una bambina normale dagli occhi assonnati e i capelli spettinati che scendeva le scale quasi controvoglia, spinta unicamente dai morsi della fame infantile.
Ci ritrovammo sul sagrato della cattedrale mentre una grande fiumara di gente si apprestava ad entrare per assistere alla cerimonia domenicale. Io seguivo ubbidientemente mio padre mentre mia sorella, non appena raggiunta la folla, si era dileguata ridacchiando.
- Dove sarà sparita quella peste? - si domandò mio padre, cercandola con lo sguardo.
- Avrà trovato qualche amico e vorrà entrare con lui, sai come sono i ragazzi, oramai ha dieci anni - minimizzò mia madre . - Non ti preoccupare, non corre pericoli dentro le torri - sorrise, stringendo mio padre per il braccio.
- Se volete vado io a cercarla - disse la mia ingenua voce infantile.
- Lo faresti caro? - domandò mia madre, sorridendomi e dandomi una carezza. - Va bene ma non perderti la funzione, d'accordo.
Rivivendo quel ricordo e guardando i profondi occhi di mia madre vi lessi qualcosa che all'epoca non ero in grado di intendere, un bagliore strano, come una volontà. Lei sapeva che non sarei mai entrato in chiesa, che quella era una scusa per rimanere fuori, per vedere cosa facevano gli altri bambini quando riuscivano a scampare alla funzione domenicale.
Mi allontanai tra la folla sentendo mia madre rassicurare mio padre - Ma sì, lascia che facciano, solo solo bambini...
Trovai mia sorella poco dopo, assiepata con altri bambini dai volti indistinti fuori dalla calca, oramai quasi scemata del tutto.
- Cosa ci fai qui, automa? - mi domandò uno dei ragazzini, vedendomi avvicinare.
- Sono venuto a cercare mia sorella, papà vuole che entriamo - dissi.
- Levati dalle scatole, non vedi che qui non ti vuole nessuno? - domandò lei di rimando.
Non era più la bambina gentile e normale che avevo visto solo poco prima, in questo momento il mio alter ego bambino la vedeva come una bestia, come un mostro da cui sfuggire. Normalmente ma non quel giorno, quel giorno era importante per qualcosa, quel giorno avrebbe dovuto significare una resa dei conti.
Possibile che fosse questo l'evento che aveva alzato lo Scoglio Nero e generato il Grillo insieme alla sua realtà nella mia testa?
- No, papà ha detto di venire - risposi io, imponendomi come forse non avevo mai fatto.
- Senti marmocchio - mi minacciò uno dei ragazzini.
- Calmati - disse mia sorella, spostandolo. - Adesso tu ritorni in chiesa e dici che io sono nelle ultime file insieme agli alti miei amici come hai sempre fatto, è chiaro? - mi minacciò, spingendomi.
- No, sono stanco di inventare storie per non farmi trattare male da te, tanto poi mi tratti male comunque - sbraitai.
Senza dire una parola mia sorella mi diede un pugno così forte che mi fece ruzzolare per terra.
- A quell'automa di tuo fratello serve un'altra lezione - ridacchiò perfido il bambino di prima mentre anche gli altri mi circondavano.
- Mio papà lo ha proprio programmato bene, è una vera scocciatura - disse mia sorella. - Colpitelo solo in pancia, non voglio che i miei genitori mi facciano il terzo grado se arriva a casa con delle ferite in faccia - continuò, disinteressandosi a me e lasciandomi alla mercé degli altri bambini.
Mi alzai in piedi e strinsi i pugni, motivato più che mai a non scappare, a non sottrarmi, a combattere.
Presi una manciata di polvere dall'asfalto e la lanciai in faccia al primo che mi si fece addosso, accecandolo, ma prima ancora che potessi buttarmi su di lui altre braccia e mani mi afferravano, trascinandomi a terra, deridendomi, chiamandomi "automa"
Mi colpivano in pancia come gli aveva detto mia sorella, ridendo e schernendomi mentre le loro suole mi colpivano al ventre e le punte delle loro scarpe ai fianchi.
Mia sorella lontana, indifferente ed il me stesso bambino che bruciava d'odio.
Chiusi gli occhi.
Poco dopo ero di nuovo solo, in un angolo all'ombra della chiesa, con le lacrime agli occhi e le costole doloranti, un dolore che pensavo non avrei mai dimenticato.
Su di me gravavano solo gli affreschi ed il peso della folla, intenta ad osservare la funzione, indifferente ad un gomitolo di carne come me uggiolante in un angolo.
- Che succede? - domandò la voce sicura di mio padre.
- Niente - risposi, asciugandomi le lacrime col polso.
- Eppure a me non sembra niente, hai litigato con tua sorella?
- Una cosa del genere.
- Una cosa del genere - ripetè mio padre. - Vedi a volte capita di litigare con le persone, ma non per questo ci si vuole meno bene.
- Ma mia sorella non me ne vuole per niente, di bene - risposi.
- Oh, su, sembra che parli di un mostro.
- E' lei a trattarmi come un mostro, mi chiama "automa".
- Per via dei disegni?
Feci cenno di si con la testa.
Mio padre trasse un lungo respiro e guardò verso l'altare, dove il reverendo stava raccontando la parabola del pane e del companatico.
- Vedi, è difficile convivere per gli esseri umani, soprattutto in un insediamento così grande ma alla fine così piccolo. La verità è che tua sorella è solo gelosa, gelosa delle attenzioni che ti diamo e delle cose che sai fare, ti invidia, per questo ti maltratta.
- Ma perché mi invidia? Lei ha tanti amici con cui giocare, tutti le vogliono bene, ha tutto.
- Ha tutto tranne quello che si nasconde in questa piccola scatola cranica - rispose mio padre, carezzandomi la testa e baciandomi la fronte. - Passerà anche questa invidia, l'odio non dura mai per sempre. Prometto che le parlerò e cercherò di risolvere la situazione, va bene?
- No, lascia stare papà, così peggioreresti solo la situazione.
- Non mi va che ci sia una guerra nella mia famiglia - disse lui, aiutandomi a rialzarsi. - Ora pulisciti quella faccia e fai un bel sorriso, torniamo da tua madre non vorrai farla preoccupare.
- No papà.
Tornato a casa mi chiusi nella mia stanza, in realtà le parole di mio padre non mi avevano risollevato l'umore, mi avevano riempito di nuove e più angoscianti preoccupazioni, se già prima convivere con mia sorella si era dimostrato un inferno dopo quel "discorsetto", le mie non avrebbero fatto altro che triplicare.
- Perché sono così sfortunato? Che ho fatto di male al mondo? - domandavo ai gabbiani che venivano ad adagiarsi poco più in alto della mia finestra, indifferenti anche loro a tutte le mie pene. - Come vorrei avere qualcuno che mi parlasse, qualcuno che mi capisse - sospiravo.
La porta della mia stanza si aprì all'improvviso e mia sorella entrò come una furia.
- Che cosa hai detto a papà piccolo stronzetto! - ringhiò, afferrandomi per i capelli e trascinandomi a terra.
La casa era deserta, inutile gridare, era troppo furba per malmenarmi quando c'erano i miei all'orizzonte.
- Lasciami, mi fai male! - gridavo, afferrandola per il polso per farmi lasciare.
- Allora non mi sono spiegata bene - disse, trascinandomi sul pavimento, - cosa hai detto a papà?
- Non gli ho detto niente, solo che avevamo litigato, giuro.
- Non dirmi cazzate, cosa gli hai detto! - sibilava, continuando a trascinarmi.
- Basta, fermati ti prego mi strappi i capelli!
- Non me ne frega niente dei tuoi capelli, dimmi cosa hai detto a papà.
- Ti giuro che non gli ho detto niente, ti prego lasciami.
- Lasciarti, io ti faccio fuori insetto - ringhiò a pochi centimetri dalla mia faccia. Era isterica, gli occhi carichi di una furia che non le avevo mai letto in volto, che non la rendeva umana.
Se io ero un mostro, e forse lo sono veramente sempre stato, lo sono solo perché provengo da una progenie di mostri.
- Ho detto di lasciarmi! - gridai, graffiandole il volto. Lei mi lasciò all'istante, correndo via dalla mia stanza coprendosi la guancia insanguinata mentre io, ancora a terra, avvolto in uno strano senso di libertà, mi addormentavo.
Quando riaprii gli occhi era buio e nella stanza non ero più solo, un'altra presenza, un altro respiro occupava quell'ambiente oltre a me. Il me stesso bambino lo cercò, esplorando la penombra fino a trovarlo, ingobbito su una sedia, il petto che si sollevava a sussulti.
- Papà? - domandai.
- Rimettiti a dormire, non è successo niente - rispose mio padre con la voce rotta dal pianto.
- Papà, perché piangi?
- Rimettiti a dormire, non è successo niente - ripeté lui, vedendo che mi avvicinavo.
- Sembri un disco rotto, cosa ci fai qui? Che ore sono?
- E' tardi, rimettiti a dormire - mi disse, alzandosi in piedi e prendendomi di forza per rimettermi a letto.
Aveva le mani umide e appiccicose, la sua camicia era sporca di qualcosa di scuro e denso.
- Cosa succede? Perché sei sporco?
- E' solo olio, non ti preoccupare, rimettiti a letto - continuò.
Mi guardai il pigiama, le mani di mio padre mi avevano lasciato impronte scure e umide, ma non odoravano di olio.
In quel momento il me stesso bambino guardò oltre le sue spalle, proprio di fronte alla sedia su cui sedeva c'era un piccolo fagotto steso a terra e attorno una macchia scura.
- Cosa è successo, papà spiegami - lo supplicai mentre la comprensione si trasformava in paura e infine in terrore.
Mio padre stava vegliando il cadavere di mia sorella.
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