Il tunnel per Ojern
Lasciai Gin due giorni dopo, di nuovo in forze e con acqua sufficiente per superare i monti. Il vecchio androide mi informò che esisteva un vecchio tunnel, un passaggio antico che gli abitanti avevano utilizzato prima per scambiare merci con il mio insediamento e poi per migrare, una volta estintasi la colonia.
Gin mi parlò dei suoi vecchi clienti in maniera confusionaria, continuando a canticchiare motivetti commerciali e presentandomi di continuo prodotti della Whisky and Soda di cui faticavo a comprendere lo scopo. Il tempo con lui era delirante, oltre ad emettere continui suoni e rumori era costantemente impegnato a ristrutturare quell'edificio, passando spesso ore fuori casa per recuperare materiali. Di fatto mi raccontò che la sua locanda un tempo era il centro di un avamposto di una decina di edifici oramai scomparsi, divorati da quella locanda in perenne ristrutturazione.
Ripresa la via delle montagne, ritrovai la strada di asfalto crepato che avevo già incontrato in pieno deserto e la seguii. Mano a mano che camminavo, avvicinandomi a quei giganteschi colossi di granito, il mio cuore riprendeva a palpitare delle stesse, disperate, emozioni che mi avevano sospinto fin lì e d'un tratto mi domandai cosa avesse mosso il mio corpo durante quello scellerato viaggio, se fosse una pulsione mia o la disperata esasperazione di un istinto diverso, alieno, se dietro quella ricerca di conoscenza non si nascondesse l'istinto del Grillo, la sua sete di consapevolezza, di conoscenza, di scoperta che era da sempre parte integrante della sua personalità, più che della mia.
Forse era vero che la nostra fusione era già in atto da tempo, che le nostre due personalità sarebbero diventate un tutt'uno in un processo che io non ero in grado di percepire. Forse era già lui che spingeva il mio corpo, in quel momento.
Ben presto il paesaggio arido si trasformò in una distesa pietrosa fatta di colline rocciose e profonde gole asciutte nel quale non si sentiva altro se non il rimbombare di sporadiche frane, forse sospinte dalle zampe di invisibili animali che mi circondavano, nascosti nell'ombra o nelle faglie tra le rocce incuriositi dal mio passaggio. Io proseguivo sulla vecchia strada asfaltata, tra grossi cumuli di rocce che la sommergevano formando in alcuni punti ostruzioni tali che mi veniva difficile superarle senza correre rischi.
Mi capitò di raggiungere anche due ponti, il primo, completamente collassato, si adagiava oramai da tempo nel letto di un fiume oramai riarso ed i suoi detriti, fatti di calce e ferro, avevano l'aspetto di ragni scuri le cui zampe contorte si arricciavano sul petto nell'ora della morte. Il secondo invece era ancora in parte intero, sorretto dai propri pilastri originali, i vecchi carrettieri avevano lavorato sulla sua schiena rinforzandola con travi di metallo, ottenuti dalle carcasse di metallo che erano un po' ovunque anche lì. Nonostante la ruggine e il tempo le riparazioni avevano retto, cosa che mi permise di attraversarlo senza correre rischi, sebbene con estrema prudenza.
Di tanto in tanto scorgevo vecchi edifici, strani avamposti isolati, casolari di cui rimanevano solo poche mura, detriti e calcinacci. Erano edifici vecchissimi, dell'età precedente quella in cui il mondo aveva iniziato a rallentare e anche se di loro rimanevano poche tracce ne ero affascinato, mai avrei immaginato che gli esseri umani potessero vivere in posti così isolati e con difficoltà riuscivo a capire lo scopo di quelle abitazioni. Certi dovevano essere avamposti di rifornimento, dove gli antichi ricaricavano i propri veicoli attraverso curiose scatole di metallo, altri immaginai fossero capanni di caccia, risalenti al periodo in cui gli animali correvano sui monti in cicli vitali cancellati dal tempo.
Lungo le creste e sulle sommità dei monti ogni tanto vedevo giganteschi spaventapasseri di forma umana, scheletri di metallo che si stagliavano sul cielo a forma di T, o forse di croce. Più spesso li trovavo collassati, arrugginiti in lastre di metallo oramai fuse col terreno arso.
Più avanzavo, più capivo che la razza umana non aveva mai vissuto la sua esistenza nei sicuri confini di insediamenti isolati, come invece veniva insegnato, ma era esistito un tempo in cui tra gli insediamenti esistevano edifici, esisteva vita, esisteva presenza umana.
Gli umani avevano dominato il mondo, lo avevano sperperato, così come mi aveva detto Naftalia nelle sue confidenze, ciò che vedevo ora me lo confermava. Il Simposio mentiva, Munillipo mentiva, il mondo non si era fermato per una fatalità del destino, una ciclica estinzione naturale, il mondo si era esaurito e lo avevamo esaurito noi.
Arrivai all'ingresso del tunnel due giorni dopo, vecchi cartelli di metallo rugginoso pendevano malinconici dalla sua estremità mentre all'interno un buio torvo, quasi tangibile, rendeva quell'antro ancora più inquietante.
Riposai nei suoi dintorni, trascorrendo la notte rannicchiato tra le mura di un vecchio edificio lì accanto, risistemando gli occhiali in vista dei prossimi giorni di marcia. Mentre attraversavo il deserto dovevo essere caduto malamente e una delle due lenti si era rotta, cosa che mi obbligò a sistemare gli occhiali alla meglio. Avrei visto solo da un occhio ma avrei risparmiato abbastanza batteria da riuscire a superare l'intero tunnel senza brancolare nel buio.
Mi addormentai subito dopo aver terminato le riparazioni, sperando che una volta superato il tunnel, ma era una speranza vana, Gin era unico nel suo genere, la sua sopravvivenza per così tanto tempo lo rendeva eccezionale.
Entrai nel tunnel all'alba del terzo giorno, accendendo la visione notturna degli occhiali per orientarmi nel buio umido, quasi aggressivo, che mi si parò di fronte appena una decina di metri dal mio ingresso.
Camminavo in uno stillicidio perenne, in un'aria fresca, umida, odorosa di terra marcia e muffa. Come mi aveva detto Gin, il tunnel era irrorato dell'acqua che filtrava dalle rocce. Spesso incappavo in singolari canaline, fossati inclinati che convogliavano l'acqua verso le profondità del tunnel. Questo apparato era stato creato in un secondo momento, forse veniva utilizzato da mercanti e viaggiatori per rifornirsi d'acqua durante il proprio passaggio. Di passaggio del resto doveva essercene stato molto, secoli prima, vista la grande quantità di preghiere, segni e firme che riuscivo a intravedere incise sui muri e sui pilastri del tunnel.
Dedussi che fossero scritte, in realtà, perché molte erano composte da lettere e vocaboli che io non conoscevo ma le poche che riuscivo a decifrare erano nomi familiari, passaggi dei Cantici del Simposio che conoscevo.
"Donaci, o altissimo, l'acqua e il cibo con cui imbastire le nostre tavole perché di chiacchiere e bagordi è fatto l'ultraterreno"
"Sazia oggi la nostra fame cosicché domani saremo in forze per procacciare altro cibo e sederci alla tavola degli illuminati a pasteggiare nel cantico eterno"
"Disseta, o signore, le nostre labbra riarse dal calore, donaci il pescato con cui allestire le nostre tavole e noi ti renderemo grazie"
Erano parole di speranza, passi tratti dai cantici della fame e della sete, scritti mentre il mondo si stava già per fermare.
Immaginai quel fiume di persone, di pellegrini senza volto che marciavano nella notte dei tempi sotto quella stessa volta, fermandosi a riposare presso quei pilastri su cui incidevano i loro nomi e le loro preghiere. Quanti erano stati, nel corso del tempo e da quanti luoghi venivano? Quante nazioni e lingue diverse esistevano prima che tutto si esaurisse lasciando solo la fiamma morente di un ultimo insediamento senza nome?
Erano domande a cui non riuscivo a trovare risposta così come non riuscivo ad immaginare le vere dimensioni di quel mondo allo sfacelo, sempre descrittomi in maniera così approssimativa, così incompleta.
Se nel deserto il calore era una maledizione, lì dentro valeva il contrario, lì la vera maledizione era il freddo, il buio, lo stillicidio perenne che impregnava i miei abiti ad ogni passo, inzuppandomi e raggelandomi mano a mano che procedevo.
Spinto dal freddo e dalla disperazione non mi fermai che a riposare per poche manciate di minuti, del resto dormire risultava impossibile con tutta quell'acqua addosso.
Di tanto in tanto trovavo delle sorta di avamposti, camere scavate nella roccia viva che raccoglievano le acque delle canaline in grosse vasche circondate da quelli che un tempo dovevano essere stati edifici di servizio, ora ridotti ad ammassi di muffa pelosa e legno marcio.
Non mi fermai mai presso questi avamposti, troppa era l'inquietudine per quella bestiale muffa il cui odore forte mi ricordava quello che aleggiava nei dintorni delle Compostiere.
Continuai a proseguire in silenzio, avanzando in quella fila di simboli, di preghiere, di antiche speranze che diventavano sempre più inquietanti alla mia mente sconvolta dalla fame e dalla stanchezza.
Ben presto anche quei simboli si trasformarono in visioni, visioni del me stesso bambino che correva sul sagrato della cattedrale, accerchiato da estranei indifferenti, mentre mia madre mi seguiva a passo lento, stringendo per mano una sorella che non avevo mai ricordato di avere.
All'improvviso rinvenni da quella visione, accecato da un raggio di luce abbagliante, una folata di aria rovente. Ero oramai troppo sfinito per capire con precisione, ma riuscii a trascinarmi verso quella luce e quando rinvenni era di nuovo buio ma un buio buono, il buio di una volta di stelle.
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