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Carne e redenzione

Risalendo da quell'oscuro purgatorio in cui ci eravamo avventurati, incontrammo altre centinaia di stanze con altrettante stranezze. Attraverso spesse finestre di vetro temprato ammiravamo progetti di robotica come non ne avevo mai visti, macchine di generazioni sconosciute, provenienti da una tecnologia di un futuro che a fatica riuscivo a immaginare ma che eppure conoscevo, o meglio riconoscevo. 
Erano macchine, macchine che allevavano altre macchine, che le studiavano, che le perfezionavano. Quello in cui ci trovavamo era un utero, un gigantesco, un immenso utero artificiale in cui le macchine si preparavano, lavorando su se stesse, proiettandosi ben oltre a quel salto preannunciato da Galeiana, ben oltre a quell'orizzonte di confusione che sarebbe susseguito alla scomparsa dell'uomo.
Qui i modelli si riproducevano, replicavano l'esatto meccanismo della selezione genetica ma in maniera più logica, più strutturata. 
Ed ecco comparire costrutti più complessi, di fogge e strutture che ricordavano oramai solo più lontanamente i modelli umanoidi, fatti di grosse teste geometriche contenente ogni sorta di apparato di scansione o comunicazione, corpi sempre più resistenti ad alte temperature, con blindature migliorate per resistere all'azione dei venti carichi di sabbia, con piedi a rotelle, piedi palmati, zampe da ragno... In ogni angolo veniva sviluppato e testato un modello differente, in ogni angolo veniva prodotta e testata una differente variante. Quasi sempre le varianti presentavano una strana percentuale di casualità che rendeva ogni modifica imperfetta, da semplici apparati asimmetrici a veri e propri abomini di cavi e circuiti il cui sinistro scopo non poteva che essere sconosciuto. 
- Che razza di posto, mi mette i brividi - disse Medinda, camminando accanto a me con il fucile stretto tra le mani ed i nervi a fior di pelle. 
- Non c'è nulla di cui aver paura, non possono vederci, noi non gli interessiamo, ciò che stanno facendo è replicare il processo caotico della riproduzione genetica. 
- Che vuoi dire? 
- Stanno cercando la strada per l'evoluzione e nel farlo stanno esplorando l'orizzonte casuale. Emulano l'evoluzione darwiniana, creano, testano e tengono tutto ciò che è funzionale. 
- Vuoi dire che anche qui... anche questi potrebbero ucciderci tutti?
- Difficile dirlo, ma dopo Galeiana le mie certezze in materia sono crollate tutte. 

Ci avvicinavamo alla superficie lentamente, superando piani e piani di abomini tecnologici sempre più complessi e sempre più inquietanti. Avevamo superato i primi tre piani verso la superficie quando, per la prima volta, in una delle bianche camere di sviluppo vedemmo del sangue.
Fu proprio Medinda a farmelo notare, in realtà, indicando quella macchia circolare sul pavimento di una delle stanze, così appariscente in un ambiente bianco e sterile. 
- Deve essere una macchia di grasso o di olio - commentai in un primo momento, anche se il colore vermiglio mi avrebbe dovuto suggerire ciò a cui saremmo andati incontro. 
Nel giro di pochi metri iniziammo ad incontrare nuovi macchinari in cui misteriosi pezzi di cadavere erano stati inseriti su strutture meccaniche, dita di carne morta si fondevano a mani metalliche impegnate a stringere oggetti, a digitare parole su tastiere, ad infilare fili in asole di ago con la massima precisione, modelli con volti umanoidi, poco più che pelle stesa, su grotteschi volti meccanici che sembravano tutto forchè fattezze umanoidi, vedemmo addirittura le gambe umane di un modello cedere sotto il peso del suo stesso busto e finire in pezzi grontanti sinistro sangue scuro o più probabilmente un fluido rosso di imbalsamazione, mentre pezzi di ossa e carne schizzavano ovunque imbrattando il bianco asettico della stanza. 
Medinda vomitò di fronte ad un grottesco modello contenente un utero gonfio attraverso il quale si poteva vedere una creatura deforme, probabilmente già morta, in un sinistro tentativo di creare una macchina in grado di portare a termine una gestazione umana ma diventato qualcosa di così osceno, distorto e sbagliato che persino io, di solito più freddo e pacato, dovetti distogliere lo sguardo. 
- E questo mattatoio che roba è? Anche questa è la tua "evoluzione" delle macchine? 
Di nuovo non risposi, di nuovo il disgusto del Grillo prendeva il sopravvento mescolandosi col mio, rendendo la mia pelle un posto inabitabile, inquinando la mia anima con quelle sensazioni che ero riuscito ad ignorare e reprimere fino a solo poco tempo prima. 
- Evitiamo di guardare questa roba, qualunque cosa sia e qualsiasi senso abbia noi non dobbiamo... - ma le parole mi morirono in gola, poco lontano da lì in uno stanzino uguale a tutti gli altri, vidi una figura familiare affaccendarsi attorno ad un tavolo pieno di strumenti. 
Mi avvicinai lentamente, ignorando lo sguardo confuso e incuriosito che mi lanciava Medinda, fino a fermarmi a pochi centimentri dal vetro.
- Malaeva... - mormorai, in un brivido di orrore e paura. 
La figura all'interno della camera era una sorta di costrutto, più un insieme di tiranti e cavi montati su una struttura ossea, ma ciò che più inquietava era la sua fusione con il cadavere di Malaeva, anzi più che una fusione era come se lo calzasse malamente, infilandosi nel suo corpo con una gamba ed un braccio mentre la sua testa pendeva a lato di quella del modello, il quale non aveva occhi o bocca ma solo la sagoma piena di un cranio. Gli occhi di Malaeva invece si muovevano, saettavano, la sua bocca mormorava, il suo corpo si muoveva con movimenti convulsi, meccanici, tentando di effettuare una riparazione al collettore di un depuratore. 
- Che cosa gli hanno fatto? - mormorò Medinda, accanto a me. 
- Io l'ho visto scendere nelle compostiere, sono sicuro che fosse il suo cadavere, che fosse quello stesso corpo. 
- Immagino che in qualche maniera debbano anche loro procurarsi la carne - rispose Medinda, ma il suo tono tradiva un profondo disgusto per tutto ciò. - Che cosa gli stanno facendo fare?
- Delle riparazioni, sembra - risposi. Improvvisamente le parole dell'IS allo Scalo mi furono tremendamente chiare: "Non hanno più bisogno di noi per le riparazioni, ora si arrangiano da soli". - No, stanno aggirando le direttive, integrano componenti umani per fare ciò che gli viene impedito di fare.
- Non può essere una cosa così contorta... 
- Non vedo altri motivi per fare tutto questo. Loro non possono riparare, sono compiti destinati a bot e a umani, ma se a farlo è la mente e la mano di un umano? 
Medinda tornò a guardare il cadavere di Malaeva compiere i suoi elementari compiti di riparazione e ammutolì, abbassando lo sguardo. 
- Va bene, ne ho abbastanza, ora più che mai sono sicuro delle ragioni del Sindacato e della validità della nostra missione. Andiamo fino in fondo, chiudiamola una volta per tutte. 
Feci un cenno affermativo con la testa ma non risposi, mi volsi ancora una volta a guardare il povero corpo deturpato di Malaeva, quella sinistra struttura di carne, ossa e metallo che si muoveva a fatica. 
"Stai invidiando anche questo destino, vero?" mi mormorò il Grillo, dentro, solo che stavolta non era la sua voce: era la mia.

Percorremmo il resto della strada in fretta, senza più volgerci a guardare nulla di ciò che ci circondava, oramai eravamo saliti di almeno sei piani rispetto al magazzino in cui eravamo arrivati. 
- Siamo vicini alla superficie - disse il Grillo, oscillano al mio fianco, - Guyro non conosce questo luogo con precisione, non sapeva ciò che vi avveniva, ma a grandi linee i suoi sensori indicano che la struttura non fosse più profonda di sette piani e con un accesso diretto alle strutture esterne del Campidoglio. 
- Quindi presto vedremo la luce? - domandò Medinda. 
- Si spera di sì. 
Salimmo altre rampe di scale fino a trovarci al pian terreno di un edificio di superficie nel quale l'ultima luce della sera penetrava attraverso le grandi vetrate del complesso di bioingegneria governativa. 
Ci finimmo dentro in maniera quasi inaspettata, passando dalle bianche pareti sotterranee ai candidi muri degli orti e delle serre dell'istituto. Decine di piante giacevano nel silenzio degli irrigatori automatici che ne inumidivano le foglie con un composto di acqua e fertilizzanti mentre piccoli bot spostavano piante e vasi attraverso le serre e i macchinari per la cultura o sostentamento. In ogni serra c'era quindi un lavoro frenetico, un turbinare di piccoli insetti neri che muovevano, controllavano, spostavano e trattavano tutte le piante coltivate in quegli orti. Anche lì sarebbero dovuti avvenire degli esperimenti ma non ci interessammo di approfondire troppo la nostra esplorazione di quella struttura, per cui non ci addentrammo nei meandri delle serre e dei capannoni dell'istituto limitandoci ad osservarlo da lontano, a constatare che ancora una volta non vi era alcuna presenza umana lungo quelle serre e quei corridoi, che nessuno occupava i piccoli uffici o la reception da molto tempo, che tutto ciò che vedevamo non ospitava vita biologica differente dalla fauna di insetti che appestavano le colture. 
- Sembra di essere in un'altra colonia, in un altro posto, non è possibile che a poche centinaia di metri da noi, oltre le mura di cinta del campidoglio, non esista traccia di una sola macchina intelligente. 
- Mentre qui siamo noi la minoranza, al centro di quello che noi crediamo essere la nostra unica casa - continuai io, volgendomi verso le vetrate che davano sul giardino esterno, quello spazio verde il cui frusciare del vento tra le foglie mi dava tanta calma nei momenti difficili della mia adolescenza. 
Medinda trasse un sospiro, seguendo il mio sguardo: - Sei pronto per il giardino del re? - domandò, togliendo la sicura al proprio fucile. 
- Oramai siamo troppo vicini per tornare indietro, non possiamo più concederci il lusso di non essere pronti - risposi, soppesando il bastone. - Tu lo sai che arrivato a questo punto è probabile che ci troveremo di fronte ad un esercito di modelli?
- Tu lo sapevi fin dall'inizio eppure la cosa non ti ha fermato dal venire qui dentro. 
- Mi sembra una corretta affermazione. 
- A questo punto mi chiedo perché inventarti quella balla del video se la tua intenzione era quella di morire qui.
- No, hai sbagliato, la mia intenzione non è mai stata quella di morire qui ma di rinascere qui. 
Medinda mi guardò, sembrò non capire. 
- Si tratta di una specie di redenzione?
Di pensai qualche istante. 
- Sì, redenzione rende bene l'idea - risposi, guardandolo negli occhi.

Entrai nel giardino carico di emozione, un'emozione via stavolta, non presa in prestito dal Grillo e dalle sinistre radici a spirale che mi avvolgevano l'anima. 
Il parco del Campidoglio era un angolo di paradiso, un miraggio del vecchio mondo divenuto realtà dove la terra fertile germogliava erba verde, fiori dai colori brillanti, alberi le cui robuste fronte bisbigliavano nel vento del deserto, diventato gentile dopo essere stato smorzato dagli alti edifici del Vot. Mosche, calabroni, api, formiche, una fauna di insetti mi circondava e a tutti, incredibilmente, riuscivo a dare un nome, ad identificarlo in una qualche categoria sconosciuta persino a me stesso. 
Ero così confuso, confuso da ciò che conoscevo pur non avendolo mai visto, confuso da tutto quel verde, da tutta quell'aria pura, ricca di ossigeno, opposta a quella stantia che avevamo respirato fino a poco fa. 
Ad un tratto una piccola figura alata mi balzò di fronte, era un insetto familiare, forse il più familiare di tutti ed io riconobbi anche lui, lo riconobbi pur non avendolo mai visto: un grillo. 
Lo seguii con lo sguardo volteggiare nell'aria, librarsi con i suoi lunghi balzi tra i fiori e gli altri insetti finché il mio sguardo non cadde su un'altra struttura familiare, quello stesso edificio che mi era quasi costato l'osso del collo ad Ojern. 
Senza più riflettere su dove mi trovavo e sulla missione corsi in quella direzione, fin da lì riuscivo a vedere che non c'erano serrande alle finestre, che la struttura era aperta, accessibile. 
Sentii Medinda bestemmiare, mentre stringeva il fucile tra le mani per corrermi dietro, ma oramai anche lui apparteneva ad un'altra dimensione, anche il Grillo che ora mi gridava in testa di fermarmi, di voltarmi e tornare indietro, di lasciare perdere quel luogo e quella sensazione familiare, quella sensazione distante che spirava proprio dai territori oscuri oltre il nero confine. 

Entrai nell'edificio dall'ingresso principale, affrontando porte e corridoi che trovai regolarmente vuoti, deserti, pieni solo della polvere del tempo e null'altro, nessuna traccia, nessun segno, nessuna impronta umana. Vi corsi attraverso come in una struttura che conoscevo, in cui istintivamente riuscivo ad orientarmi, che avevo già visto in un altro tempo, in un'altra vita, quando ancora il Grillo non esisteva ed io non avevo varcato quella porta bianca, quella stessa porta bianca che ora mi trovavo di fronte e oltre la quale mi aspettavo di vedere tutte le persone che avevo conosciuto, quegli stessi fantasmi onirici che avevo sognato e visto tante volte. 
"Madre" recava la scritta sopra la porta. "Madre", nient'altro. 


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