Capitolo 4
L'appartamento che zio Doug ha preso per me si trova a un paio di chilometri dall'università: in realtà si tratta di una specie di monolocale, carino e accogliente, di sicuro adatto a uno studente schivo come me.
Il punto è che nell'accordo è compreso anche Benjamin, ossia il tipo con cui devo dividere i miei prossimi anni di vita. Lui cercava un coinquilino e, secondo lo zio, non potevamo farci sfuggire l'occasione: affitto basso, vicino alla scuola, e, soprattutto, in un quartiere popolato da giovani.
Peccato che io non sia incline a fare nuove amicizie.
E zio Doug lo sa fin troppo bene.
Giunto davanti alla porta dell'appartamento, mi frugo nelle tasche alla ricerca della chiave che mi ha dato il caro zio e la trovo dopo attimi infiniti. L'infilo nella toppa, ma realizzo che la porta è aperta: accigliato, varco la soglia ed entro quasi con circospezione.
« Ben. Ci sei?» domando a voce alta, un po' perplesso dal silenzio che mi accoglie.
«Sono in camera» grida lui in risposta, seguito da una risatina inequivocabilmente femminile.
Oddio...
Ma perché doveva capitarmi uno come lui?!
Afflitto e dolorosamente consapevole di dover interrompere qualcosa, mi avvio verso la stanza di Benjamin, sorpassando velocemente il salottino annesso alla cucina. In corridoio mi ripeto mille volte che, dopotutto, ciò che sta facendo il mio coinquilino è una cosa naturale è normale eppure...
Sospiro quando raggiungo la porta della sua camera, la terza sul lato destro, e busso una volta sola, sperando che non mi senta.
«Entra pure, Victor!» esclama il ragazzo, dandomi un permesso che non sono più sicuro di volere.
«Ehm... non vorrei interrompere qualcosa... Io...» farfuglio, aprendo un poco la porta e bloccandomi prima di mettere dentro un piede.
«Ma che gentile...» commenta la stessa voce femminile di prima, con una nota ironica che mi induce a spalancare l'uscio.
Davanti a me trovo un bizzarro spettacolo, che non ha nulla a che fare con ciò che credevo di trovare: Ben si trova seduto sul letto con l'aria afflitta che guarda una ragazza, dai capelli corti e biondi, che sta montando quella che pare essere una libreria a tre scaffali.
«Così ora conosci il mio sporco segreto» esordisce il ragazzo, divertito e imbarazzato allo stesso tempo. «Sono una frana nei lavori manuali...» aggiunge come se mi servisse un'ulteriore spiegazione.
Sbatto le palpebre un paio di volte, ma la ragazza è ancora lì, alle prese con un trapano troppo grande per le sue manine delicate. Non sono certo un tipo sessista, però, vederla montare quegli scaffali ha un non so che di strano e fuori luogo.
« Sì, lo so. Faccio quest'effetto a molti» dice lei, distogliendo la sua attenzione dalla mensola che le sta dando filo da torcere per dedicarmi uno sguardo azzurro e limpido.
«Scusa. Non era mia intenzione mancarti di rispetto. Solo che...» Mi mordo la lingua prima di pronunciare qualche stupidata ma lei mi capisce ugualmente e si mette a ridacchiare, sinceramente divertita.
«Nessun offesa» ribatte lei, posando il trapano e tendendomi la mano destra. «Mi chiamo Mila. Sono la migliore amica di Ben, nonché suo braccio destro e sinistro. Frequento il secondo anno, ma ci vedremo spesso dato che abito sotto di voi.»
«Un operaio a portata di mano» sghignazza Benjamin, attirandosi lo sguardo furente di Mila.
«Se tu non fossi impedito, non dovrei venire a salvarti così spesso» replica la giovane, mettendosi le mani sui fianchi, stizzita.
Nel sentire quella risposta, il mio coinquilino scoppia in una sonora risata a cui si aggiunge quella di lei, dopo pochi istanti. Non capisco perché ridano e nemmeno mi interessa quindi decido di riportare la conversazione su temi più seri.
«Scusate se vi interrompo, di nuovo, ma... Per caso mio zio è stato qui?» chiedo a Ben, attirando la sua attenzione e smorzando così l'allegria generale.
«Uhm... Sì, ha lasciato un paio di scatoloni in camera tua qualche ora fa mentre tu eri uscito. Ovviamente non ho toccato nulla: gli ho dato solo una mano a trasportarli.» Mi risponde con un lieve sorriso. «Piuttosto... Stasera sei dei nostri? Io e Mila volevamo uscire per mangiare una pizza assieme.»
Prima di non accettare, guardo entrambi che mi fissano sinceramente speranzosi che io accetti e poi scuoto la testa, cercando di produrre un'espressione contrita.
«Mi dispiace ma non posso. Io devo... sistemare alcune cose» rispondo, rimanendo sul vago e voltando loro le spalle per uscire dalla stanza. «Buona pizza!»
Non lascio loro il tempo di ribattere oppure di tentare di convincermi a seguirli ed esco dalla camera, chiudendo la porta con un lieve rumore. Pregando di non trovarmeli fra i piedi troppo spesso, mi rifugio nella stanza che sarà mia per i prossimi anni: si tratta di uno spazio piccolo in cui potrò essere me stesso.
A parte il letto e un scrivania, non c'è nulla.
Tiro le tende per avere un po' di privacy, anche se ci troviamo al secondo piano, getto lo zaino a terra e mi metto a curiosare negli scatoloni che mi ha portato zio Doug.
Sono tre in totale: uno contenente vestiti, uno pieno di paccottiglia forse per abbellire la stanza e nel terzo...
Il terzo è colmo di ricordi.
Dolorosi, felici, potenti ricordi.
Non posso...
Lo richiudo con un movimento secco e lo scaravento contro il muro, dove si schianta producendo un forte rumore che sicuramente attirerà l'attenzione di Ben e della sua amica, ma la cosa non m'interessa minimamente.
Mi trovo nel mio spazio privato, il mio rifugio, e posso fare ciò che voglio.
Col fiato corto e il cuore che martella nel petto, il mio sguardo rimane fisso su quel dannato scatolone che mi deride, pieno di pezzi della mia vita, dall'altra parte della stanza.
Lo odio così tanto che potrei buttarlo fuori dalla finestra.
Ma odio di più zio Doug.
Come ha potuto farmi questo?!
Prendo il cellulare con l'intenzione di chiamarlo e fare una sfuriata con i fiocchi, però, poi mi fermo, col dito bloccato sullo schermo del telefonino: i miei occhi hanno intercettato una parola che non volevo vedere.
Perché?
Perché fa così male?
Digrigno i denti e getto il cellulare a terra, dove si rompe data la forza che ho usato. Cado in ginocchio al centro della stanza mentre vengo sommerso da troppi, dolorosi ricordi che mi travolgono come uno tsunami.
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