9 • Il Diluvio Giuseppini
23 novembre 1997, domenica
Marciare, marciare, e marciare. Era l'unica attività che aveva riempito i giorni precedenti quella domenica. La sola nota diversa da registrare era suonata il giovedì mattina, vibrata dalla incombenza della compilazione del test psicologico. La scartoffia conclusiva. Quando ci avevano condotto nell'ufficio medico, e ci avevano fatto accomodare in un'aula, avemmo un generale déjà-vu scolastico. Il caporale preposto alla distribuzione dei questionari stampati era un giovane allampanato. Trasmetteva serenità. Aveva una presenza scenica tale da far cessare il chiacchiericcio sul nascere. Non ci disse nulla se non di compilare i test.
Test. Una parola enorme. Una sfilza di domande con risposte a scelta multipla, una più idiota dell'altra. Un esempio per tutte: vedo cose che nessuno riesce a vedere; risposte: no, sì, fantasmi. Un'altra domanda invece mi aveva implorato di polemizzare: a chi vuoi più bene, alla mamma o al papà; risposte: mamma, papà, tutt'e due. Santa banana, mi cacciai dritto in un vespaio. Scrissi una contro domanda: se quel papà, o quella mamma, o entrambi, vessano il proprio figlio, o addirittura gli provocano traumi, quel figlio, come potrebbe rispondere a questa domanda?
Al termine del test ero stato l'unico a essere chiamato a colloquio con il dottore. Me lo ero aspettato ed ero preparato. Non ero però preparato a vedermi di fronte una minuta donna, occhialuta e giovane, a impersonare la figura maschile che avevo immaginato di trovare. Era seduta composta. Profumava di ciclamino. Indossava un tailleur bordeaux, soffocato da una stretta giacchetta a vento imbottita. Una differenza notevole con noi militari tutti in mimetica chiazzata di verdaccio.
«Si sieda. Facciamo due chiacchiere veloci.»
Mi accomodai sulla sedia di plastica di fronte la scrivania, dove la sua figura minuta emergeva tra un mare di scartoffie mal impilate.
«Perché ha smesso di rispondere, signor Macrame?»
«Perché a un certo punto ho dovuto smettere.»
«Sia più completo nel rispondere,» disse mentre scuoteva la testa china sulle carte che stava forse leggendo.
«Le faccio un esempio. Io potrei affermare di vedere qualcosa che gli altri non vedono, e passerei psicologicamente inabile al servizio militare.» La dottoressa filtrò lo sguardo tra l'orlo degli occhiali e la frangia martoriata da colpi di sole tutti sbagliati. «Poniamo lei, signora dottoressa. Vedo una donna che non è soddisfatta del lavoro che svolge. Che nasconde lo sguardo sotto una cascata di capelli laccati. Che si barrica dietro una valanga di carte compilate per darsi tempo per cercare di meglio che valutare sommariamente plotoni di ragazzini.»
Qualunque cosa avesse in mano cadde sull'unica porzione di scrivania libera dall'ingombro. Mi fissò senza battere ciglio prima di aprire bocca. «Quindi lei afferma di vedere sì, qualcosa, ma solo nelle persone. E secondo lei, come la chiamiamo questa cosa?»
«Non potere magico, se è quello che cerca di farmi dire. Direi piuttosto: intuito, perspicacia, sesto senso. Roba della quale siamo dotati tutti. Io un po' di più.»
«E alla domanda se vuole bene ai genitori?» inarcò un sopracciglio sbilanciando l'orizzonte degli occhiali.
«È relativo. Certi sentimenti hanno ragione di esistere in determinati ambiti di serenità. E poi c'è sempre chi preferisce uno o l'altro genitore, e la cosa è reciproca da entrambi le parti. È troppo soggettiva la questione da potersi risolvere con una semplice scelta tra opzioni scarne. Mi rendo conto però che tali opzioni sono esche per individuare possibili problemi nelle famiglie dei militari. Mmm non nel mio caso.» Avevo mentito sapendo di mentire, ma non avevo mosso un muscolo del viso. Avevo temuto che scoprisse il mio orientamento sessuale.
No. Forse. Era tornata a scuotere la testa tra le pagine. Era più brava di me a reprimere le reazioni. «Prima che vada, signor Macrame, deve rispondere almeno a questa,» tornò a fissarmi. «Ha intenzione di usare le armi per gli addestramenti?»
«Pratico jujitsu. Onestamente mi ha salvato la vita sin da quando ho intrapreso quest'avventura. Quindi, no. Abbasso le armi. Non fanno per me.»
La dottoressa ondeggiò la testa. «Mi ha sorpreso. Lei, con un carattere così...» scrisse qualcosa sul riquadro del giudizio finale, del quale registrai allungandomi col busto: equilibrato, narcisista e calcolatore. Sorrise. «In mezzo a tanti caratteri labili...» si tappò la bocca e io mascherai un ghigno.
Si affrettò a dire: «Può andare, signor Macrame.» La salutai con il saluto militare, tanto per non sciupare quello che era rimasto della sua serietà.
Il giorno seguente, come avevo intuito, c'era da svolgere l'esercitazione con i fucili al poligono fuori dalla caserma. Insieme a uno sparuto gruppo, ero rimasto solo sul piazzale dov'era partito il bus verde diretto al campo esterno. Persino Lorenzo era salito. Il caporale F. Fiorellini mi squadrò.
«Non ti piacciono le armi?!» parve accusarmi.
Pareggiai i decibel. «Preferisco usare le mani, caporale!»
«Bene! Chi è rimasto a piedi, o marcia, oppure venga con me in palestra!» tuonò D. Nadal, sorprendendomi alle spalle. Sorrisi, gli feci il passo d'obbedienza, e saluto militare. Gli altri, timorosi di chissà cosa avesse in mente il caporale capo, implorarono con lo sguardo di marciare assieme a Fiorellini. Li capivo. Il nostro caporale era un pezzo di pane.
E il caporale capo Nadal, com'era?
Sentivo a pelle che era una parte di me ma non capivo quale. Lì, in quella palestra dalle vetrate che davano alle spalle di una delle casermette, dove marciavano le reclute che avevano rifiutato d'impugnare armi, avvenne qualcosa.
I pochi ragazzi presenti, tutti in tuta da ginnastica verde, alle prese con esercizi fisici, mi diedero la sensazione di trovarmi fuori posto. Era naturale che lo fossi, dato che loro erano veterani a un passo dal congedo. Il caporale capo Nadal mi aveva lasciato solo per pochi minuti, il tempo di recuperare il maresciallo preposto all'istruzione che mi aspettava. Era un uomo piuttosto robusto. Occhi piccoli, celesti, viso arrossato e voce noiosa come la sua lunga lezione teorica sulle tecniche di difesa a corpo libero. Non sapevo che ci fosse pure la lotta tra le nozioni militari. Quando infine mi chiese se volevo provare ad atterrarlo non mi tirai indietro.
Che tonfo, caro Diario! Sperai di non aver rotto il maresciallo. Per fortuna il linoleum era soffice. L'avevo steso perché non sopportavo più di sentire quella voce stridula.
«Dove cazzo l'hai imparato?» ansimò, mentre accettava il mio braccio per rialzarsi. Mi misi sull'attenti.
«Sono cintura gialla di jujitsu, signore!» L'uomo sbuffò.
«Un altro!» disse rivolto a D. Nadal. Poi ritornò a me. «Veditela con lui!» disse scocciato, indicando con il pollice occhioni verdi, e si allontanò borbottando qualcosa.
Quale fu la reazione del caporale capo Nadal la lessi sulle labbra feline, che aveva cercato di domare per non ridere. Mi fece cenno di seguirlo al tappeto degli allenamenti. Imitai la cortesia di togliere gli scarponi.
Mi fece un rapido occhiolino. «Tu sei il secondo dopo me ad aver atterrato il maresciallo Bonanni in tutta la sua carriera.» Intensificò lo sguardo. «Io pratico il Kung Fu, ma sta tranquillo. Alleniamoci solo un po'.»
Caro Diario, fu in quel frangente che avvenne il primo contatto fisico con D. Nadal. Potevo dire: finalmente? Oh, sì, certo che potevo. Ingaggiamo una lotta corpo a corpo a suon di jujitsu e Kung Fu. Un carosello di prese, colpi da addestramento - nulla di cruento - e atterramenti. Lo feci volare a terra tante volte quante lui con me, anche se mai poteva immaginare quanto in alto mi faceva volare col suo sguardo verde prato. Era il suo colpo migliore. Quello che mi indeboliva e mi addolciva. Mi annientava. Maledetto bellissimo D. Nadal.
Gli feci dono della vittoria quando mi atterrò l'ultima volta. Quando sentii sulla schiena il suo peso, e più in giù il bozzo del soldato tra le natiche. Mi arresi soprattutto perché la faccenda stava assumendo toni inappropriati per il contesto in cui stavo vivendo. Dovetti arrendermi anche perché gli altri commilitoni avevano fatto capannello, e i commenti stavano scivolando nelle classiche espressioni scurrili da militare. Mmm, sì, era necessario arrendermi perché ero eccitato.
Non mi dispiacque. D. Nadal era soddisfatto. Io ero, oh, incredibile solo pensarlo, felice. Quando si liberò del suo pubblico mi invitò a bere qualcosa allo spaccio. Un onore per i novellini come me, che non avevano ancora accesso in quel locale destinato alle pause di metà mattina, e tardo pomeriggio dei veterani. Era a tutti gli effetti una sorta di bar, ma privo di alcolici. Mi offrì un posto al tavolino più nascosto e lì parlammo del più e del meno, come fossimo amici di vecchia data. La cosa mi confuse.
E poi arriviamo a registrare questa domenica, Diario caro. Una domenica tormentata da raffiche di vento da piegare gli alberi, che mi avrebbe visto montare la guardia esterna per la prima volta, se il caporale D. Nadal non fosse venuto in camerata a cercarmi perché voleva uscire con me. Come non potevo sentirmi confuso. Alla notizia della mia mansione si oppose. Scambiò due battute con il collega Fiorellini, e poi individuò il mio sostituto. Aveva puntato Lorenzo, che era già vestito in abiti borghesi pronto a scappare via, senonché ebbi il coraggio di scuotere la testa mimando un no. Non volevo rovinare la domenica all'unico ragazzo che mi aveva dimostrato un barlume di amicizia. D. Nadal mi accontentò. Il mio turno di guardia all'addiaccio passò su di un altro del quale non me ne fregava niente.
La previsione che ebbi di camminare sui marciapiedi, sballottato dal vento, con l'affascinante caporale capo fu smentita dal cinguettio improvviso di una BMW 430 nera metallizzata, che si illuminò vicino a me, non appena voltammo via San Rocco, e le mura di cinta della caserma erano confuse tra gli alberi spogli di fine autunno. Lo shock aveva interrotto il discorso che avevamo imbastito strada facendo.
«Salta su,» mi ordinò, e io sondai la situazione. Che intenzioni aveva? Come voleva che mi rapportassi? Lui era il caporale capo e io la recluta. I gradi gerarchici valevano anche fuori dalle mura armate?
«Sissignore!» tuonai.
«Tranquillo!» sorrise. «Quando sei fuori con me chiamami Dione. I gradi sono stronzate che nemmeno volevo.» Mi osservò con gli occhi ridotti a fessure dal vento. Mi voleva più sciolto. Esaudii il suo desiderio.
«E il mio nome è Evaristo. Finalmente un po' di lusso!» esclamai e lui rise. «Questa macchina odora di nuovo. È nuova immagino. Potessi guidare...»
«Hai l'auto?»
«Mi avevano promesso una Lancia se avessi scelto di frequentare la facoltà d'ingegneria edile,» gli spiegai mentre azzardavo a perlustrare le meraviglie del cruscotto.
«E invece?» mi chiese mentre controllava la posizione, le auto in sosta avanti e dietro, e lo specchietto retrovisore.
«Arte. Mi piace dipingere. Un'attività che non mette d'accordo le aspettative dei miei.»
«Ti capisco. Il mio mi vuole a capo delle sue due concessionarie.»
«E invece?» gli feci eco.
«Pasticceria. Mi piace troppo preparare dolci.» Mi sorprese. Provai a non osservarlo troppo, mentre manovrava il macchinone. Ma i miei occhi erano incollati sul suo profilo quando, ignorando gli antichi casermoni d'epoca decorati, con i loro tetti spioventi sotto il cielo sempre più plumbeo, avevamo aggirato già la piazza I Novembre, adornata da una ghirlanda di alberi spogli dall'aspetto lugubre. E lui? Lui parlava e parlava. È stato come fare compagnia a un libro aperto. Di contro restituivo commenti.
Parcheggiò ai piedi di una salita pedonale che non sapevo dove portasse. Udine per me era solo un nome geografico.
«Facciamo due passi.» Era lui a decidere. Era lui che sapeva dove andare. Strinsi al collo la sciarpa e coprii la testa rasata con il cappuccio bordato di pelliccia del giubbotto imbottito argentato. La ciocca che aveva graziato il soldato parrucchiere il primo giorno si rivelò in tutta la sua lunghezza, sbattuta dal vento. Dione ci fece caso ma non disse nulla, troppo preso dal sistemarsi il suo parka aderente. Le mani di entrambi riparate nelle tasche. Ma tutto sommato, ciò che mancava allo scarso comfort climatico lo aggiungemmo scherzando in maniera oscena del freddo.
«Tra un po' mi si staccheranno le palle!» azzardai a commentare.
«È così che hanno inventato le palle di neve!» ribatté lui.
Non c'era molta gente nella piazza scoperta sull'altura che raggiungemmo. Il prato era di un verde smorto. Pochi alberi sempreverdi oscillavano le fronde in una danza costretta dal vento che ululava freddo. Freddo che sentivo aggredire le ossa e intorpidire i piedi. Stavo per rimpiangere le ore di marcia grazie alle quali riuscivo a riscaldarmi, se non avessimo trovato rifugio nel castello della città che scoprii su quell'altura.
«Entriamo! Almeno saremo un po' riparati.»
In effetti era l'unica opzione. Il castello era una struttura armonica, senza torri. Un immenso casermone con tante finestre alte e tetto spiovente. Le facciate color crema, lisce e curate avevano un che d'imponente. All'interno c'era un museo d'arte, una delizia per i miei occhi. Dione doveva essersene accorto della luce che mi investì quando mi sorprese con quella scoperta. Salimmo e scendemmo le scale principesche, navigammo in tutte le sale, e lui mi lasciò commentare le opere che conoscevo. Mi concesse molto spazio, forse aveva compreso il mio bisogno di parlare delle cose che mi interessavano. E lui ascoltava così come avevo fatto io. Almeno fino a quando rimasi senza parole di fronte all'ultima opera che non conoscevo. Occupava da sola una parete intera. Era il diluvio, di Filippo Giuseppini, un pittore friulano del periodo romantico. Un raro caso in cui la prima opera mai prodotta da un artista si rivela essere la più rappresentativa dell'intera carriera. Raffigurava una coppia: una donna in posa elegante e sensuale, che abbraccia un uomo a petto nudo dallo sguardo drammatico. Sullo sfondo il finimondo del diluvio universale. Una immensa immagine potente. Lei, la donna sembrava implorare di fare l'amore, piuttosto che empatizzare con la terribile punizione divina, della quale invece la figura maschile portava impresso sul volto tutta la drammatica potenza. In una parola: un'opera favolosa. Così favolosa da eclissare addirittura i due Canaletto affissi a un lato della porta d'uscita.
Una volta ritornati sotto le sferze del vento, Dione interruppe l'incanto che ancora mi ammaliava. «Hai fame? Conosco un bel posto qui vicino.»
«Non mi ero reso conto fosse passato tanto tempo.»
«Io invece mi sono reso conto che l'arte ti piace proprio, se addirittura ti fa ignorare l'ora di pranzo.»
Scendemmo dal monticello riparandoci sotto il porticato medievale, che portava dritto alla Loggia del Lionello. L'ammirai da lontano. Non volevo rischiare di tediare Dione con un'altra visita artistica. Ci immergemmo nell'affollata via Mercatovecchio, sotto i portici zeppi di vetrine e gente già affannata alla ricerca dei regali di Natale. Terminato il percorso, girammo l'angolo occupato da un bar gelateria, e imboccammo un vicolo cieco in salita dove, sulla destra sopra un piano rialzato fornito di gradini di marmo consunto, c'era La Buca del Castello, o qualcosa di simile non ricordo. Era un locale piccolo. Appena entrati mi sorprese il pozzo di pietra in mezzo alla saletta bar, sopra cui una spessa lastra di vetro appoggiata gli dava l'aspetto di un tavolo piuttosto singolare, dove due coppie erano appoggiate a bere e piluccare qualcosa. Le luci basse intensificavano l'atmosfera medievale, di per sé già ricamata sui muri adorni di chincaglierie d'epoca.
Una cameriera brufolosa puntò Dione, e alla domanda se avessimo prenotato, lui rispose secco: «sì, da una settimana.»
Avevo sentito bene. Aveva prenotato quel posto poco più di una settimana addietro, quand'ancora mi conosceva da a malapena pochi giorni!
Carissimo Diario, Dione Nadal mi stava seducendo! Era ciò che avevano evidenziato le sue attenzioni. A dispetto dell'inverno che ruggiva poco lontano da quel 29 novembre, dentro me cantava la primavera.
Anche l'angolo dove ci accomodammo, un corridoio stretto dove i tavolini erano piccoli, pochi e in fila fino ad arrivare alla portafinestra, inneggiava meraviglia. Ordinò lui, affidandosi alla cameriera che ci portò oltre a stuzzichini di prosciutto San Daniele, dei ravioli alla panna e prosciutto dello stesso tipo. Il tutto accompagnato da del tocai che profumava di mandorle. Nessuno si era impegnato così tanto per me.
Quando arrivò il languore del dolce mi sconsigliò di domandarlo, non lo preparavano buono come lo era stato tutto il resto. Aveva in mente di andare al bar gelateria che avevamo scartato prima. Rimasi titubante. Il gelato col freddo che faceva? Non potevo protestare, sarebbe stato sgarbato. Protestai però al momento del conto, ma lui no, era deciso in modo irremovibile a pagare. Ero sul punto di saltargli addosso e baciarlo a mo' di respirazione salvavita. Evitai.
Abbandonato quel teporoso ambiente, ci infilammo nel dehor del bar gelateria esposto alla mercé dei passanti. Era insolitamente più caldo del locale lasciato alle spalle. Cominciai a capire la sua scelta. Il caldo ci costrinse a togliere i giubbotti. Dopo una decina di minuti arrivò il cameriere che indugiò con lo sguardo su noi, un po' prima di completare le nostre ordinazioni. Era avvinto da Dione. Lo capivo. E fissava il mio petto che emergeva a dispetto dello spessore del maglione. Lo capivo anche per questo.
Consumammo le monumentali coppe di gelato più velocemente di quanto avevo immaginato, e insieme al caffè fumammo pure. È stata una uscita perfetta, favolosa. Sentivo che nulla poteva rovinare la nostra complicità, tant'è vero che accettò che pagassi io stavolta il conto. Tutto aveva preso una piega fantastica. Rimanemmo seduti ancora un po'. Era evidente che dopo aver riempito le pance era giunta l'ora di svuotare il sacco. Iniziò lui tra uno sbuffo di fumo e l'altro.
«La tua compagnia è molto piacevole,» disse arrossendo.
«Anche la tua, mi piace,» mi affrettai a rispondere.
«Eri quello che mi ci voleva, dopo che la mia ragazza mi ha lasciato. Aspettare un'altra settimana è stato chiederle troppo. Mi sto per congedare. Lei poteva essere l'unica ancora. Ma i rapporti a distanza non funzionano.»
Avevo lo sguardo fisso su lui mentre mi riempiva la testa di aneddoti da perfetto fidanzato con la sua ragazza. Cercai di non indurire il volto ma non ci riuscii. Mi venne fuori dalla bocca un: «mi dispiace,» l'espressione di circostanza più simile al vomito liberatorio dopo aver alzato troppo il gomito.
«Grazie,» rispose sentito. «Ma questo è niente. Una ragazza che va via lascia la porta aperta alla prossima,» rise amaro. «Diversa è la storia quando a mancarti è l'unico fratello che avevi.»
«Hai perso un fratello?» mi accigliai. Non riuscivo a seguirlo.
«Mio fratello maggiore Mauro, era destinato a prendere le redini delle concessionarie. Era stato educato sin da piccolo per fare quello, ma anche lui aveva altre aspirazioni. Aspirazioni che lo avevano portato a chiudersi in se stesso. Il peggio è stato che i nostri genitori sono stati sordi e ciechi al malessere che gli avevano procurato, al punto che Mauro si è tolto la vita.» Fece un gesto col collo facendomi intuire la modalità del suicidio. Cercai di non ripetere "mi dispiace". Cercai di non pensare al colpo che stavo incassando. Cercai di. Inutile.
Sentivo di stare sborsando una cifra spropositata in termini di cuore per il biglietto di una pièce teatrale che la mia mente aveva voluto vedere, tanto promettente quanto ingannevole. Una illusione. Ecco cosa si era rivelato Dione davanti ai miei occhi, ora lucidi e arrossati. Respirai. Mi imposi di respirare forte e di dire qualcosa. La voce mi uscì strozzata.
«Dev'essere un dolore inimmaginabile perdere un fratello. Non conosco i termini adeguati per esprimermi, sono desolato. Ci vuole una grande forza per riuscire ad andare avanti. Ti am_miro.» Per un soffio non mi tradii. Allungai un braccio sul tavolino più per la stanchezza causata dalla delusione, che per la ricerca della sua mano, che non tardò a posare sopra sussurrando: «grazie.»
Era un ragazzo tormentato in cerca di un amico. Lui era venuto a chiedermi solo questo? Voleva solo che fossi un amico? Non avevo tempo sufficiente per riflettere. Lui aveva già deciso la luce con la quale illuminarmi. Non avevo tempo nemmeno per chiedermi se sarei stato all'altezza. Ma in fondo, cosa avrei perso più di quanto già perso. Sì, caro Diario, avevo ancora degli spiccioli di emozioni da spendere, perché negarglieli? Tanto stava per congedarsi e non l'avrei mai più rivisto. Mi feci male da solo, era giusto che quel conto lo pagassi soltanto io.
Per il poco tempo che gli sono stato vicino, posso ammettere: quant'è stato bello stare insieme a Dione.
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