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6 • Tranelli

26 giugno 2005

Elvira era soddisfatta. Assumere Evaristo e Dione, aveva significato stravolgere la normale anarchia alla quale i nani l'avevano abituata. Certo, Evaristo era un tantino distratto, e a volte chiudeva la cella frigorifera con dentro Cesira. Va bene, tutti i nani a turno avevano trascorso un paio d'ore al fresco contro la propria volontà. Ma in fondo, la cucina era più in ordine, le patatine fritte non sapevano più di rancido, il ketchup non era più marrone, le finestre della sala iniziavano ad aprirsi di giorno, e siccome ai clienti piaceva l'allegria, i piatti venivano annunciati con battute di spirito e un comico augurio di non finire in ospedale. Somigliava un po' a quello che succedeva al ristorante Cencio la parolaccia di Roma, dove i clienti, consapevoli, venivano insultati di proposito dai camerieri. Soprattutto pagavano per essere insultati.

Persino Mara era diventata puntuale sul lavoro. Sì, le piaceva la compagnia dei ragazzi, ma il motivo della sua puntualità aveva un bel paio di occhi verdi. In settimane di convivenza a servire ai tavoli non riusciva a fare a meno di dimostrarsi disponibile con lui nonostante sapesse fosse gay. Ma sentiva che era come lottare contro i mulini a vento. Cominciava a maledirsi per questo. Tuttavia Dione a volte sembrava cedere alle sue carezze, ricevute con finta distrazione mentre scherzava con lei. Mara ignorava che lui avesse intuito la sua attrazione, e che questo era il tema principale che confidava a Evaristo ogni sera a casa prima di andare a letto. Nessuno dei due sapeva però che il circolo vizioso nel quale vorticavano aveva come autore la mente criminale di Evaristo.

"Perché mi sono andata a innamorare di lui? Non per gli occhi chiari, o per la statura che sognavo di avere, o per quei fianchi stretti e i muscoli evidenti. No. Non solo. È un ragazzo attento. Soprattutto è attento al suo Evaristo. Sta sempre insieme a lui. Sono inseparabili, e la cosa mi riempie di tristezza. È gay. È gay."

«Forza! Oggi tocca alla tappezzeria!» Il tuono di Evaristo la destò dalla malinconia.

«Quanto sei volenteroso, Eva! Bene, mi piace!» Disse allegra Elvira, seduta alla cassa.

«Arrivo!» rispose Dione dalla cucina. Lasciò le faccende e corse fuori. Ma Evaristo stava già sfilando davanti a Elvira con un lungo tappeto arrotolato sulla spalla. La donna apprezzò la prova fisica del giovane, assieme al culo che si muoveva, sodo come roccia, strizzato nei soliti pantaloncini.

«Questi tappeti sono leggeri senza un cadavere dentro!» esclamò Evaristo, ed Elvira scoppiò a ridere.

«Che mattacchione sei!»

«Menomale che scherza», disse Mara accennando un sorriso.

«E chi lo sa!» La voce, soprattutto la carezza di Dione sulla spalla, la fece sussultare dai brividi. "Che casino! Lo voglio! Lo voglio! Ma non posso mettermi tra lui e l'altro. È ridicolo. Io sono ridicola! Sospirare per un gay. Ma cosa sono diventata? Una frociarola? Ammesso riuscissi a conquistarlo, che persona sarei a dividere una coppia per la mia felicità? No. Non posso. Eppure..." Il tormento di Mara trovò tregua la sera, quando Elvira chiamò a raccolta il personale per la consegna dello stipendio.

«Fantastico, così potrò comprarmi i trucchi. Li ho finiti da un pezzo,» annunciò la ragazza dopo aver intascato l'assegno.

«Menomale, finalmente potremo sistemare la caldaia del bagno!» esclamò vittorioso Dione.

«Oh! Finalmente del porno fresco!» esultò Evaristo.

«Oh, Eva! Mi piace quando fai lo sporcaccione!» ridacchiò Elvira. «Ma ditemi, dai documenti che mi avete dato, siete uno di Lecce e l'altro di Verona. Come avete fatto a trovarvi? Chat on-line per porcelli?» La domanda suscitò curiosità anche in Mara, la quale, come un effetto domino, si chiese come mai non amoreggiassero essendo fidanzati.

«Al militare. Ci siamo conosciuti durante il servizio di leva. Lì abbiamo scoperto...» Dione non sapeva come proseguire la farsa, così con lo sguardo passò il testimone a Evaristo.

«Abbiamo scoperto di saper stare bene insieme.»

«Tu sei sempre molto sibillino,» ribatté Mara, «non vi ho ancora visto baciarvi.» Socchiuse gli occhi.

«Siamo gay discreti,» ribatté Evaristo. «Andiamo Dione, dobbiamo fare quella cosa.»

«Quale cos_» Evaristo intensificò lo sguardo. «Ah, sì quella cosa!» Non c'era nessuna cosa da fare e Mara lo intuì.

«Domani è giorno libero, vi invito a trascorrere la giornata con me!» disse la ragazza.

«Offri tu il pranzo?» Domandò Evaristo, e Dione gli diede una gomitata allo stomaco.

«Non dargli ascolto, offriamo noi!» rettificò con molto entusiasmo Dione.

Mara li vide allontanarsi dalla tavola calda scherzando e spintonandosi l'un l'altro. «Quanto sono affiatati,» bisbigliò languida.


13 novembre 1998

Quella mattina scoprii d'aver dato per scontato la vita che avevo condotto da civile.

Ah, quando ancora vivevo in pace a casa, e papà o mamma venivano a bussare in camera mia, e fingevo di dormire in attesa di quella carezza, di quel gesto segreto che mi obbligava ad alzarmi.

Quanta serenità avevo ignorato! Lo capii, sì, caro Diario, al primo giorno in caserma, quando questo sogno lontano venne demolito dall'urlo collettivo di una dozzina di caporali istruttori: «SVEEEGLIAAA! È L'ORAAAA!» accompagnato da piedi sbattuti a terra, urla tipo ruggiti di dinosauri e il clangore delle ante degli armadietti di metallo sbattuti con violenza. Un trambusto paragonabile all'allarme di un cataclisma in atto. Il tutto alle cinque e mezza di mattina. Avevo messo in preventivo questa gentile levataccia, però non riuscii lo stesso a evitare di scattare malamente dalla branda superiore dov'ero, e precipitare di faccia a terra sul pavimento di mattoni rossi. Eh, governare di colpo ottanta chili di muscoli con la morsa del sonno ancora feroce, non è uno scherzo.

Mentre realizzavo dov'ero finito, un paio di stivali batterono il suolo vicino al mio naso. Una voce rabbiosa mi intimò di fare presto il cubo, ovvero la branda. E di chi era quella voce? Di occhioni verdi. Ricordai la sua faccia incazzata prima di svenire dal sonno la sera prima. Prevedibile coglione. Mi sollevai da terra. Risalii la lunghezza delle sue gambe fasciate dalla mimetica, che riempiva in maniera tonica, devo ammetterlo. E riempiva in modo soddisfacente pure tutto ciò che si trova in mezzo al bacino. La patta sembrava esplodere. Più in su, un petto adeguato faceva da ripieno alla casacca. Sulla pettorina c'era scritto D. Nadal. Era lui. Era fico. E fico era il volto che potevo osservare senza dover né alzare né piegare la testa. Eravamo pari in altezza. Peccato che quella bocca dal taglio felino mi stava vomitando ordini a raffica. Era ancora piccato dal mio sospiro in risposta alla sua sfuriata della sera prima. Non dovevo aprire troppo gli occhi per vedere che era come una scimmia dispettosa che ha subito un dispetto.

«Facciamo pace?» azzardai per farlo smettere di tuonare. Menomale che aveva un alito fresco, altrimenti i miei pugni avrebbero preso in mano la situazione per mettere a tacere il rincaro di urla. Santa banana, gli vedevo l'ugola e per poco le corde vocali. Se avessi avuto una stecca da otorino gliel'avrei potuto infilata nella gola e lui l'avrebbe ingoiata senza accorgersene.

Da quel momento il caporale D. Nadal mi stette col fiato sul collo. Accidenti, me l'ero fatto nemico. Mi fece rifare tre volte la branda, secondo lui sempre sbagliata. Ebbe almeno la decenza di voltarsi quando mi ordinò di indossare la mimetica. Accanto al mio armadietto notai la presenza del biondino toscano Lorenzo, che mi strizzava gli occhi lacrimosi dalle risate che gli avevo suscitato. Gli feci l'occhiolino e una smorfia solidale. «Prendi rasoio, schiuma da barba, sapone liquido, dentifricio e spazzolino.» bisbigliai, e lui intese subito.

Il reparto lavabo era una stanza in penombra. Sulle facciate c'erano i lavelli, ognuno con uno specchio angusto. Erano pochi per la ressa che c'era. I rubinetti a manopola avevano lavato il viso di tutti i soldati della storia italiana. Un putiferio di ragazzi si accalcava per conquistare il proprio turno. Caporale D. Nadal era la mia ombra. La sua voce profonda sortiva l'effetto del più potente dei caffè. Che tortura. E soprattutto che tortura radersi da quella mattina in poi tutti i giorni per il corrente anno. Non attesi il mio turno, mi lanciai nella mischia con rasoio, schiuma da barba, dentifricio e spazzolino. Spintonai lo sfortunato avanti a me senza dirgli una sillaba. Quello mi guardò truce, intento a rispondere fisicamente alla mia prepotenza. Ma ci pensò la presenza del caporale D. Nadal a farlo desistere dalla rappresaglia. Tanto ci pensava lui a inveirmi contro.

«Adesso voglio vedere come farai a lavarti la faccia senza sapone!» mi disse, e aveva ragione. Non l'avevo preso. Ovvero, non l'avevo preso a posta per ingannarlo, per constatare se occhioni verdi fosse un tipo sveglio. Era alle mie spalle, gli sorrisi fissandolo di riflesso nello specchio avanti a me. Socchiusi la bocca e sul palmo della mano feci colare dalle labbra il sapone liquido che avevo ingollato prima, quando in camerata mi aveva dato le spalle mentre mi vestivo. Sgranò gli occhioni verdi e ammutolì.

Avrei voluto essere il primo a terminare le faccende preliminari, ma mi dovetti accontentare di essere il quarto. Infatti in corridoio, in posizione composta, altri tre ragazzi erano già pronti. Riconobbi tra loro Scampoli. Era della mia camerata. Un tipo alto più di me, con più voglia d'intraprendere la carriera militare. Difatti la sera prima aveva ricevuto lodi dai caporali per la corretta esecuzione del cubo, e per l'ordine col quale aveva sistemato il suo angolo.

Per quanto Nadal avesse voluto farmi vedere i sorci verdi, imponendo la sua presenza e rendermi la vita un inferno, il caporale Fiorellini reclamò la sua autorità in quanto capitano della squadra 6b. Così, in fila e in coda al resto delle altre squadre, scendemmo dalla casermetta numero cinque e ci dirigemmo al refettorio per la colazione a base di latte, cioccolato o tè, rigorosamente annacquati, e biscotti così duri da poter essere confusi con assi di parquet in miniatura.

Poi però Nadal tornò alla ribalta quando finita la colazione iniziò il primo autentico corso di marcia militare. Chilometri di marcia sbattendo i piedi a comando e con la pretesa di stare al passo e a tempo. Nei minuti di pausa i caporali istruttori insegnavano le pose: attenti, riposo, saluto militare e tutta la gerarchia dei graduati. Un inferno anche senza la rappresaglia di Nadal, che comunque non si fece attendere. Infatti, approfittando dello scarso livello della mia squadra, suggerì a Fiorellini di marciare sulla via del tacco. Si trattava di uno sterrato sassoso situato nella periferia est della caserma. Un lungo tratto dove sbattemmo i piedi contro un tappeto di sassi grossi e squadrati fino a sentirli formicolare dal dolore.

«È una merda!» recitavano i caporali quando non andavamo a tempo e il "passo" era simile a una scarica di mitragliatrice, cioè sempre, anche quando non era vero. E come puoi immaginare, Diario carissimo, D. Nadal quella via del tacco ce la fece percorrere fino all'ora di pranzo. Stronzo. Bello ma stronzo. E santa banana, quel ragazzo mi piaceva sempre più.

Quello stesso giorno mi tolse la mezz'ora di pausa concessa a metà pomeriggio da trascorrere allo spaccio. Mi costrinse a rimanere solo con lui in quella via desolata, nonostante il parere contrario del mio capo Fiorellini. Non me n'ero accorto, vedendo i capannoni abbandonati sui lati della strada sassosa, quanto fossimo al riparo da occhi indiscreti. Immaginai volesse impartirmi la classica lezione riservata agli indisciplinati. Un atto di prevaricazione maschile. Mi aspettavo solo che mi sottomettesse in qualche modo, per farmi capire chi era il maschio dominante. Mi misi sull'attenti.

«Hai le palle, Macrame. Riposo.» Mi sorprese, ma non riuscii a rilassarmi. Ero in attesa di un qualche tipo di rappresaglia, ma non avvenne nulla. Anzi. «Ti va?» Si sbottonò la cintola e io strabuzzai gli occhi. "Che banana incoronata succede adesso?" Tirò fuori il suo pacchetto di sigarette e me ne offrì una. Rimasi irrigidito. Tutto, irrigidito. La accettai per non offenderlo. Fumammo insieme, in piedi senza dire nulla. Non avevo il coraggio d'interrompere quel silenzio assordante tra noi. Il cuore mi scoppiava nel petto. Non sentivo più nemmeno freddo.

Quella parentesi languì nel segreto della via del tacco. Ad attendermi c'era il resto del pomeriggio d'istruzione di marcia. Al ritiro in camerata tutte le squadre erano distrutte. I militari avanti a me camminavano lungo il corridoio come degli sciancati. Come si lamentavano poi... E io? Oh, per favore! Mi facevano male i piedi ma mai avrei dato soddisfazione a D. Nadal di vedermi ridotto a un catorcio umano.

L'alone di ambiguità non cessò di pesare su me e D. Nadal. Lui approfittava di tutti i momenti possibili per appartarsi assieme a me, con la scusa della sigaretta. E poi c'era dell'altro. O forse ero io a voler vedere oltre al suo atteggiamento. Come potevo non confondermi. Una sera come tante, prima di andare a letto, mi stavo svestendo per andare a fare la doccia, quando un volgare fischio di apprezzamento mi sorprese.

«Lo sai che hai un culo da frocio?» Mi giro e chi mi ritrovo? Il piccoletto romano incontrato alla stazione di Bologna. Si indicava in mezzo alle gambe facendo ridere i ragazzi della mia camerata. Feci una smorfia e lo ignorai. Quello però, approfittando dell'assenza del caporale Fiorellini, rincarò la dose d'insulti. Sapevo che di quel nanerottolo non c'era da fidarsi. «Di un po', fai ginnastica con i ferri? Vieni qui che ne ho uno bello tosto tutto per te!» sghignazzò osceno. Anche gli altri risero trascinati dalla situazione. Perché sai, caro Diario, quando in un gruppo un individuo prende di mira un altro, il resto del branco lo imita per solidarietà tossica. Si chiama bullismo; al militare nonnismo, ed era un atto severamente perseguibile penalmente.

Decisi di rigare dritto per i fatti miei, senonché quello si avvicinò alle spalle e mi tastò il culo. Che mano viscida. «L'hai voluto tu,» bisbigliai prima di voltarmi di nuovo.

«Tu, sei venuto dalla tua camerata fino qui per toccarmi il culo? Dimmela tu una cosa, ti piaccio così tanto? Guarda, per me va bene... se ti metti in punta di piedi mi arrivi giusto giusto...» misi i pugni sui fianchi e gli mostrai per bene l'uccello. Il silenzio gelò l'euforia generale. Tutti tacquero. I volti tornati seri e depressi. «E questo vale per tutti!»

Il piccoletto non ci vide più. «Bastardo! Adesso ti faccio vedere io!» Mi corse incontro convinto di potermi colpire in qualche modo. Ciò che avvenne per un soffio non sfuggì al mio controllo. Fiorellini entrò richiamato dal trambusto e vide la mia mano stretta sul collo del piccolo imbecille. La testa schiacciata contro il muro. Il caporale mi chiamò un sacco di volte. Lo sentivo. Ma non riuscivo ad allentare la presa. Poi una mano si posò sul mio polso. Era la mano del caporale D. Nadal. Vidi i suoi occhi seri. «Lascialo perdere. Non ne vale la pena.» Ritornai lucido. Il bastardino scivolò per terra massaggiandosi il collo. Minacciava vendetta anche dopo aver ricevuto una settimana di punizione a lavare i cessi. E io? Potevo passarla liscia? No. D. Nadal punì anche me con una settimana di guardia notturna, a partire da quella stessa sera.

Mi ordinò di prendere tutto il necessario per fare la doccia. Almeno un minimo di considerazione me la concesse. Mi ordinò di prendere anche il cambio e di seguirlo. Ed ecco che ritorna l'alone di ambiguità. Che intenzione aveva? Controllarmi mentre mi lavavo? Lo seguii lungo il corridoio, però invece di voltare a sinistra dov'erano le docce, imboccò a destra. Con un gesto della mano mi fece cenno di seguirlo nonostante gli avessi fatto presente l'errore di direzione. Si fermò davanti a una porta. Non era una porta qualsiasi. La aprì e mi fece entrare. Era la cameretta privata dei caporali! Ce n'erano sei dentro. Mi misi sull'attenti. Già immaginavo l'incubo che mi attendeva. Mi salutarono tutti. Il ragazzo con gli occhiali, seduto a un tavolo difronte a un computer, alzò la testa e mi sorrise. Gli altri cinque, alle prese con altri video sparsi ovunque, mi riservarono la stessa cordialità. Ero sempre più confuso.

«Riposo, tranquillo!» disse D. Nadal. «Di là.» Indicò una porta interna. «C'è il bagno. Vai a lavarti.» Obbedii. Ero teso. Nemmeno la doccia, una vera doccia confortevole come quella riservate ai caporali istruttori riuscì a rilassarmi. Mi rivestii con la tuta verde cachi e ritornai al cospetto dei bassi graduati.

«Quando inizio a montare la guardia?» mi rivolsi a D. Nadal.

«Mai.» Fece l'occhiolino. Si sporse dal tavolo dov'era seduto e mi indicò la sedia vuota. Mi sedetti. Mi sentivo le spine sul culo. Mi offrì una manciata di cazzate dolci che non accettai. Uno perché non ne mangio, due perché non sono abituato a snak industriali. Avere un certo tono muscolare comporta alcune rinunce. Non insistette. Tirò fuori un mazzo di carte napoletane e mi invitò a fare una partita a scopa.

"Tutto qui?" Mi domandai. Eh, sì. Tutto qui. I ragazzi mi subissarono di domande, ed erano così gentili, forse ruvidi, ma comunque a stento li riconoscevo. Fuori, durante le esercitazioni sembravano delle belve pronte ad aggredire qualunque novellino per qualsiasi sciocchezza in nome del rigore militare. Lì in quella cameretta vedevo solo ragazzi come me. E con loro trascorsi sette serate, l'arco di tempo della mia finta punizione.

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