4 • Sono ciò che dici, ma tu non credermi
11 e 12 novembre 1997
Se pensavo che la faccenda con i loschi individui fosse finita, mi sbagliavo.
Approfittando della sosta in stazione di Bari, in attesa della partenza per Bologna, scesi dal treno per sgranchirmi le gambe. Non avrei avuto altre opportunità in seguito, me lo figuravo. Perciò, seguendo la lunghezza del convoglio, diedi un'occhiata agli altri binari. C'era ancora poca gente. L'intuito mi portò a individuare gli altri futuri militari come me. Erano tutti accompagnati da genitori, amici. Che ribrezzo le feste che facevano. Soprattutto l'arroganza dei futuri militari, con quell'aria da uomini vissuti e la sicurezza ostentata, mi faceva prudere i pugni. Tuttavia non mi distrassi più di tanto perché mi accorsi d'esser pedinato. Finsi di non accorgermene e sostai davanti a un insolito altarino dedicato alla Vergine. Simulai devozione accarezzando il piede della Signora che pesta il serpente. In quell'attimo percepii la presenza di più di una persona.
«Scusa! Tu! Voltati!» Mi voltai e scoprii che a parlarmi era un carabiniere accompagnato dai ceffi che avevo sistemato prima. "Fantastico, mi hanno seguito."
«Posso fare qualcosa per voi?» La voce mansueta. Poi mi portai una mano sulla bocca inquadrando i ladruncoli. Finsi sconvolgimento.
«Metti le mani in alto, devo perquisirti!»
«Questa è bella!» esclamai. «Vengo appena derubato da questi signori e lei pretende pure che mi estorcano il resto!?» mortificato, indietreggiai di mezzo passo. Indietreggiai soprattutto perché l'uomo in divisa potesse riscontrare la differenza tra i miei abiti e gli stracci dei ladruncoli. Il carabiniere, che non poteva avere trent'anni, parve essere sufficientemente accorto da capire di trovarsi dalla parte sbagliata della barricata. Fissò il terzetto, gatto, volpe e cretino balbettante. Annuì mezza volta. Portò poi due dita alla bocca e cacciò un fischio. I tre balordi che avevano avuto la faccia tosta di denunciarmi, iniziarono a insultarmi e al mio ghigno di ripicca risposero avventandosi contro. Ma non fecero in tempo a sfiorarmi. Altri tre carabinieri di ronda, richiamati dal fischio del primo, raggiunsero in volata il nostro binario scavalcando gli altri, e immobilizzarono quegli inteligentoni. Bravi ragazzi. È così che dovrebbe funzionare la legge.
«Ricorda quanto le è stato sottratto? Le hanno tolto degli effetti personali, di valore?» Avevano cominciato a darmi del lei.
Mi venne un'altra idea; la stessa di prima. «No. Di oggetti di valore no.» Controllai l'Omega che avevo al polso, il Cartier al collo e i bracciali. «Sa, io devo fare il militare. Devo arrivare a Udine, e le quattrocentomila, o forse più lire che avevo mi servivano...» sussurrai vergognoso. In un batter d'occhio il quartetto di carabinieri spremette dagli sfortunati ladri da strapazzo ben seicentomila lire, che mi consegnarono raccomandandomi di prestare maggiore attenzione da quel momento in poi.
«Terrò gli occhi bene aperti signore. Vi ringrazio di cuore. Dirò una preghiera alla Madonna anche per voi, signori,» promisi facendo il segno della croce dopo aver intascato il secondo malloppo.
«Faccia buon viaggio,» disse qualcuno. Che fine fecero i delinquenti? Mi parve d'aver inteso che li avrebbero portati in centrale. Uno suggerì che avrei dovuto seguirli per la redazione del verbale e cose così. Ma l'altro gli disse: «deve fare il militare, non aggiungiamo altri casini, povero figlio.» Io mi voltai e sorrisi alla statua. Finsi altra devozione all'immagine sacra in attesa che svanissi dal raggio di vista della bizzarra compagnia, e tornai ad accarezzare il piede della Signora. Forse un piede santo ce l'aveva messo sul serio. Anzi, sicuramente, perché poco prima che mi avessero raggiunto per interrogarmi, dietro la statua avevo nascosto il primo malloppo, che in quel momento stavo recuperando. Sarebbe stato alquanto imbarazzante se perquisendomi il carabiniere me l'avesse trovato addosso. Chinai il capo. «A buon rendere, Maria.»
Caro Diario, pensi sia stato un incosciente?
Hai ragione. Il pensiero che quei tipacci potevano essere armati di pistola mi assalì un attimo dopo che il treno aveva ripreso la corsa. Ho paura delle armi. Avevo gli occhi sbarrati. Avevo avuto fortuna, sì, però sarebbe bastato un piccolo capriccio del destino e il mondo avrebbe fatto a meno di un altro gay. Gagliardo, per niente. Ancora meno gagliardo era stato trascorrere sei ore di viaggio di notte, con la voglia di dormir sopra alle sventure, ostacolato dal rumore infernale dello sferragliare delle ruote sulle rotaie, prima di giungere a Bologna. Ero immerso in un frastuono costante. Vedevo la cabina riempirsi e svuotarsi in continuazione. Gente di ogni estrazione che viaggiava chi per lavoro o per andare a scuola. Per ingannare il tempo mi sforzavo di scambiare convenevoli con qualche passeggero, ma senza stringere amicizia con nessuno. Sarebbe stato solo uno spreco di energie. Mi distraeva di più fissare le antiche stampe delle città italiane affisse sopra le testiere dei posti a sedere. Riconobbi Pisa dalla Torre pendente, Venezia dal ponte di Rialto e Genova dal porto. Oh, che fastidio poi quando il treno s'infilava nelle gallerie. Mi si tappavano le orecchie. Che incubo.
Verso le tre del mattino gli altoparlanti gracchianti annunciarono la fine corsa a Bologna. Il treno si spopolò lentamente perché eravamo tutti assonnati. Ci pensò la gelida Bologna novembrina a farci dimenticare il debito di sonno. Faticai non poco a respirare quell'aria ghiacciata e a trascinare i bagagli per cercare il convoglio diretto a Venezia Mestre. Per fortuna, e anche finalmente, una nutrita folla dall'espressione smarrita mi suggerì d'aver trovato altri ragazzi che come me stavano raggiungendo una meta militare. Sospirai. Cominciavo a sentirmi uno stupido tutto solo. La mia supposizione trovò conferma. Stavano tutti al primo binario col naso rivolto al tabellone luminoso in attesa che comparisse il numero del binario del treno diretto a Venezia Mestre.
«Tutti a fare il militare?» esordii, e mi risposero in modo affermativo ma con scarso entusiasmo. Li capivo. Pochi cercarono il confronto visivo occhi negli occhi. I più audaci erano quelli che riuscivano a vedermi senza alzare la testa; perché curiosamente c'erano un sacco di ragazzi che a occhio superavano di poco il metro e mezzo di altezza. Poverini, erano in soggezione. Tranne uno. Un tipetto dalla camminata da calciatore: cosce aperte e molleggìo sulle ginocchia. L'espressione da micro-uomo vissuto mi suggerì di tenerlo sott'occhio. Dall'accento era di Roma. Stavo scambiando un paio di parole con il ragazzo più aperto, ma quel ragazzino si infilava in ogni battuta. Era molesto, ma non lo diedi a intendere, piuttosto lo assecondai, anche se trovavo più interessante qualsiasi cosa meno che lui. Per Dio, mi fece sentire nostalgia dello sferragliare delle rotaie. Menomale che a un certo punto apparve il numero del binario che stavamo aspettando e così, tutti in ordine sparso, ci avviammo verso esso. Ero già stanco morto quando raggiunsi il mio posto. Condivisi la cabina con un ragazzo toscano. Aveva il sorriso naturale disegnato sul viso, anche se non era allegro. Tuttavia, come gli altri che avevo visto, era in forma, non era spossato. Era evidente che il viaggio per lui e per gli altri era appena iniziato. Io ero già da otto ore in carreggiata. Ciò voleva dire che non avrei trovato nessun conterraneo. Era quello che stavo pensando mentre assecondavo la voglia del toscano di rompere il ghiaccio. Al primo cenno di silenzio però mi alzai con la scusa di andare in bagno.
Il treno stava per partire. Percorsi il corridoio e mi sporsi allo sportello per approfittare degli ultimi minuti per fumare una sigaretta, quando notai un ragazzetto che trainava con la forza della disperazione dei bagagli. Era basso pure quello. Sospirai per lui. Chissà cosa mi spinse a scendere dal treno per aiutarlo. Ma il mio gesto da buon samaritano arrivò solo alla salita, per il resto lo lasciai in balia di sé stesso. Non risposi nemmeno al sentito ringraziamento che mi elargì. Consideravo inutile legare con chicchessia dal momento che non sapevo cosa dovevo aspettarmi. E poi magari nemmeno avrei rivisto nessuno di quei ragazzi una volta arrivato a Udine.
E finalmente all'alba scendemmo a Venezia Mestre a prendere altro freddo, stavolta pure umido. Il convoglio era riscaldato in modo eccessivo, perciò lo sbalzo di temperatura fu scioccante. Ma ci attese una sorpresa: il treno successivo fermava a Monfalcone, dove dovevamo prendere la coincidenza per la stramaledetta Udine. Che qualcuno mi uccida! Stavo per imprecare quando arrivai all'ultimo treno. Ero peggio che esausto, perciò immaginai un'accoglienza in caserma a base di colazione ipercalorica, latte fresco e cioccolato incandescente. L'avrei gradito. Oltretutto erano pure le nove e un quarto quando vidi per la prima volta nella vita Udine. C'era il sole e l'aria era frizzante oltreché polare. Non era come a Gagliano Leuca, dove il giubbotto era un'opzione trascurabile persino in pieno inverno. Ma il freddo ero destinato a sopportarlo, al contrario di tutto il resto.
Come un gregge in transumanza, uscimmo dalla stazione a fatica, urtando anche senza volerlo l'altra gente che cercava di entrare mantenendo una certa distanza. Una volta fuori rimasi deluso. Chissà cosa mi aspettavo di trovare oltre una trafficata strada a doppia corsia, una rimessa di autobus tutti blu dall'altro lato dell'asfalto. A sinistra non avevo idea di cosa ci potesse essere, ma a destra notai l'orizzonte cittadino diviso da antiche mura medievali. Intuii da ciò che la città friulana era parecchio più piccola in origine. Ero curioso di saperne di più, ma un urlo che non apparteneva al genere umano prese a calci i miei timpani. Chi caspita era a gridare così? Un tizio in mimetica alto e grosso, con il grado di caporale, appena sceso da un autobus verde polvere. Era accompagnato da altri cinque individui più o meno imponenti.
Ci girammo tutti. Subimmo la violenza verbale di quell'energumeno come degli allocchi. Ci intirizzimmo più a sentire quello, che non per il vento freddo così forte da farci traballare sul posto.
«Sappiamo chi siete! Ve lo si legge in faccia che siete militari, prima ancora di capire cosa cazzo significa!» Buongiorno pure a te, avrei voluto dirgli. «Persino i civili vi hanno tenuto a distanza!» Caspita, era vero. La gente in stazione si allontanava manco fossimo appestati. «Da questo momento in poi le cose saranno così! Siete militari e sgobberete fino alla fine...- starnutì -» dei nostri giorni amen, supposi. «Della leva!» aggiunse una imprecazione. E poi un'altra. E... così via, e tra un francesismo e una licenza volgare, ci indicò di mettere le valigie nel portabagagli dell'autobus verde. Ero frastornato, non solo per il sonno mancato. Mi sembrava tutto così irreale, anzi, fuori dimensione. Surreale.
Come fossimo bestiame da portare al macello, ci caricarono sul mezzo. Attorno a me occhi fuori dalle orbite e bocche serrate. Tutti soggiogati dal subdolo sistema della voce grossa. E io, lo stavo subendo? Dalle mie parti si urla tutto il giorno. Si sentono pure i vicini di casa discutere in modo animato su chi dovesse apparecchiare la tavola o portare fuori il cane. In quell'autobus aspettavo soltanto che qualcuno mi alzasse le mani. Incavolato com'ero per il sonno mancato, sarei stato soddisfatto nel rompere le ossa al bestione, che solo per poche sfumature non ci inveiva contro. Ecco. C'era un limite nella volgarità che quello vomitava. Non lo oltrepassava mai. Ciò mi fece intendere che fosse tutto studiato. Un sistema collaudato, magari l'avevano addestrato apposta a emettere scurrilità atte a intimorire i novelli militi.
Il ghignare di sottofondo degli altri cinque veterani mi confermò l'ipotesi, poiché si diedero il cambio a emettere altre scempiaggini verbali. Si stavano divertendo, gli stronzi. Però alla fine il gioco era solo di verbo, non di mano. Non si sarebbero avverate situazioni estreme. Giocavano solo a fare la voce grossa. Mi sistemai su una seduta centrale, dove gli altri sedili erano di fronte come un piccolo salottino. Avendo inquadrato la situazione mi ero calmato, diversamente dai miei vicini che si tormentavano le mani terrorizzati. Lo trovavo inumano incutere terrore. Compresi che quella situazione non poteva essere affrontata con i pugni. Purtroppo.
Ma, tra tutte le situazioni che avevo messo in preventivo, nessuna si era avvicinata alla domanda a bruciapelo e urlata a squarciagola: «Ci sono omosessuali dichiarati od obiettori di coscienza?» espresso da un altro soldato. Questo però era alto, biondo e con gli occhi azzurri. In poche parole: un sole. Fottuti occhi chiari, li detesto. Perché? Perché mi fanno impazzire. Oh, certo, quella domanda mi colpì come una pugnalata in mezzo al petto. Mi sentivo chiamato in causa. Dannato effetto della violenza verbale. L'avesse almeno chiesto una volta sola, no! Diede il via a un ritornello piuttosto insistente. Però quando aggiunse che per i gay c'era un elenco di penalità secondo la quale si veniva giudicati, arrivai sul punto di dichiararmi. Cominciai a sentirmi contrariato dal fatto che essere gay in Italia era un reato nell'ambiente militare. È vero che non volevo farlo per nulla al mondo il servizio di leva. Però, quell'astio ostentato, quel pensiero omofobo inculcato, quel subliminale sentimento di repulsione verso i gay mi mandò a fuoco il cervello.
Se solo ci penso. Si rischiavano fino a sei anni di prigione, e a seconda dei casi anche un numero sbalorditivo di milioni di lire di pecunia. Questa era la realtà, essere gay era un reato perseguibile penalmente. Capirai bene, Diario caro, che quella era stata una difficoltà che mi aveva rubato il sonno da mesi. Sui notiziari non erano rari i casi di suicidi pur di evitare il militare. Il pensiero dalle sciagure che avevo letto sui giornali mi fece compiere un passo falso. Confessai, quando ancora il bel soldato tornò a dire: «Lo ripeto per l'ultima volta, stiamo per entrare in caserma. Una volta dentro non ci saranno altre possibilità per sistemare la cosa. Allora! Ci sono omosessuali dichiarati od obiettori di coscienza?»
«E che palle! Mi hanno già scoperto!»
Inspiegabilmente scatenai un coro di risate. Ottanta giovani bocche si aprirono emettendo ilarità. Persino occhi blu non riusciva a dissimulare la comicità che non volevo suscitare. Però ribatté.
«Non faccia lo spiritoso lei!» disse sbuffando e cercando di mantenere il contegno fasullo. Gli altri cinque, non meno divertiti, mi inquadrarono e io ricambiai lo sguardo con tutti. Fissai soprattutto occhi blu. "Come vuoi, vuol dire che siamo a posto. Ho confessato e tu non mi hai preso sul serio. Il primo scoglio è superato, posso fare il soldato".
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