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31 • Epilogo in punta di piedi

28 ottobre 2005, venerdì

Adelmo prestò fede alla tre parole che aveva lasciato scritte, e si presentò intorno mezzanotte a casa di Evaristo, così come lui gli aveva chiesto al telefono.

«Sei riuscito a procurarti il mezzo?» esordì appena gli aprì. Aveva fretta. Non c'era tempo per i convenevoli.

«Certo, è qui fuori, all'entrata del giardino,» ribatté solerte Adelmo.

«Ben fatto, è la via più veloce per uscire. Dammi una mano.»

«Sono qui per questo,» disse Adelmo, imbracciando il primo scatolone pieno di statue di leprechaun imballate. Poi toccò anche ai dipinti e tutte le superfici artistiche che aveva prodotto. Aveva il cuore in gola. Stava scappando via da casa propria come un ladro. Sentiva di doverlo fare per Dione. Quel dannato senso di colpa che l'aveva assalito dopo aver letto il diario stava divorando il cuore del suo amico. Giorno dopo giorno il bel sorriso felino era diventata una maschera di tristezza. Non era vero che gli era passato, come più volte aveva rassicurato Mara. La ragazza, settimana prima quel venerdì notte, aveva affrontato di petto la questione col suo ragazzo, e in qualche modo Evaristo si era trovato a origliare la discussione.

«Se quando stai con me pensi a Eva, allora devi farti due conti. Non è me che vorresti accanto, ma lui!»

«Ma io amo solo te!»

«A voce!» rimbrottò Mara nel retro della tavola calda, il rumore della pioggia che tamburellava sulla tettoia. «Ma lo vuoi capire che per lui non conta più avere qualcuno accanto? Si è rassegnato. Ha detto basta! E non ha né vergogna di dirlo senza alcuna emozione, né tantomeno di avere paura di restare solo!»

"E poi lo stronzo sarei io," aveva pensato Evaristo, nascosto dietro la porta di servizio. "Però è vero. Ma non voglio essere la causa della vostra infelicità ragazzi." Di più non volle ascoltare.

«Questo era l'ultimo, disse Adelmo, chiudendo gli sportelli sul retro del furgoncino.»

«Bene, adesso torno,» disse Evaristo rientrando per l'ultima volta nel loft. Adelmo lo seguì. Notò che portava in mano una cartellina porta documenti. Lo vide ruotare la testa negli spazi spogli delle sue cose, prima di posare la cartellina sul divano. Lo vide tirare fuori una penna dal taschino e scrivere un messaggio su un pezzo di carta riciclato da uno schizzo scampato al trasloco. L'osservò sistemare sul divano pure quello, usando l'Omega d'oro come fermacarte.

"Ne ho fatte di cose disoneste nella vita, ma questa le supera tutte," convenne con sé stesso.

«Cosa c'era in quella cartella?» domandò Adelmo mentre faceva manovra col furgoncino.

«Non t'interessa,» rispose senza aggressività Evaristo. «Questo furgone ha sedili comodi, dove l'hai trovato?»

«Non t'interessa,» fece eco l'altro, abbozzando un sorriso quando vide l'amico a bocca aperta.

«Oh, santa banana, l'hai rubato! Speriamo non c'insegua la polizia! Potrebbero confiscarmi i miei stessi lavori!»

Adelmo si divertì a farglielo credere . Arrivati a Piacenza, all'alba inoltrata però, decise di porre fine alla burla. «Il furgone è in dotazione all'agenzia investigativa presso cui lavoro. L'ho preso in prestito.»

«E me lo dici dopo quasi sette ore e seicento chilometri abbondanti di cuore in tumulto!» Tirò un sospiro. «Vabbè, tanto non dovrebbe mancare molto per Stresa.» Evaristo dubitava che a Marica Riva potessero piacere le sue opere, nonostante più volte al telefono lei lo aveva rassicurato fino al limite della pazienza. Le aveva creduto solo quando gli aveva detto che si trattava di un'unica opportunità di esporre per farsi conoscere. Il resto dipendeva dall'accoglienza del pubblico.

"Qui mi gioco il tutto per tutto," pensò quando Adelmo parcheggiò il furgone in una via interna della città lacustre. Ad attendere loro c'era un gruppo di operai con la pettorina della "Gallerie Marica Adele Riva", e una hostess all'imbocco di un sentiero privato, tutto recintato di alte mura decorative.

La ragazza, in mise elegante con pantaloni stirati con la riga davanti e un foulard al posto della cravatta su una camicia chiara coperta da una giacca in tinta, fece un sorriso di plastica e invitò l'artista a scendere dal mezzo.

Evaristo non dimostrò nessun impaccio mentre rispondeva alle domande della hostess. Si lasciò studiare mentre la bocca truccata di quella ripeteva convenevoli untuosi, di cui lui non ricordava nulla man mano che li ascoltava. Tuttavia colse il succo del discorso. Di là, alla fine della stradina privata oltre il cancello, c'era una villetta immersa nel verde dove avrebbe alloggiato per un mese, in attesa che la mostra fosse allestita nella galleria situata sulla via lungo il Lago Maggiore, dove si potevano osservare le isole Borromee in bella vista. Tutto qui. Poteva entrare solo lui, perciò dovette salutare Adelmo dopo che gli operai avevano prelevato le opere d'arte.

Il distacco dal vecchio amico avvenne in modo da far gelare gli iceberg se fosse concepibile come reazione fisica.

29 ottobre 2005, sabato

«Evaristo!» Il sorriso largo, le braccia aperte, e l'incedere elegante di Marica Riva dominò lo sguardo di Evaristo, che le andò in contro lungo il sentierino del giardino dietro la villa. Era un pomeriggio tiepido, e il sole colorava d'oro siepi, alberi e i fiori che sfidavano la stagione autunnale.

«Che bello rivederla, Marica,» rivelò l'artista lasciandosi prendere le mani dalla donna.

«Oh, dammi del tu, siamo amici,» puntualizzò sincera l'altra. «Devi perdonarmi per l'accoglienza di ieri, purtroppo non ho potuto esserci per... sai,» chiosò imbarazzata. «Spero ti trovi bene qui a Stresa.»

«È un luogo incantevole,» ammise Evaristo. E ammise anche che quella donna era completamente diversa dall'anima tormentata che ricordava aver conosciuto cinque anni prima nell'ospedale di Lecco. Era di una eleganza, anche nei modi, comparabile a quella delle dive. Lo intuiva anche dall'abito a coda di sirena colore fumo abbellito con fronzoli neri lungo il fianco. Insieme a lei trascorse molti pomeriggi in attesa della mostra che gli aveva promesso. Di tanto in tanto si fece vedere anche il generale Riva, al quale poté rapportarsi senza sbattere i piedi e indicare il sopracciglio destro. A suo modo era simpatico, sotto la scorza burbera militarescca.

21 dicembre 2005, mercoledì

«AAAAAA! MA CHE CAZZO CI FA LÌ EVARISTO!» Elvira, alla tavola calda, seduta alla cassa a seguire il notiziario di mezzogiorno, per poco non saltò fino al soffitto. Dione e Mara accorsero richiamati dal nome del loro amico.

«Un giovane artista che fa uso dei colori emozionali, come li definisce, per comporre immagini di forte impatto visivo...»

«Che figlio di puttana!» esclamò Mara commossa. «Ci ha abbandonati per andare a fare soldi, guarda che razza di prezzi anche i leprechaun

«...Per non parlare delle quotazioni di questi "leprecani"...»

Dione scoppiò a ridere. «Se la sentisse Eva storpiare i nomi delle sue statuette gliele farebbe mangiare!» Gli occhi di Dione brillarono seguendo le immagini sullo schermo a cristalli liquidi, che il signor Gentili aveva offerto come anticipo per il gazebo bar, che avrebbe consegnato solo l'anno successivo. Tornò a essere serio quando Evaristo, in pullover carta da zucchero, ben pettinato e curato, veniva inquadrato mentre rispondeva sciolto al giornalista che lo stava intervistando. Attorno s'intuiva lo spazio della galleria, zeppa delle sue opere, e in mezzo alla gente i leprechaun sistemati su alti piedistalli protetti ognuno da campane di vetro.

«Eri destinato a qualcosa di meglio che stare con me,» sussurrò radioso. «Certo che sa' proprio come fare l'entrate col botto!» esclamò poi ad alta voce. Sfiorò l'Omega che portava al polso. L'orologio che Evaristo gli aveva regalato insieme al loft. Ricordò il messaggio: "Tu sei l'unico vero insostituibile amico che abbia mai avuto, e lo sarai per sempre. Adesso però dobbiamo separarci. Ti prometto che scoprirai al più presto perché. Vendi queste cose che ti lascio per aprire la pasticceria dei tuoi sogni, oppure fanne quello che vuoi. La casa è già girata a tuo nome, dentro la cartella troverai tutto, anche le eventuali deleghe notarili. Sergente onorario Dione Nadal, questo non è un addio. Il tuo amico, Evaristo."

21 marzo 2015, sabato

Dione e Mara, sposati da dodici anni, con i loro due gemellini di sei anni, accolsero l'ennesimo invito di Evaristo a trascorrere una settimana a Genova. Era trascorso molto tempo, e i volti dei tre ne portavano i segni. C'era però più serenità nei loro animi. Ma quando si riunivano s'illuminavano. Non contava più nulla a parte loro tre. La pasticceria avviata dalla coppia, o le mostre del pittore, erano solo mezzi di sopravvivenza fisica. Loro tre vivevano davvero solo quando si ritrovano insieme.

23 novembre 2017, giovedì

«Signore, non doveva attendere così tanto per farsi vedere, ora, io...» L'uomo in camice bianco dietro la scrivania era costernato. Ondeggiava la testa e lanciava le mani sulle scartoffie e sul computer, alla ricerca forse delle parole giuste. Evaristo, seduto di fronte, gli concesse tutto il tempo di cui aveva bisogno per rivelargli la causa del sanguinamento di un neo dietro il polpaccio destro, avvenuto mesi addietro sotto la doccia.

Alla fine, spazientito, sospirò. «È locale o diffuso?» Evaristo non era certo un medico, ma che un rubinetto di sangue che si apre inarrestabile da un neo, fosse sintomo di un tumore della pelle, lo sapeva anche lui. La faccia dura dello specialista, scossa e dispiaciuta, gli indicò che non era più operabile.

«Quanto mi resta?»

«Se non avviamo subito la terapia cinque o otto mesi, forse qualcosa di più.» Fece una pausa impacciata, raccattò i referti di Evaristo, e aggiunse le urgenze da svolgere affinché nei laboratori individuassero la terapia più efficace.

«È strano, dottore.»

«Cosa, signor, Macrame?»

«Non sento niente.»

«È una malattia subdola, è silenziosa, ma vedrà che_»

«No,» scosse la testa Evaristo, dondolando sulla poltrona di fronte al buon dottore, che non aveva afferrato il senso della frase. «Vede, non sento nulla, non mi emoziona sapere di morire.»

«Non dica certe cose, signore, è ancora al di sotto dei quarant'anni, potrà uscirne vittorioso...» la voce stentata informava un'altra verità. «Lei deve combattere,» sussurrò appena.

Evaristo si sollevò dalla sedia. Era stanco. Incespicò, il dottore fece per scattare in suo aiuto, ma lui gli mostrò il palmo ossuto aperto, «No,» disse, bloccando l'altro, «ormai non ho più massa muscolare da anni,» gli sorrise. «Non si combattono le battaglie perse in partenza,» si voltò, salutò l'uomo con garbo e andò via.

Trascorsero altri mesi, tra mostre e viaggi, ma tutto cominciava a pesare sulle spalle non più forti come un tempo. Marica, l'unica a conoscenza del suo stato di salute, lo seguiva con apprensione. Non perché quel genio artistico le aveva fatto guadagnare più di quanto aveva prospettato, ma perché era la persona che gli aveva salvato il figlio. Dovette però fare i conti con la sua caparbietà di non volersi curare, anche se sarebbe stato tutto inutile.

Evaristo non si risparmiò nel suo lavoro. Presenziò a ogni esposizione in cui erano presenti le sue opere. Fino all'ultima. Ogni superficie riflettente che incontrava lo dipingeva pelle e ossa. Dov'erano quei pettorali che facevano girare la testa a chiunque? I ricci neri fluenti, gli occhi brillanti, e tutto il resto? Dove? Negli specchi dove adorava ammirare il suo fisico ora riconosceva la vera povertà di cuore, stridente col successo artistico oltre ogni sogno. C'era gente attorno a sé, a osannare e valutare i suoi dipinti. Lui però non voleva più tutto quel caos. Non voleva vedere più nessuno. La stanchezza prevalse. Lungo quell'ultima galleria s'incamminò verso l'uscita. Marica lo seguì, lo chiamò più volte, ma Evaristo non l'ascoltava. Davanti gli apparve Carlo, nei suoi occhi l'amore che aveva fatto con lui da ragazzo, il sole dei suoi capelli grano d'agosto, il primo sguardo pieno di luce. Il suo sorso di luce. Le gambe tremarono di colpo, appena la mente gli regalò il ricordo dell'urlo: «EVARISTO!» e in punta di piedi lasciò il suo corpo mortale sul suolo per tendere la mano al suo sorso di luce.

FINE

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