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27 • Il degrado dell'anima

Novembre 1998

Caro Diario, ciò che manca per chiudere il cerchio me lo sta dettando la necessità che ho avuto di scoprire la verità sulla morte di Carlo. Ero sì, disfatto dentro me, disgregato e annientato, ma il mio stupido cuore era - e non ho dubbi sarà per sempre - ancora innamorato di Carlo. In nome suo volevo guardare in faccia chi gli aveva sparato. Chi aveva sporcato col sangue il mio sorso di luce. Oh, sapessi gli incubi a immaginare il suo bel viso perforato da quel maledetto proiettile. Dove si erano piantati quei letali grammi di piombo? In mezzo a gli occhi, o forse dentro un occhio? Sotto il naso? Sulla guancia? In bocca? No, non volevo scoprirlo per chissà quale insano gusto ludibrio, no. Vederlo sarebbe stato l'ultimo atto d'amore. Ma non mi era stato possibile. Ero arrivato troppo tardi.

Adelmo, senza che glielo avessi chiesto, aveva trovato la maniera di scoprire dove fossero gli scellerati che avevano causato la morte del mio ragazzo, ed era venuto a dirmelo la sera stessa del mio rientro. Ironia della sorte, erano stati tradotti nella caserma accanto la nostra, quella dei carabinieri. Dovevo fare qualcosa. Non avevo avuto modo ancora di metabolizzare il terribile evento. Mi imposi di rimanere lucido, nonostante sentissi il cuore pungolato da milioni di spine. Sentivo di non riuscire più a vedere il mondo con gli occhi di prima. Mi mancava il respiro. Il mio vero io cominciava a mostrarsi. Lo vedevo negli sguardi terrorizzati dei ragazzi della mia camerata. Soprattutto nel pesante silenzio che era calato appena ero rientrato. Così doveva essere. Persino quando andai a fare la doccia nel locale bagno la mia presenza gelò di colpo l'ambiente. Mi temevano tutti per quanta malevolenza stavo trasmettendo mentre pensavo a come avrei potuto entrare nella caserma dei carabinieri. Era separata soltanto da una strada interna di via Trieste, e la porta carraia non più lontana di trecento metri a piedi.

L'unica carta che potevo giocare era il tenente colonnello Manin. Gli avrei chiesto il giorno dopo il permesso di fare visita a quei due figli di puttana, solo per vederli in faccia. O almeno quella era l'idea di principio. Il giorno dopo ignorai il turno in cucina, e mi presentai in drop, elegante e impeccabile nell'ufficio del tenente colonnello Manin, che mi accolse con piacere, anche se era indaffarato. Vicino a lui c'era anche Adelmo Maiello, - cominciavo a credere che corresse un legame di parentela tra il capo supremo e il super tatuato, dal momento che era sempre nei paraggi, - e poi una coppia di furieri armati di scartoffie.

Alla richiesta di assistere all'inchiesta, il tenente colonnello Manin mi invitò a seguirlo giacché, per volontà del caso, si stava recando nella caserma dei carabinieri per presenziare ai preliminari d'ufficio. Era così scocciato che non approfondì il perché volessi venire, e per la voglia che aveva di fare presto percorremmo quei trecento metri in Mercedes.

Se c'erano differenze tra i due circondariati armati non me ne importava nulla. Ero lucido. Determinato a conoscere coloro che avevano spezzato la vita di Carlo. Non avevo nemmeno notato il vento autunnale che soffiava forte, e strappava le prime foglie rosse dagli aceri. Quelle foglie cadevano oblique, come gocce di sangue sputate da un pugile scarso. Forse il cielo era pure celeste, non m'importava. Avevo però immaginato di ritrovarmi in un'aula d'udienza, come quelle che si vedono nei notiziari. Invece no. Tutto si svolse un ufficio spazioso, con le sedie disposte a platea davanti a un lungo bancone, subito occupato dagli ufficiali preposti alle indagini. La maggior parte erano dell'arma dei carabinieri. In un angolo, com'era ovvio ci fossero, gli avvocati della difesa dei malfattori.

Presi posto nella fila intermedia, accanto ad Adelmo. Prima dell'avvio del protocollo istruttorio dovemmo attendere anche i genitori degli incriminati. Solo dopo il loro arrivo comparvero quelli là, accompagnati da un quartetto di carabinieri semplici. Mi alzai di scatto e Adelmo mi tirò giù a sedere.

«Non fare sciocchezze,» mi sussurrò.

«La loro vita è una sciocchezza,» ringhiai, senza distogliere l'attenzione al botta e risposta appena cominciato. Quei mostri erano della mia stessa caserma, ma non li ricordavo.

Attesi con impazienza di capire la dinamica del fatto. Purtroppo era nebulosa, resa ancora più confusa dal fatto che gli accusati litigavano e si rimpallavano la responsabilità. Rispondevano in modo contraddittorio, superficiale, come dire: "quando finisce 'sta stronzata." Quella strafottenza l'avevo percepita chiaro. Aver visto i loro volti puliti non mi bastava più. Dovevano essere sporcati, dovevano mostrarsi davanti al mondo come li vedevo io. Chiusi gli occhi e li riaprii lentamente. Intorno a me, il caos delle parole misurate degli ufficiali iniziarono a farsi lontane, come echi indistinguibili. È stato come se le due dozzine di persone nella stanza fossero svanite. Ma stavano ancora lì, e mi avevano visto tutti quando scattai verso i colpevoli. Che quattro carabinieri si erano lanciati addosso per fermarmi lo ricordo, ma ricordo pure le loro facce e culi a terra appena ebbero proteso le mani su me. Chiare furono le urla, più tonanti delle altre, del tenente colonnello Manin che imperava di tornare a sedermi. Poteva crollare il mondo, ma nessuno riuscì a impedirmi di colpire quei bastardi che si erano messi a giocare con le armi. Perché sì, uscì fuori che quei due figli di puttana stavano giocando con le armi. Carlo era morto perché li aveva redarguiti, sottolineando la pericolosità dei loro atteggiamenti superficiali.

Questo è quello che la mia coscienza mi permette di ricordare, ma a detta di Maiello, non erano bastati sei robusti carabinieri a impedirmi di piantare nelle facce di quei due pugni feroci facendoli sanguinare copiosamente. Sul mio volto vide alla fine soddisfazione. Aveva ragione, era così che mi sentivo. E a dire il vero, fu il momento in cui tornò la coscienza a prendere il controllo di me. Il caos che avevo creato lo sento ancora nelle orecchie.

Avendo pestato gli imputati, meritavo di essere denunciato? Certo che sì. Solo che i genitori presenti allo spettacolo dissero ai figli che ad attender loro c'era di peggio là fuori. Erano genitori coscienti, non inclini a difendere a oltranza i propri figli, specie davanti l'evidente gravità della situazione. Perciò no. Nessuno mi denunciò. Soltanto le signore madri mi inveirono contro, ma potevano andare a farsi benedire. Il reggente della caserma dei carabinieri lasciò al tenente colonnello Manin l'onere di assumere i provvedimenti nei miei riguardi. Non m'importava un cazzo. Mi lasciai circondare dai carabinieri, permisi loro di trattenermi le braccia dietro la schiena, finanche scortarmi a piedi fino alla Montesanto. Ma sai una cosa caro Diario? È vero, il mio gesto non aveva sistemato nulla, Carlo continuava a essere morto, ma io mi sentivo meglio dopo quello che avevo fatto.

I carabinieri che mi avevano scortato, oltre a commentare la mia azione, mi condussero nell'ufficio del tenente colonnello Manin, dove mi piantonarono fino al suo ritorno. Ritorno che non si fece attendere molto. Entrò nel suo ufficio, sbatté la porta con violenza, mandò via i carabinieri e mi guardò con gli occhi di una belva.

«MA CHE CAZZO DI FIGURA DI MERDA MI HAI FATTO FARE!» tuonò sbattendo la ventiquattrore sulla scrivania, incurante di mandare a terra i ninnoli a cui era tanto affezionato. Il volto di un viola intenso, nonostante la carnagione olivastra. Gli occhi aggressivi puntati su me, che nemmeno mi ero preso la briga di stare sull'attenti. Piuttosto ruotai lo sguardo verso il dipinto che mi aveva commissionato, e che ora stava a occupare la parete laterale dell'ufficio. «Ora tu!» mi puntò il dito contro, e io tornai a guardalo in faccia, impassibile, «mi dici cosa cazzo ti è preso! Che motivo avevi di spaccare la faccia a quelle due teste di cazzo?!» Mi aggirò con le spalle incassate, continuò a urlarmi contro e non badò nemmeno ad Adelmo Maiello e agli altri tre caporali che erano entrati, timorosi che potessi aggiungere un'altra faccia spaccata alla giornata.

«Che cazzo centri tu con Carlo Giuliani?» domandò al termine dell'epica sfuriata.

Risposi alzando così tanto la voce che dubito non mi avessero sentito fino alla caserma accanto. «Carlo Giuliani era fratello di una sorella, figlio di due genitori, amico di tante persone, un innocente in mezzo a un esercito di coglioni! E poi lui è il mio_» Ecco. Non completai la frase. Scelsi di mantenere segreta la nostra relazione, la nostra omosessualità, la vita insieme che ci eravamo promessi. Perciò riconosco come colpa solo la mia vigliaccheria.

«E poi lui è il tuo cosa?» incalzò il tenente colonnello Manin, sostenendo sguardo, voce e tutto.

«Sai che c'è, vecchio figlio di puttana? Vaffanculo!» Sollevai una sedia e la scaraventai contro il muro, centrando in pieno il favoloso quadro che avevo dipinto, e lo distrussi. «Tanto nemmeno te lo meritavi!»

Il tenente colonnello Manin si avvicinò alla scrivania, appoggiò i pugni e mi fissò truce. «Non voglio più capire cosa ti è successo, non mi interessi più come né soldato, né come civile, io ti degra_»

«Sono io che mi degrado!» mi strappai dalla drop il mostrino con tutta la camicia e li gettai sul pregiato legno lucido. Quella era stata l'ultima goccia versata su un vaso che già faceva acqua da una vita.

«Lei, signor Macrame, trascorrerà il resto del servizio militare nella prigione della caserma,» il tono pacato, non per questo meno avvelenato. «Portatemelo lontano dalla mia vista,» disse infine ad Adelmo e agli altri tre caporali.

Ed ecco come sono finito in gattabuia. Dopo un servizio di leva ricco di favolose esperienze, e grandi soddisfazioni, la mia buona stella si è eclissata nell'arco di pochi minuti, portandomi via tutto. Okay, ho contribuito parecchio per spegnere quella lucina. Per completare la confessione potrei aggiungere la morale, oppure una frase inflazionata per riassumere tutto: dalle stelle alle sbarre.

Una curiosità, che ha del poetico, è che la cella si trova all'interno dell'ufficio di guardia alla porta carraia. Dalla finestra riccamente ostruita da inferriate posso contare le auto che transitano lungo via Trieste. Ironico: essere imprigionato a un soffio dal mondo libero. Tuttavia non posso dire di essere stato completamente isolato, dal momento che avevano messo Maiello a piantonarmi la maggior parte del tempo. Oltre la sua presenza ho ricevuto visite da parte di un bel po' di gente, curiosa di sapere cosa mi fosse successo, tra cui un deluso maresciallo Empolese. Più che deluso era angosciato. Non diedi spiegazioni a nessuno. Lasciai che ognuno vedesse ciò che voleva vedere, tanto un mese solo era rimasto, avrei saputo sopportare bene tutto il tempo residuo da recluso. Al momento del congedo me ne sarei andato da solo? Certo! D'altronde, caro Diario, questo viaggio è iniziato in solitario.

C'è qualcosa di cui mi pento? È complicato. Rischio di supporre di voler giocare a fare Dio se confessassi che, col senno di poi, non avrei donato il midollo spinale per salvare la vita a uno sconosciuto, se avessi avuto la certezza che avrei potuto impedire a Carlo di fare la guardia alla polveriera, e di conseguenza salvare a lui la vita. Ecco. Questo è il motivo vero per cui sento di meritare di stare qui, dietro le sbarre, a maledirmi.

Ho pianto durante questa breve confessione, caro Diario? Eh, l'idea di scriverti non è partita nemmeno da me, ma da un consiglio di Adelmo Maiello. Mi aveva suggerito di mettere nero su bianco i miei pensieri, sicché potessi trovare la maniera per andare avanti. Mi sono costate più lacrime che inchiostro rapportarmi a te, Diario, come fossi una presenza fisica tangibile. Ma sappiamo che così non è. Sei solo un vecchio registro riciclato ed esaurito, come il mio cuore. Ho visto incrementare il contenuto delle mie tasche, così come ho sentito svuotare il cuore, fino a ridurlo in bancarotta. Ora ho la certezza di non poter più offrire nulla a nessuno. Quel poco che avevo è andato via assieme a Carlo.

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