23 • Di noi, cosa rimarrà in questa stanza?
8 marzo 1998, domenica
Era steso sul letto. La luce riflessa dalle pareti bianche evidenziava il pallore della pelle. Accentuava gli spigoli delle clavicole, il petto rilassato e i capezzoli rosei. Le braccia, uno lungo verso la finestra, l'altro sotto il cuscino dietro la nuca. L'addome avvallato dai muscoli, evidenti anche a riposo, correvano verso la corona pubica, occhieggiante sotto il lembo del lenzuolo. Il resto era affidato alla fantasia, tranne le gambe scoperte poco divaricate. Il letto aveva l'aspetto di un mare statico, tutto onde di stoffa azzurra attorno al suo corpo rosa. Carlo appariva come un guerriero vichingo dormiente. Un sogno. Un sogno che decisi d'istinto d'imprimere a matita sull'album. Dall'album finì su una tela che Carlo mi aveva comprato il giorno prima, assieme al necessario per dipingere. Era stato lui a insistere, dopo che avevamo trascorso i giorni precedenti in giro per musei. Vicino all'ostello, complice la doppia coppia che avevamo conosciuto la prima serata, scoprimmo che c'era una galleria dove esponevano.
L'arte era ciò che completava, anzi, era un bonus al paradiso che stavo vivendo accanto a Carlo. Era stato lui a incoraggiarmi a ritrarlo. Solo che non aveva considerato dove, come, e quando. Quella mattina mi parve perfetta. Lui ronfava. Sì. Era un vichingo rumoroso di notte. Alcuni rumori erano anche indecenti. Adorabile comunque. Era la prova che fosse vero. Reale. Il suo corpo accanto al mio apparteneva a questo mondo. E il mio per lui era lo stesso.
«Che cazzo fai?» biascicò a bocca impastata appena si svegliò.
«Buongiorno pure a te, e resta fermo.»
«Negativo, devo andare a pisciare,» lamentò.
«Negativo, ti metto il catetere,» sorrisi e lui scoppiò a ridere. Comunque comprese la situazione e collaborò. Adorabile Carlo. «Potresti rimettere a riposo la banana? Altrimenti dovrò correggere buona parte del disegno.»
«Negativo, ti sei messo a disegnare nudo, seduto a gambe larghe sulla sedia, e ti vedo tutto il ciondolame fare l'altalena,» sghignazzò. Mi diedi un'occhiata al sud ombelico. Ero eccitato anch'io.
Quando terminai lo studio, molto tempo dopo, non feci in tempo a dirgli che avevo finito che volò in bagno quasi senza sfiorare il parquet. A malapena inquadrai le mezze sfere di marmo delle sue chiappe strusciare una contro l'altra durante la corsa. Un secondo dopo gridò: «Ah! Che male farla col coso duro!» Lo raggiunsi in bagno perché scappava pure a me. E sì, aveva ragione. Farla in certe condizioni infiamma l'orgoglio maschile. Tuttavia trovammo la maniera di divertirci, senza usare eccessiva fantasia. Così, sotto la doccia, insaponandoci insieme, stemmo a strusciarci, le braccia a misurare il torso dell'altro. Lunghi baci a occhi chiusi. I gonfi attributi a sfregare gli uni contro gli altri quasi a voler accedere il fuoco. Fuoco che già c'era dentro noi, inestinguibile, affamato.
Eravamo liberi. Un concetto estraneo altrove. Anche se per una sola manciata di giorni ogni mese, assaggiavamo la libertà che ci eravamo promessi una volta terminato l'incubo del militare. La detenzione legalmente autorizzata. Con Carlo mi sentivo sicuro. Talmente fiducioso in lui che quella domenica lo lasciai libero di andare a casa dai suoi, a regalare le mimose alla sorella e alla madre. Il rischio che sarebbe rimasto per pranzo era alto. D'altronde con loro non aveva litigato. Così mi aveva detto. Non approfondii mai il discorso, perché, - ormai ci conosciamo caro Diario - non me ne frega nulla di chi mi tratta male. Alla prima occasione possibile so sempre come vendicarmi. Passare il resto della vita assieme a Carlo, avrebbe fatto torcere le budella alla madre e al padre. Solo quella prospettiva mi faceva gongolare.
11 marzo 1998, mercoledì
«Mi hai dipinto nudo,» commentò, non rivolto al sé stesso che avevo immortalato sulla tela, ma a me, che ci avevo lavorato sopra svestito completamente; e in sua presenza. «Mi hai fatto bene, un po' angelico, un po' aggressivo. Strano. Mi ci riconosco,» aggiunse al complimento un piccolo morso all'orecchio, visto che mi stava abbracciando alle spalle, mentre ero seduto di fronte al cavalletto ad ammirare insieme a lui l'opera completata. «Sei troppo permissivo con me,» sussurrò ancora, sapendo l'effetto che sortiva la sua voce su me. «Mi hai permesso di andare a casa, senza nemmeno chiedermi nulla.»
«Non hai da giustificare nulla. Sai già come la penso. Per me conta solo ciò che vuoi condividere. Il resto è caos.»
Stavo rischiando. Avrei dovuto porre almeno un limite, affinché Carlo non finisse per darmi per scontato. Per dare per scontato che ci sarei sempre stato per lui, in qualunque veste avrebbe deciso di vedermi. Temetti che a furia di lasciarlo libero, un giorno sarebbe volato via. Ma, almeno per quel mercoledì pomeriggio, imbiancato dalla nevicata fuori dalla finestra, lui era con me. Ma sì, era con noi anche l'illusione di essere circondati dalla neve che a lui piaceva molto. Oh, che sogno. Era lì, affacciato a osservare il fiocchi di ghiaccio, nudo, bello e assorto. E siccome avevo preso l'abitudine di chiamarlo Vichingo, un paio di giorni addietro si era procurato un elmetto con le corna. Poteva sembrare buffo, e invece no. Biondo e statuario, era veramente l'incarnazione di un Dio vichingo.
Non avevamo più fretta di saltarci addosso. Ecco. Il tempo. Anche se l'ennesimo congedo stava scemando, in quella stanza dell'ostello, avevamo tutto il tempo per fare l'amore, e bandire parole inutili e pericolose.
Nudo anch'io lo raggiunsi alla finestra. Mi sporsi per baciarlo, ma indietreggiò con la testa. Sul volto la furbizia del cacciatore che vede la preda correre incontro. Attesi che avvicinasse le labbra. Abbozzò un sorriso lieve. Gli occhi di chi sfida, sicuro di sé. Stavolta mi negai, e quando fu lui ad avvicinarsi, indietreggiai. Mi piacque vederlo a bocca aperta con lo sguardo deluso. Mi piacque quel gioco statico al rincorrere il bacio dell'altro. Nessuna parte dei nostri corpi si sfiorava, nessuna eccetto le erezioni che svettavano come nei guerrieri ellenici dipinti sui vasi che avevamo visto al museo giorni addietro. Oh, sì, le punte rosee e umide si baciavano più di noi al piano superiore. Era stuzzicante. Eccitante. Carlo di punto in bianco afferrò il suo piolo e richiamò il prepuzio fino a tirarlo oltre l'elmo calvo, e avvicinatolo al mio lo fece sparire dentro esso.
«Non immaginavo si potesse fare una cosa simile.» Non rispose, se non con un ghigno, troppo preso ad avviare con le mani ciò che chiamava docking. Movimenti rapidi e stretta decisa attorno ai nostri fucili. Osservavo la nuova manovra e mi meravigliavo della insolita sensazione di fare autoscontro con i pomelli insaccati in un unico prepuzio. Sublime. Giunti a un attimo prima dell'apice, Carlo liberò la mia virilità e mi baciò. Stavolta sul serio. Voleva spendere tutto il tempo necessario per calmare l'eccitazione che per un soffio non ci eravamo lasciati sfuggire. Le bocche ci ricondussero all'ordine, sopra il disordine del letto, dove improvvisammo quel numero capace di unire l'uno il fallo nella gola dell'altro. E anche se continuavamo a fermarci per non consumare tutto alla svelta, ci parve impossibile non cedere a un certo punto. Pur visto così non era sesso. Era amore fisico. Muscolare. E anche tortura, dal momento che stavamo negando di proposito la conclusione dell'idillio carnale.
Agevolati dal riscaldamento della camera, i nostri corpi erano unti di sudore. I capelli, per corti che erano, grondavano come quelli dei maratoneti sotto il sole. E anche così, forse stremato, cedette al desiderio di strusciare lungo la mia schiena in senso contrario alla mia testa schiacciata di faccia al cuscino. Scivolò giù, tra le scapole, ciascun suo ginocchio ai lati delle mie spalle. Leccò il canale della mia spina dorsale. Insinuò la lingua nell'avvallamento delle chiappe fradice di sudore. E lì nascose la faccia. Intanto io stringevo e stropicciavo le lenzuola. Impazzivo dalla felicità. Felicità che lui completò strusciando il pene sulla schiena, lento, sinuoso, duro, fino a raggiungere il nascondiglio poco prima scoperto dalla sua lingua. Si accovacciò e insieme chinò il bacino per introdurre la sua rigidità dentro me. Sollevai di poco i glutei per agevolarlo e lui me lo schiaffeggiò tutto facendomi sussultare. Avendo intuito fossi già pronto, me lo spinse dentro di più e più volte. Cacciai un urlo soddisfatto. E ancora una volta, per quanto avvincente fosse l'ultima manovra, si fermò, estrasse il beniamino, più rigido che mai, mi fece voltare e si accovacciò sul mio a gambe aperte. Le braccia tese sulle mie spalle per reggersi, e cominciò a cavalcare come un fantino provetto. «Colpisci!» ansimava, «colpisci!» E io obbedii dandogli ciò che aveva richiesto. Senza sosta. Fino a che getti di sperma dal suo membro violaceo non zampillò così furente da arrivarmi in faccia un numero osceno di volte. Dopo un po' venni dentro lui.
I respiri affannati, la maratona conclusa, eravamo esausti.
«Ultima chiamata per la cena!» La voce del simpatico receptionist ci ricondusse alla realtà.
«Ma quanto abbiamo?» disse crollandomi addosso e io risi. Guardai l'Omega. Feci una smorfia. «Scarse cinque ore. Possiamo fare di meglio.»
Ci rivestimmo e scendemmo giù, nell'area comune per cenare. Cercammo di non far trapelare la ginnastica alternativa che ci aveva tenuto occupati il pomeriggio, ma purtroppo rivedemmo i nostri numeri negli occhi curiosi degli altri ragazzi già a tavola.
«Ci guardano,» bisbigliai mascherando un sorriso e facendo finta di sistemare la maglietta. Un ragazzo di fronte mi fissò il petto. Quando lo intercettai girò la testa. Il viso rosso fuoco.
La doppia coppia nostra amica ci invitò a sedere con loro, dopo che ci eravamo riempito i vassoi al self-service. Menomale c'era chi aveva la mente aperta. «Non vi state proprio annoiando,» esordì con foga la ragazza più spigliata. Un tipo pieno di orecchini alle orecchie e ogni genere di abbellimento scuro, come i vestiti.
«Colpa sua,» rispose Carlo, sedendo accanto a me. «Si muove troppo,» ridacchiò mentre studiava la roba nei piatti.
«Sentitelo!» lo indicai. «Se avessi avuto le lampadine avresti potuto cambiarle al lampadario, per come saltavi in alto!» Risero tutti. E in allegria fuggì via anche quella serata.
13 marzo 1998, venerdì
Di questa data ho solo da registrare il rientro più comodo in caserma, con l'auto di Carlo. Che avevamo addosso la sensazione di non trascorrere sufficiente tempo insieme, era un concetto espresso con i lunghi silenzi che ci accompagnarono per chilometri. La vita di caserma era un veleno. Ci toglieva il respiro. E le brevi parentesi delle licenze non facevano che alimentarne l'effetto mortale.
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