22 • Ma che bell'ostello marcondirondirondello
Febbraio 1998
L'unico appunto di questo mese, che ricordi, è stata la completa assenza di Carlo. Intendo assenza fisica. Aveva preso parte a un'altra missione di addestramento campale sulle Alpi Giulie. Avrei voluto partecipare anch'io, ma non mi era stato possibile. Dal momento che ai test attitudinali avevo negato l'uso delle armi, non avrei mai preso parte a nessun addestramento estemporaneo.
Posso solo ricordare che l'aiutante Mundo, il vegliardo che voleva farmi le scarpe con la storia dei premi del concorso dei presepi, si era accampato in cucina, col proposito poco dissimulato di rendermi la vita impossibile. Essendo superiore in grado al maresciallo Empolese, non ebbi scampo alle sue angherie. Ce l'aveva a morte con me. Mi maltrattava in ogni modo possibile. Puerile, come i dispetti che mi faceva, e gli sguardi viscidi e odiosi. Oh, Diario caro, grazie a tutte quelle scorrettezze però, il gommista dell'aiutante Mundo scoprì di avere un ottimo cliente. A dire il vero, continuai a bucargli le ruote della sua pacchiana Micra viola, anche quando aveva smesso di rompermi i coglioni. Forse perché, a quanto avevo sentito dire, stava per andare in pensione. Forse la cosa l'aveva rallegrato. O forse aveva supposto una correlazione tra le stronzate che faceva contro me, e l'assidua frequentazione col gommista. A essere sincero, la cosa mi aveva divertito. Se non altro, mi era stato utile per distrarmi, e soprattutto per attendere il ritorno di Carlo. Ancora non sapeva di cosa erano stati capaci i suoi genitori, e sorella.
A proposito di distrazione, insolitamente, quasi senza accorgermene, il caporale Maiello, quel ragazzo dal corpo super tatuato, aveva cominciato a venirmi dietro. Si offriva di pagare il conto allo spaccio, a chiedermi di uscire la sera, durante le libere uscite di sabato e domenica. Tutte offerte negate, naturalmente. Dovette accontentarsi dei rapidi incontri al giardino della caserma, o nelle pause che coincidevano con i nostri tempi. Caro Diario, certe cose non le faccio.
3 marzo 1998, martedì
Quanto avevamo atteso quel giorno! Oh, eravamo snervati. Fuori controllo. Fuori dalla caserma, e ancora fuori dall'auto, con le valigie a terra. Le bocche incollate, le braccia sulla schiena dell'altro e i corpi schiacciati. Poco mancava che lo facessimo per strada. L'avremmo fatto. Ma no. Nonostante non fossero necessarie le parole a indicare il reciproco bisogno che avevamo l'uno dell'altro. Però quant'era bello lo sguardo di Carlo. Era così intenso, supplice di me, che mi spiacque dover macchiare i miei occhi con l'ombra che mi portavo appresso ormai da più di un mese. Adorabile Carlo che se ne accorse e mi gridò: «Che c'è che non va?»
Dio, quanto risi. Avevo sognato le sua urla a sorpresa. Erano eruzioni di emozioni. Sperai solo non le perdesse. Lo raccomandai di rimanere calmo, per quanto ne fosse capace, prima di vuotare il sacco.
Caricammo le valigie nell'auto. Salimmo anche noi. Non aveva ancora commentato l'infelice episodio che avevo vissuto a Torino, un minuto dopo che era partito per Gorizia. Il bello era che aveva organizzato lo stesso programma della licenza precedente. Ora eravamo entrambi liberi dalla caserma per ben dieci giorni. Era in difficoltà. Indeciso se ospitarmi a casa nonostante fossi stato cacciato. Sentivo che aveva bisogno di tornare a Torino dai suoi, e io non potevo, né dovevo impedirglielo.
«A Torino, conosci un affittacamere?» Avevo indovinato la sua angoscia. Gliela lessi fissando il suo profilo, mentre avviava l'auto.
«No, non conosco affittacamere, ma c'è un ostello della gioventù.»
«Bene.»
«MALE, INVECE!» tuonò, e io cercai di non ridere. Mi parve non fosse più in vena di farmi divertire. «Con tutti quei maschi che ci sono lì dentro! Sei matto per caso?» strillò ancora.
«Ehm, Carletto,» azzardai ad affibbiargli il diminutivo. Lo accettò offrendomi le nocciole dei suoi occhi. Un sopracciglio dorato sollevato. «Se non te ne sei accorto, viviamo in una caserma che pullula di maschi, ed è affianco a quella dei carabinieri. Qui è il girone del testosterone.»
«Sì, ma qui, nessuno è come te.»
«E nessuno è come te,» feci eco osservandolo dritto negli occhi. L'essenziale era esattamente lì, davanti a me, nei suoi occhi. Nella fiducia che trasmetteva. Quel ragazzo brillava tutto. Si voltò, mi afferrò per le guance, mi trasse a sé e mi baciò fino a quasi perdere il fiato.
«Non voglio rinunciare a te, né perderti,» sussurrò.
«Non accadrà fin quando lo vorrai,» risposi di petto. Gli stavo affidando ciò che era rimasto del mio cuore. Era suo. Eppure così, mi sentivo facoltoso di emozioni più che mai. La sua vicinanza mi faceva vibrare, mi dava la scossa, mi caricava. Mi eccitava.
«E ostello della gioventù sia,» disse Carlo, sfinito, al termine della corsa fino a Torino. La neve aveva rallentato il viaggio in auto, ragion per cui avevamo avuto modo di ragionare in maniera approfondita le possibili soluzioni circa dove dovevo alloggiare, dal momento che in casa sua non ero un ospite gradito. Aveva preso una piega orribile quella seconda trasferta. Orribile come la neve che prese il posto della pioggia di quei giorni trascorsi a gennaio. Non faceva in tempo a sciogliersi di giorno, che di notte altra immacolata neve cadeva silenziosa e irritante.
«Dimmi quanti soldi hai_»
«Non devi preoccuparti Carlo,» bloccai sul nascere l'ennesimo problema. «Ho il premio in denaro del concorso. Sono molti, credimi. Potrei pagare l'alloggio per due o più persone senza alcun problema.»
«D'accordo! Allora vengo anch'io all'ostello!» strillò.
Ecco, caro Diario, la questione sulla scelta di Carlo, se vivere con me o restare con i suoi, la risolse con l'ultimo urlo spacca timpani. Aveva scelto spontaneamente di stare con me senza che glielo chiedessi. Chissà come l'avrebbero presa i suoi. Confesso che gongolai dentro me, maligno come non mai. È stato più gratificante che fare a botte.
Meno gratificante è stato aggirare la zona di casa sua per non incrociare i genitori e trovarci di fronte a una colossale struttura dall'aspetto piuttosto familiare, nonostante fosse la prima volta che la vedessi. Le inferriate alle grandi finestre a lunetta sembravano promettere claustrofobia. L'unico portone, ampio, dall'aspetto severo, invogliava a stare alla larga da quel posto. Di diverso gusto era la veduta di fronte, dove la neve dipingeva di un unico colore un grande, e austero giardino. Una forte contraddizione paragonato sl volto minaccioso dell'ostello. Giuro, avevo timore di entrare.
«Non prenderla a male, Carlo biondone del mio cuore, ma dove cazzettopoli mi hai portato? Sembra un'altra caserma, di' un po', non ne hai ancora abbastanza?» Tuonò una risata che a momenti cacciava fuori tutti i denti, piegato sullo sterzo, colpendolo come un matto.
«Ecco, vedi, è, cioè, una volta era la caserma dei pompieri,» cercò di spiegarmi in modo sconnesso, quell'adorabile farabutto biondastro di Carlo, «poi l'hanno fatta diventare un ostello. L'Ostello Combo. Ti dico che non ho mai visto com'è dentro,» rise ancora, l'amabile stronzo. «Speriamo ci sia posto,» aggiunse dopo essere scesi dalla Uno rossa.
«E chi vuoi che voglia stare in un posto così tetro? Sarà vuoto come la mia testa!» dissi apposta per rincarare il suo divertimento. Comunque, no, l'apparenza, almeno per una volta, mi aveva ingannato. Era ovvio che una volta l'ostello era una caserma, lo si intuiva dagli interni ampi, i soffitti vertiginosi, e i corridoi chilometrici e larghi. Alla reception c'era ad accoglierci una sorridente coppia di ragazzi, poco più grandi di noi. Portavano un pullover rosso fuoco, a tema con l'ex caserma dei pompieri. Il ragazzo, dietro al bancone monumentale, aveva capelli neri arruffati. Un po' in carne, ma bonario nei modi. Si occupò lui dei documenti che la collega ci domandava. Una ragazza dalle spalle larghe, collo sottile e coda di cavallo castana. La frangetta sulla fronte era luminosa, come gli occhioni chiari. Nel frattempo che espletavano la nostra registrazione, a turno, e senza coprire l'una la voce dell'altro, ci illustrarono le regole base della convivenza con gli altri clienti. Infine ci chiesero giorni e tipo di camera.
«Dieci giorni, oggi compreso, per due, camera doppia, paghiamo in anticipo, in contanti,» dissi spiccio, e la ragazza afferrò al volo. Gli occhi ora spalancati.
«Normalmente impieghiamo una dozzina di domande per chiarire... ma lei è un concierge?»
«Ho lavorato come tuttofare in un hotel, certe espressioni ti rimangono dentro alla fine,» sorrisi appena e lei ricambiò, poi fece per chiamare qualcuno per accompagnarci alla camera assegnata, ma il collega si offrì di farlo con la scusa di sgranchirsi le gambe.
Portammo le valigie al piano di sopra, dove gli odori di cucinato addolcirono l'austerità della sala comune, che si allontanava dalla vista man mano che salivamo le scale scoperte. Alcuni ragazzi seduti ai tavoli alzarono la testa per vederci senza timore di apparire indiscreti. Di tanto in tanto alcune porte aperte delle camere invitavano a buttare un'occhiata. Apparentemente non c'era nulla di nuovo, se consideravo i letti a castello, simili a quelli che avevamo lasciato nella caserma di Gorizia. Quelli dell'ostello però erano eleganti, con trapunte bianche e colorate, e con separé a scorrimento. Erano più accoglienti.
Il nostro accompagnatore ci scortò in fondo al corridoio, e quando aprì la porta ci presentò la nostra camera. I letti erano bassi, uno affianco all'altro, posati su un rialzo del pavimento. Poco mancava sembrassero dei letti orientali. Le trapunte lisce e candide, i guanciali immensi, le tende azzurre alla grande finestra a lunetta, da dove la neve sul giardino rifletteva chiarore immacolato. Più in là c'era una cucina e la porta aperta affianco indicava il bagno privato.
«E quest'è tutto,» disse la nostra scorta alla fine, «vi raccomando solo di essere discreti, ragazzi,» il tono imbarazzato. Colsi il segnale. Aveva intuito qualcosa.
«Questa camera vale il prezzo stipulato,» dissi lanciando l'amo a Carlo, che abboccò.
«Avremmo gradito anche qualcosa di più discreto.»
«Sì, ragazzi, ma sareste continuamente disturbati dagli altri ospiti. Qui invece starete tranquilli,» ci rivolse il sorriso, stavolta da persona sincera, non da venditore. Lo gradimmo, così come lui gradì la mancia che gli allungò Carlo prima di chiudersi la porta alle spalle.
«Quello ha capito che stiamo insieme, non ho dubbi.»
Carlo si guardò intorno prima di rispondermi con un grugnito. Sembrava un'animale appena catturato. Aveva bisogno di chiarirsi con i suoi. Onesto ragazzo. Io me ne sarei sbattuto. Ma lui no. Mi aveva detto che i suoi genitori stavano ancora affrontando la sua realtà, il suo essere gay. Ma non mi aveva detto che erano lontani dall'accettarlo.
«Senti...» sussurrò appena, la mano dietro la nuca.
«Abbassati i pantaloni!» gli coprii la voce. Intimorito non obbedì. Era pietrificato, con le spalle vicine alla porta chiara di frassino intagliato. Mi avvicinai in mezza falcata, gli sorrisi appena, mi piegai lentamente, e giunto in ginocchio feci da me. Gli sciolsi la cintura, rapido, e il cuoio fischiò l'aria manco fosse la frusta del torero. Sbottonai prepotente il pantalone di jeans e con stizza li calai giù. E mi resi conto di quanto mi stavo eccitando mentre lo spogliavo.
Mi piacque così tanto quello che stavo facendo che non mi accorsi che lui stava borbottando reticenze. Appoggiai le mani sulle cosce, le feci risalire su, e le Infilai sotto gli orli inferiori del boxer, lanciandole cieche alla breve ricerca delle sue palle e dell'uccello. Carlo inframmezzò un verso gutturale tra un borbottio e l'altro. Lo fissai dal basso verso l'alto. Tirai in basso i lembi dei boxer, la stoffa elastica si allungò, l'elastico superiore lasciò i segni sulla pelle dei fianchi, poi migrò verso sud del folto pube dorato, incontrò notevole resistenza nel lasciare libero il rotolo di carne di già rigido e pulsante. Il pomello lucido e libero dal cappuccio di pelle chiara, sembrava richiamare la mia bocca. La feci attendere. Affondai la punta del naso in mezzo allo scroto polposo, mentre con una mano tenevo schiacciata l'asta sul suo ventre rimasto coperto dal pullover. Il contatto della puntata scoperta dalla pelle contro la stoffa lo fece sussultare. Mi misi a succhiargli i testicoli uno per volta, poi tutt'e due insieme. L'inzuppai di saliva. Li frustai con la lingua. Oh, benché fossi io con la bocca piena, ora era lui a rimanere senza parole. Finalmente. Ero affascinato di me stesso quando mi dedicai all'oggetto del mio desiderio. Facevo scomparire e riapparire dalla mia bocca la banana vichinga di Carlo in continuazione. Profondamente. Lo sguardo su di lui. Di tanto in tanto il mio mento andava ad adagiarsi tra le sue palle ancora umide. Mi scoprii avido di lui e prodigo di felicità. Con le mani presi a strizzargli le natiche muscolose, e a spingere verso me il bacino, così da abboccare ogni millimetro del suo uccello, mezzo annegato nella mia saliva che colava fino a terra. Il respiro di Carlo era un canto chiaro, preludio dell'apice dell'emozione più grande. La più totale. La più eccelsa di tutte. Contrasse la tartaruga, si chinò avvinto dall'imminente sforzo incontrollabile. Le palle si sollevarono, ed espulse tutto il succo di giovinezza in gola, prima di riprendere fiato insieme.
Mi appoggiai a terra, i palmi delle mani sul parquet di pino, e sorrisi al volto stravolto di Carlo, che barcollò indietro e sbatté con le spalle contro la porta. Era esausto. Cacciò uno dei suoi urli alla Tarzan, e sentimmo dietro la porta qualcuno dire: «discrezione, ragazzi...» e ridemmo in modo soffocato.
«Con te è meglio non discutere,» commentò Carlo.
«Sia mai!» alzai le mani, «non so cosa potrebbe succedere! Piuttosto, ora che sei rilassato, vai a trovare i tuoi genitori. Era quello che volevi, vero?»
«Vero,» disse rimettendo a posto il personale arsenale da baccanale. «Ma sai che tornerò presto, vero?»
«E tu sai cos'altro ti aspetta, se ritorni, vero?»
«Bastardo!» mi sorrise con gli occhi illuminati. Mi offrì il braccio per alzarmi dal pavimento. Che galante. E che arguto. Ero stato davvero un gran bastardo a rallegrarlo prima del ritorno a casa sua. Lo avevo motivato a tornare da me. Un piccolo incentivo per non dimenticare quanto stavamo bene insieme. Avrei dovuto sentirmi insicuro vedendolo andare dai genitori, avrei dovuto temere che si facesse convincere a lasciarmi, avrei dovuto immaginare che non sarebbe tornato da me. Ma, caro Diario, siccome ti scrivo col senno di poi, posso solo credere che stavo vivendo una serie fortunata di periodi. Perciò non mi sorpresi quando, dopo due ore appena, Carlo mi sorprese alle spalle, abbracciandomi da dietro, chinò su me, che stavo seduto a un tavolo dell'area comune, al pianterreno, a cenare e chiacchierare con un quartetto di ragazzi lì per lì conosciuti.
«Dopo il militare andremo a vivere insieme,» mi sussurrò all'orecchio, e io gli afferrai il braccio col quale circondava il mio collo. Mi voltai e in barba al regolamento dell'ostello, baciai Carlo sotto gli occhi di tutti i ragazzi e ragazze presenti, infischiandomene della loro rumorosa reazione fatta di applausi, urla e fischi.
«Decidi tu dove!» stavolta toccò a me gridare.
«E menomale che vi avevo raccomandato di essere discreti!» esclamò il nostro simpatico accompagnatore, nonché responsabile dell'ostello Combo, comunque non disdegnante del giubilo imprevisto. Offrì da bere a tutti persino. Era davvero un periodo felice, l'avevo visto negli occhi di tutti quegli estranei che ci stavano incoraggiando a vivere la nostra vita apertamente. Ma quanto poteva durare quella fortuna? Sembrava che la dea bendata si fosse sbendata e mi stesse obbligando ad accettare tutte le elargizioni che voleva concedermi. Sarà stato forse quello il mio primo, enorme errore. Senza accorgermene cominciavo a dare tutto per scontato. Stavo gonfiando una parcella che alla fine avrei pagato con gli interessi. Ma al momento, ero troppo pieno di me, di Carlo, e dell'amore che facemmo a letto dopo finita la serara.
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