2 • Mara
26 maggio 2005
Evaristo non aveva dubbi su cosa avesse buttato nella pattumiera. Durante la passeggiata ricordò il giorno del congedo, quando si era reso conto di aver smarrito il diario mentre riempiva le valigie. Lì dentro c'era la cronaca dell'anno ceduto allo stato. Forse in quel pacchetto c'era dell'altro, ma non importante come il manoscritto. Gli riassalì l'angoscia di aver lasciato la testimonianza della sua vita alla mercé di chiunque fosse riuscito a leggerlo. Nelle orecchie risentì il tonfo della porta carraia chiudersi stridula dietro sé appena congedato. Uno stridio accusatorio, come un colpo a tradimento alla schiena. Un gay non dichiarato che presta il servizio militare. Era un reato. Sperò non fosse retroattivo. Ma visto che nessuno aveva usato il contenuto del diario come prova d'accusa, lo stridore della porta carraia aveva assunto anche un tono ancora più offensivo.
"Non ricordo se l'avevo perso per distrazione, o me lo sono lasciato rubare come uno stupido, quel dannato diario. Oh, spero che nessuno sia riuscito a leggerlo." Cercò di scacciare dalla mente i ricordi che prepotenti lo stavano portando indietro nel tempo. Un colpo di vento salmastro lo distrasse dai suoi pensieri. Profumava di mare, non era ancora sporcato dall'odore degli abbronzanti dei vacanzieri. Era un aroma che induceva a raggiungere l'acqua, come le tartarughe marine appena nate. Ammaliava. Stregava. Dopotutto Eea era il primo nome di San Felice Circeo, l'isola della maga Circe, benché non sia un'isola.
I pochi automobilisti che si trovavano a passare, sembravano incerti sul percorso. Avevano però cura di rallentare quando notavano l'unica ragazza diretta verso il mare, distratta dalla musica in cuffiette. Evaristo la notò e la seguì d'impulso. Gli occhiali neri segretavano la distrazione, tradita però dall'andatura spensierata. La chioma fluente, ondulata e nera si gonfiava abbracciata dalla brezza marina. Evaristo notò il profilo della bocca truccata, carnosa, rossa come il sangue. La pelle chiara. Insolito per gli abitanti di San Felice Circeo, dove il sole non manca quasi mai tutto l'anno. Ma era la camminata strana a incuriosirlo al punto da seguirla fino all'incrocio di via Ammiraglio Bergamini. Di tanto in tanto la brunetta gesticolava il ritmo della musica. Evaristo, temendo di essere scoperto a pedinarla, lanciava lo sguardo ora a destra, dov'erano boschetti di alti pino marittimi, ora a sinistra dove le finestre delle villette sembravano orbite quadre senza occhi.
Giunta all'incrocio, la ragazza non cercò le strisce pedonali, attraversò la strada, rallegrata dalla musica nelle orecchie, incurante di essere puntata da un'automobile lanciata in forte velocità. Evaristo imprecò, alzò il passo, raggiunse la svampita in mezzo alla corsia, la agguantò con un braccio intorno lo sterno, che scoprì nascosto sotto un seno ragguardevole, la sollevò, e insieme a lei finì al sicuro sul ciglio della strada coperto da una tenda di bouganville in fiore. Intanto l'autista sfrecciò suonando il clacson e urlando sconcezze in romanesco.
«Figlio di puttana! È un centro abitato, non la strada per andare a fare in...» fece eco Evaristo.
«Ma che caspita!» imprecò la ragazza, lottando contro i tralci fioriti che le frustavano il volto e il braccio saldo di Evaristo stretto in vita.
Evaristo sciolse la stretta sulla ragazza e le strappò stizzito le cuffiette. «Sul serio non ti sei accorta di camminare in mezzo alla strada con la testa tra le nuvole?» La ragazza si tolse gli occhiali con un gesto superbo e lo fissò cercando di inquadrare l'individuo nascosto tra le fronde fiorite. Arrivò ad aprire la bocca e una grossa ape le si posò sul labbro inferiore usandolo come un balcone. Altri due insetti finirono aggrappati sulle sopracciglia di Evaristo che li scacciò incauto. «Ma che ca...» Entrambi riempirono i polmoni e urlarono: «Cooorriii!» aggiungendo varie altre imprecazioni lungo la traversata della strada. Era l'unica mossa sensata, se non fosse che avevano attirato tutto lo sciame appresso.
«Andiamo in acqua!» dissero ancora insieme. Di fatti oltre l'incrocio la strada che avevano imboccato puntava dritta sulla spiaggia libera. Poche anime presenti videro la coppia urlante sbracciarsi e buttarsi in acqua. E le api? Oh, erano proprio incavolate. Ronzarono attorno al pelo dell'acqua in attesa di rappresaglia. Evaristo osservò la ragazza sott'acqua. Aveva grandi occhi scuri, il volto affusolato sembrava quello di una creatura marina. Il momento critico però non invitava a indugiare su certe facezie. Trattenendo il fiato, guardò oltre la barriera liquida, emerse e a piene mani prese a schizzare acqua in tutte le direzioni. L'altra, rimasta a corto di ossigeno, lo imitò. Le api deposero i pungiglioni solo dopo l'annegamento di molte compagne.
Fradici fino alle ossa e con i capelli incollati in faccia, gli scampati alla furia degli insetti si trascinarono gocciolanti sulla spiaggia. «Questa è proprio una pessima giornata, santa banana!»
«Santa banana!» ripeté l'altra, sorpresa dalla singolare imprecazione. «Ma chi sei?» domandò guardando accigliata il risultato della nuotata fuori programma. Il fiatone che faceva fare gli straordinari al diaframma sollevando ripetutamente il seno. Borbottava stiracchiando il top nero e la gonna corta che erano scivolati verso l'alto scoprendo le cosce polpose. Allungò l'occhio verso l'altro. Tralasciò i sandali dozzinali che portava ai piedi, le gambe muscolose, visto che indossava pantaloncini molto corti, e si concentrò sulla statura. Si soffermò sul petto, che Evaristo liberò dalla maglietta verde militare con un gesto rapido mentre pronunciava il proprio nome, e poi la sventolò all'aria per agevolare l'asciugatura.
«Be', fare il bagno a fine maggio n'è valsa la pena almeno!» rise registrando il volume di quel petto. «Sono Mara, piacere,» allungò la mano ed Evaristo l'accettò.
«Sì, n'è valsa la pena. Avevo fatto la doccia. Stranamente però, mi sento più pulito adesso!» Evaristo guizzò gli occhi alla ricerca di altre api. Non ce n'erano. La sabbia dorata era mossa da un po' di vento, sopraggiunto da poco, e smuoveva il primo tepore dell'anno. Il sapore dolciastro dei fiori danzava col salmastro del mare. Mara intanto continuava a parlare, ma lui sembrava non ascoltarla. Così a un certo punto iniziò a cantare: «like a virgin...»
«Touched for the very first time...» fece eco Evaristo.
«Ah! Che bella voce canterina! Lo sapevo, sei gay. Che spreco però. E io che stavo cercando di flirtare... che scema.» Evaristo rimase indifferente. Anche quando la vide togliersi il top e unirsi allo sventolio asciuga panni, non batté ciglio. Però sorrise. Mara invece non era indifferente nei suoi confronti. Si costrinse a non fissare quel maledetto petto, ma ahilei non ci riusciva. Nemmeno quando propose uno scambio di battute più approfondite, l'attrazione per la fisicità di Evaristo non diminuiva. Però lo sentiva distante, nonostante ora fosse partecipe ai suoi discorsi.
«Beh, che ne dici? Visto che mi hai più o meno salvato da un incidente stradale e dallo sciame incazzato, ti offro il pranzo, tanto è quasi ora. Vieni!» disse risistemandosi il top asciutto. Evaristo la imitò. Dapprima rimase un po' incerto su dove Mara voleva portarlo. Ma poi individuò nelle vicinanze della spiaggia libera una tavola calda con l'insegna "Eea-tavola!"
«Non l'avevo mai notata. Eppure abito qui vicino.»
«Sei single?»
«Divido casa con uno.»
Mara soffocò un sospiro forse di delusione. Non sapeva dirlo. «Questa tavola calda serve i bagnanti squattrinati, o comunque quelli che non hanno voglia di sborsare per godersi il mare.»
«A saperlo ci sarei venuto. È da un anno o giù di lì che abito in zona.»
«Perchè, prima dov'eri?»
«Un po' dappertutto,» liquidò rapido Evaristo, eludendo la curiosità di Mara. Lei fece una smorfia. Giunta per prima alla porta della tavola calda, l'aprì con un gesto rapido. Il tintinnio della campanella urtata riscosse Evaristo, rimasto attratto per un attimo dal cartello affisso sull'ampio vetro della finestra dove c'era scritto: "cercasi personale".
«Che fai? Non entri?» domandò Mara, e con un gesto del capo lo esortò a seguirlo e lui la raggiunse in una falcata. Seduta a capo chino su un angusto bancone della cassa c'era una donna, la cui chioma crespa color cenere sembrava uno scopettone.
«Buongiorno Elvira!» squillò lei facendola sobbalzare. Elvira strizzò gli occhi per abituarli al campo visivo più ampio.
«Oh, Mara! È un piacere vederti in puntuale ritardo. Cos'è? Hai trovato traffico oggi per strada?»
«Sì, e ho rischiato un incidente stradale, e poi sono stata inseguita dalle api e poi, grazie a questo fusto, mi sono dovuta fare il primo bagno della stagione!»
«Se non fosse che le tue scuse mi affascinano ogni giorno sempre più, ti avrei già licenzita!»
«Confermo, signora. È andata come ha detto Mara,» intervenne Evaristo, ed Elvira, richiamata dal suo timbro argentino, lo inquadrò in tutta la sua altezza. Ben oltre un metro e ottanta di vigoroso esemplare maschile dallo sguardo serio.
«Oooh! Non so proprio da dove iniziare a guardarti!» Di fatti era indecisa se fissarlo negli occhi ambra chiara, oppure indugiare sulle braccia tornite. Alla fine però, fu ancora il petto ad aggiudicarsi più punti. Elvira si riscosse e cacciò fuori dalla borsa tarocca di Fendi rossetto e specchietto.
«Ma, Mara! Avresti dovuto avvisarmi che avremo avuto ospiti!»
«Stai serena Elvira, tanto è gay!» La donna rimase con la bocca spalancata e il rossetto in mano. Sembrava volesse mangiarlo.
«Davvero? Che spreco!»
Evaristo rimase impassibile. Era abituato a deludere le fantasie delle donne.
«Cosa l'hai portato a fare, se posso chiedere?»
«Gli offro il pranzo...»
«E vorrei propormi come personale richiesto dall'annuncio affisso fuori, signora.»
La prontezza di spirito di Evaristo colpì Elvira, la quale tornò a truccarsi la bocca ora sorridente.
«Sai cucinare?» chiese Mara, mentre si legava il grembiule verde acqua e si sistemava la chioma sotto un cappellino dello stesso colore.
«Ho fatto qualche turno qua e là per sbarcare il lunario.»
«Quanto sei ermetico,» ribatté Mara. «Siediti a un tavolo va!» Poi si rivolse alla finestra in fondo alla saletta usata come passaggio per le vivande. Ordinò il pasto del giorno. Evaristo prima di sedersi a uno dei dodici tavolini lanciò l'occhio verso quel punto, ma gli parve che non vi fosse nessuno. Sentiva odore di frittura stantia. Vedeva la cucina, il banco di lavoro e scaffali d'acciaio illuminati dai neon. Quando arrivò il suo piatto però capí di essersi sbagliato. Era tuttavia curioso di vedere il cuoco, anzi i cuochi, dato che Mara si era rivolta al plurale. Ma rimandò la curiosità appena vide il piatto fumante tra le mani della cameriera. La invitò a unirsi, ma ella declinò energicamente. Affrontò quindi da solo i ravioli ripieni di polpa di granchio, l'insalata di seppia, patate e fave verdi buttata a caso a un lato del piatto e una ciotola di pomodori e scaglie di pecorino romano. L'aspetto era sinistro, ma la fame di Evaristo era più aggressiva. Niente odorava di fresco e il sapore glielo confermò, ciononostante divorò tutto trattenendo il respiro per non accentuare la dubbia fragranza.
«Quando saresti disponibile per iniziare a lavorare, Evaristo?»
«Se non dovrò ricoverarmi per intossicazione, anche subito signora Elvira!» annaspò Evaristo tutto sudato, e Mara se la rise della grossa.
«Va bene caro! Ma chiamami Elvira senza signora, la Signora sta in cielo!» fece l'occhiolino la donna seduta al bancone della cassa. Evaristo strizzò gli occhi nella sua direzione, ma era una reazione al tramestio intestinale causato dal pranzo appena consumato. Mara gli diede un colpetto alla schiena e lo invitò a fare un giro insieme per vedere il locale.
«Volentieri. Ho proprio voglia di conoscere chi cucina!» riuscì a rispondere prima di ricacciare a forza un rigurgito di acido che gli imperlò di sudore la fronte. Mara gli fece strada tra i tavolini sulla destra, apparecchiati solo con tovagliette e saliere mezze vuote. Sorvolò la fila sulla sinistra, dove i tavoli erano più lunghi e le sedute erano panche di legno con gli schienali uniti di spalle le une alle altre. Intorno alla finestra passa vivande c'erano post-it con appunti e lavagnette con sopra scarabocchiati nomi di piatti e menù a prezzi stracciati. Poco distante da quella, una porta a vento di dozzinale fattura indicava l'accesso alla cucina. Ma anche così vicino a quella soglia Evaristo non riusciva a vedere nessun inserviente, nonostante sentisse provenire rumori di coltelli che tritavano chissà cosa, e porte di frigoriferi aprirsi e chiudersi.
A un tratto però vide del movimento. Un vassoio ovale d'acciaio pieno di frutti di mare sembrava fluttuare a bassa quota. «Che accidenti mi hai fatto mangiare? Ho le traveggole!» Mara si trattenne la pancia dal ridere. Le uscì una voce stentata mentre chiamava a raccolta i cuochi.
Quando fu dentro la cucina al seguito di Mara, Evaristo non credette ai suoi occhi. Vide un nano su uno scranno di legno, affaccendato a tritare un cespuglio di prezzemolo sul bancone della cucina. Aveva lo sguardo accigliato. Serio. Borbottava qualcosa incrociando minaccioso lo sguardo col nuovo ragazzo. Poco più in là, vicino al frigo, una donna nana spalancò gli occhi alla vista di Evaristo. Poi aprì pure la bocca. «Oddio! Ma chi sei, Gulliver?»
«Ciao ragazzi, questo è Evaristo. Da ora in poi starà con noi,» fece cenno all'altro di avvicinarsi. «Ti presento il gruppo. Quello che gioca con i coltelli e sbatte in pentola topi e gatti morti è Romeo. Saluta Romeo!» Romeo grugnì. «Tu sei nuovo, mi raccomando, quando lo vedi con un coltello in mano stagli alla larga,» bisbigliò. «Una volta un cliente aveva trovato un dito nella minestra, ma non siamo mai riusciti a scoprire a chi apparteneva,» scherzò lei.
«È davvero così pericoloso?»
«Hai assaggiato la sua cucina, no?»
«Mmm ho i brividi.»
«Però tranquillo, gli sei simpatico.»
«Dici?»
«Sei ancora vivo, no!» Evaristo spalancò gli occhi.
«Lei invece è Cesira, non chiedermi che cosa ci fa qui non lo sa nemmeno lei.»
«Non dare ascolto a questa bambola gonfiabile. Io do una mano al cuoco quando non sono impegnata alla plonge dei piatti.» Rettificato ciò, Cesira non ebbe più nulla da dire e si limitò a osservare quel ragazzone, indecisa se puntare il viso, le gambe o il petto gonfio.
«E poi, ci dovrebbe essere anche... ma dov'è Gigi?» Mara lo chiamò allungando il collo in direzione del retro della cucina, ma non ottenne risposta. «Deve essere in pausa canna di mezzogiorno» sbuffò. «Beh, che ne pensi del nostro personale lillipuziano? Li abbiamo trovati qua e là nei giardini di Bomarzo!»
(Giardini di Bomarzo - Viterbo)
«Tua sorella!» fecero coro i nani presenti, assieme all'ultimo non ancora presentato. Evaristo trattenne lo stupore, ma non aveva parole. L'ultimo, Gigi, era un piccolo ragazzo nano muscoloso. Era diverso da Romeo che sembrava un vecchio signore con la calvizie. E Cesira, una donna rimpicciolita con il volto paffuto e la frangetta viola che scendeva a cascata sulla fronte, sotto il cappello a sbuffo che la faceva sembrare un fungo antropomorfo. Questo Gigi no, era un piccolo Adone ed Evaristo l'aveva inquadrato sicuro di non sbagliarsi.
Quando poi esclamò: «Ehi! Stoccafisso! Che hai da guardare?» apprese che aveva pure del carattere.
«Hanno il dentino avvelenato, vedo.»
«Sai come si dice: più sono piccoli...» Il tintinnio della porta annunciò l'inizio del servizio di mezzogiorno e così Evaristo, con lo scarso aiuto dei nuovi colleghi di lavoro, si ritrovò con un grembiule che nemmeno gli copriva le cosce. Non avendo però immaginato di trovare dal nulla un lavoro, accettò il compromesso inelegante.
Guardò il risultato ed esclamò: «Perfetto! Indosso una minigonna!» Mara rise e lo esortò a seguirlo, timorosa che potesse avere difficoltà il primo giorno. Invece no. Evaristo aveva avuto esperienze da cameriere e Mara se ne accorse.
«E al bar come te la cavi con i cocktails la sera?»
«Li bevo senza problemi!» rispose mentre serviva Dio solo sapeva cosa preparava Romeo. Il servizio comunque filò tutt'altro che liscio. I clienti del mezzogiorno erano per lo più operai esigenti di finire presto per tornare al lavoro. Con la pessima organizzazione della cucina fu un miracolo se non fecero tardi. Quante lamentele poi. Erano come fastidiosi ronzii che trapanavano le orecchie di Evaristo come un motivo ascoltato troppe volte. Persistette fin dopo il servizio. Nonostante ciò, Mara giudicò buono il suo operato, ma Evaristo non ne era convinto.
Terminato il servizio di mezzogiorno attorno le cinque del pomeriggio, Evaristo si trattenne fino al turno di sera. Scoprì che era il turno migliore. La gente, in massima parte ragazzi giovani, era più accondiscendente alle lungaggini del servizio. E poi sapeva la prima regola del primo giorno di lavoro: fare una buona impressione al datore di lavoro, ed Elvira l'aveva gradito più di quanto avesse immaginato.
Prima di andare via Evaristo sì ricordò di Dione, che probabilmente era rimasto a digiuno tutto il giorno, così domandò del cibo da asporto che avrebbe pagato col primo stipendio percepito. Non ce ne fu bisogno. Elvira non solo gli diede carta bianca, ma gli propose di assumere pure l'amico se voleva un lavoro anche lui.
Col fagotto preparato da Romeo, con più riluttanza di quanta dimostrata, accompagnò Mara fino all'incrocio. Lei lo salutò prima d'imboccare la strada a destra. Che strana ragazza, pensò. Volenterosa nel lavoro e autoritaria con i clienti più cafoni. Metteva in riga persino lo staff di nani più scorbutico del mondo. Era felice di averla incontrata. Un po' meno felice lo era per l'odore emanato dal fagotto che teneva appeso per le dita distante dal naso. Voleva tirare uno scherzo a Dione rifilandogli lo stesso pasto che gli avevano offerto a lui, ma già si era pentito. Pentimento però che svanì varcata la soglia di casa. Convinto di trovarlo a gironzolare, stava per chiamarlo, ma si bloccò appena avvistò una gonna e un reggiseno buttati per terra. Dall'unica stanza da letto provenivano versi inequivocabili. Ciò che gli fece cambiare idea sul pentimento dello scherzo fu anche l'involucro del pacchetto strappato e appallottolato per terra accanto alla pattumiera. Non si era premurato nemmeno di nascondere le tracce. "Ha aperto il diario! Altro che lanciere di Novara!" pensò, "un ficcanaso scemo di guerra, ecco cosa sei!"
Senza pensarci su irruppe nella stanza e sorprese l'amico avvinghiato a Tamara, la ragazza del terzo piano della palazzina vicina. Quella perennemente affacciata alla finestra, intenta a spiare loro in casa, specie quando si aggiravano nudi al mattino per fare la doccia. Naturalmente anche sotto la doccia, visto che nel bagno non c'erano le tende.
«Oh! Amore! Ma che fai? Te la spassi mentre io sono al lavoro!» sbraitò come un commediante, e la ragazza, sorpresa, cacciò un urlo e allungò un lembo di lenzuolo per coprirsi alla meglio. «E con una donna stavolta!» aggiunse Evaristo, incapace di trattenere il divertimento. Dione crollò sul cuscino, anche lui divertito dall'uscita del folle coinquilino. «E pensare che ti avevo portato anche la cena!» rincarò l'altro sventolando il fagotto pestilenziale.
Tamara, temendo un battibecco tra i due, sgattaiolò via dalla stanza a testa bassa, si rivestì quasi camminando e poi sparì dall'appartamento. Più che terrorizzata era scocciata per essere stata sorpresa a letto con Dione, e di averne frainteso l'orientamento sessuale. "Mi sembrava troppo bravo a letto per essere etero!"
«Grazie per l'intervento!» disse Dione scuotendo la testa e sbuffando risolini.
«Fin dove era arrivata la spiona, ai confetti e i mobili dall'ikea?»
«Quasi! Voleva presentarmi ai suoi» rise. «Ah, non la smetteva di dirmi ti amo...»
«Vabbè, sai come si dice: dopo il pene il pane. Toh, ti ho procurato la cena.»
Dione all'udire la parola cena scattò sulla schiena mettendosi seduto. «Come hai fatto? Hai derubato un chiosco?» Non ascoltò la risposta, era troppo affamato. Si infilò alla buona una maglietta e un paio di boxer senza distogliere l'attenzione al pacchetto del cibo.
«Non me lo ricordo. So solo che da domani siamo camerieri tuttofare della tavola calda Eea-tavola.»
«Oh, la conosco. Credevo però fosse chiusa, non ci ho visto mai nessuno,» asserì fissando il contenuto del vassoio appena liberato del coperchio. Si alzò dal letto, recuperò un paio di posate dalla cucina, si sedette su uno sgabello e divorò tutto il cibo senza interrogarsi su cosa stesse mettendo sotto i denti.
Evaristo intanto si mise a cercare il contenuto del pacchetto che Dione aveva scartato senza permesso. Non lo trovò, ma non ebbe voglia d'indagare. L'altro però se ne accorse.
«Se cerchi la tua posta l'ho aperta. Dentro ho trovato un volumetto dalla copertina rigida verde sporca di inchiostro. È un registro militare. Non ho resistito e così l'ho aperto. C'è il tuo nome sulla prima pagina, il resto scritto però, è, quello che c'è scritto non è l'elenco presenze, entrate e libere uscite. E, e...»
Evaristo ghignò diabolico. «Eeee, cosa?» fece eco.
«E toglimi una curiosità: tu sai scrivere il geroglifico?»
«E secondo te scrivo i fatti miei col rischio di lasciarli alla mercé di chiunque e farmi sputtanare facilmente?»
Dione, a capo chino sulla ciotola di pomodori e scaglie di pecorino, aggrottò la fronte. «Da qualche parte ci deve essere una chiave di lettura per il tuo codice segreto» borbottò. "Si è inventato una lingua segreta per non farsi scoprire".
«Hai detto qualcosa?» domandò Evaristo in procinto di andare in bagno.
«Ti spiace se lo tengo per un po'? Magari riesco a leggerlo!»
«Come vuoi. Se riesci, leggilo pure. Basta che non me ne parli perché per me quella è solo spazzatura».
Sul fatto che fosse spazzatura, Dione non era d'accordo. C'era qualcosa di più, era pronto a scommetterci. L'aveva sospettato dalla facilità con la quale se n'era liberato. Aveva poi avuto la conferma dal messaggio scritto, in italiano, su un foglietto da un certo Maresciallo Capo Empolese: "Sei stato un soldato modello, il migliore che abbia avuto, ma sei stato anche un gran modello di stronzone".
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