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19 • Traccia numero t(r)e

10 gennaio 1998, sabato

Dormire quella notte fu una missione impossibile. Più chiudevo gli occhi, più il volto luminoso di Carlo ricorreva nella mente. Biondo come il grano d'agosto. La mascella quadra e la bocca, che non avevo mai visto in nessuna forma tolto il sorriso, il cuore reagiva molestando il torace, facendolo sobbalzare in ogni posizione. Ad aprir gli occhi, le lucine notturne delle seconde lampade sul soffitto mi confondevano l'orario. Come potevo prendere sonno, sapendo che mi attendeva una decina di giorni assieme a lui. Eppure ero abituato a tenere tutto sotto controllo. Tutto. Nemmeno con Dione Nadal avevo provato qualcosa di simile. Neanche con i pochi altri ragazzi importanti della precedente vita da civile, avevo subito una così dolce e terribile tortura. Tra tutti un pensiero primeggiava: mi aveva cercato. Semplicemente, mi aveva pensato. Gli ero piaciuto al primo sguardo scambiato.

Del mancato sonno diedi la colpa all'adrenalina, quando il piantone sussurrò la sveglia e accese le luci principali, e scattai giù dal letto. Non consumai la colazione. Avevo fretta di andare via. Avevo suggerito a Carlo di non uscire dalla caserma insieme per non destare sospetti. Mi sarei fatto trovare nel parcheggio della stazione ferroviaria, in fondo alla via sulla quale si apriva la porta carraia.

I ragazzi dalla camerata, chiassosi tra loro, seguitavano a ignorarmi. Poco male, pensai. Meno occhi addosso era l'ideale. Ma ce n'erano due che mi stavano scrutando. Erano di Maiello. Il ragazzo dai tanti tatuaggi. Sfilai davanti a lui con la valigia, senza interrompere il contatto visivo. Che volgare. A lui feci un cenno di saluto, al quale non rispose se non con un ghigno che lo involgariva ancora di più. Prima di mostrare la schiena sulla porta, mi girai.

«Che qualcuno mi faccia trovare la branda rifatta, e con le lenzuola pulite, per favore!» alzai così tanto la voce che tutti si girarono sorpresi. Sorrisi per l'effetto sortito. Se volevano ignorare me come persona, potevano farlo, ma non avrei permesso a nessuno d'ignorare il mio grado di superiorità, quello militaresco compreso.

Chiusi la porta e sostai il tempo necessario per origliare commenti come: "Quello è diventato caporale capo facendo pompini al tenente colonnello Manin!". Entrai di nuovo nella camerata e sorpresi il tipo alto e grosso che di spalle continuava a insultarmi. Qualcuno gli fece un cenno, e lui si girò rimanendo di stucco. Non gli dissi nulla. Nessuno parlò. Adorai il gelo che ero riuscito a evocare in tutta la camerata con la mia sola presenza. Andai via soddisfatto. Ero troppo felice per rovinarmi l'esistenza.

Trascinai la valigia fino alla stazione. Certo, avevo salutato i piantoni di guardia alla porta di servizio, ma come tutta la strada e il vento preso in faccia, l'avevo rimosso dalla memoria, proprio come fanno i pesci rossi che dentro la boccia di vetro per loro l'ambiente è sempre nuovo.

Attesi che mi raggiungesse Carlo, così come ci eravamo messi d'accordo. Aspettarlo mezz'ora o poco più, è stato l'unico momento in cui tradii sfiducia. Poteva essere tutto uno scherzo. Insomma, quante possibilità ci sono che un colpo di fulmine possa essere ricambiato. Nella maggior parte dei casi la saetta fulmina solo un destino. No. Per una volta nella vita colui che volevo era lì, a sbracciarsi dietro una Uno Fiat rossa, biondo e urlante, a indicarmi la strada verso sé. Lo raggiunsi scuotendo la testa.

Non ci dicemmo nulla, non ci salutammo, non mi aiutò a sistemare la valigia nel portabagagli, non mi indicò nemmeno di salire in auto. Avevamo inteso fosse tutto superfluo. Come se ci conoscessimo da sempre, anche se ancora doveva partire il nastro dei ricordi che insieme avremo registrato lungo il viaggio.

Bandimmo con un tacito accordo ogni parola inutile a favore delle reciproche curiosità. Curiosità che non aspettavano altro che esplodere nel disordine delle domande con le quali affollammo lo spazio tra noi, dopo appena allacciate le cinture di sicurezza. L'ordine non ci interessava. Non ne avevamo bisogno. L'ordine naturale delle cose lo chiudemmo fuori dalla macchina, con i profili delle case e palazzi che presero a scorrere nelle cornici dei finestrini e del parabrezza. E mentre Gorizia era già lontana, io e Carlo eravamo sempre più vicini grazie a ogni risposta alle domande poste l'uno dall'altro.

Il sole freddo dell'inverno friulano aveva scelto un cielo terso per risplendere, e fare del volto di Carlo la sua stella polare. Lo vedevo splendido, mentre studiava il traffico e le indicazioni stradali, il profilo serio, i corti capelli germogli di grano brillavano. Sapeva che lo stavo osservando e mi piaceva che se ne fosse accorto. Era sempre attento.

Anche le sue domande erano piene di attenzione su ogni sfumatura.

«Evaristo, ma da dove vieni?» Approfittò del semaforo rosso per armeggiare con il vano portaoggetti.

«Mi sembrava avertelo già detto.» Invece non gliel'avevo detto, e lui lo sapeva. Si chinò dalla mia parte, aprì il cassetto, tirò fuori uno strofinaccio e lo passò sul parabrezza con tanta forza da fare ondeggiare gli ammortizzatori.

«Fa niente, dimmelo di nuovo. Anzi, hai fatto colazione? Io no.»

Risi. «Gagliano Leuca, provincia di Lecce, in Puglia. E no, avevo fretta di vederti. Non ho mangiato niente.»

«Bene!» Scattò il verde e ripartì. «Aspetta! Da dove vieni? Ma che ci fai qui? Perché non hai chiesto l'avvicinamento quando stavi all'altra città? Vabbè. Appena arriviamo in un posto decente, ci fermiamo perché ho fame. E poi mi spieghi!» gridò come il giorno prima, facendomi sobbalzare e ridere.

In meno di mezz'ora il luogo ideale per la prima colazione assunse il nome di Palmanova. Bel nome. E bella città. «La pianta della città ha la forma di un ottagono, proprio come la Piazza Grande,» disse indicandola, mentre parcheggiava là vicino.

Seguendolo lungo il piazzale coperto di ghiaia, che scricchiolava sotto i piedi, e ignorando il monumento alla bandiera, gli chiesi quanto tempo ci voleva per arrivare a Torino.

«Per l'ora di pranzo saremo a casa. Non sono nemmeno le sette.» Faceva molta attenzione agli orari dei pasti, e soprattutto al posto dove fermarsi in quella mattina. Scelse un dehor riscaldato da dove si vedeva il Duomo del Santissimo Redentore. Il cameriere fu rapido a individuarci e a servirci cappuccini, croissant alla crema, al cioccolato e un paio di porzioni di crostata ai frutti di bosco, con tanto di spolverata di zucchero a velo come richiesto da Carlo. Profumava tutto di appena sfornato.

«Ti piacciono i dolci?»

Con la bocca piena, ingobbito sul cappuccino, mi rispose che era ipoglicemico. «Devo mangiare sempre qualcosa per evitare le crisi.» Mi venne da sorridere con più evidenza e lui se ne accorse.

«Ti faccio ridere?»

Avevo già messo la lingua contro i denti per sibilare il "sì", poi lo cambiai subito con un «no,» il volto più serio possibile. «È che mi sono ricordato di un tipo al quale i dolci piace prepararli.»

«Chi è? Dove l'hai incontrato? State insieme?»

Intonai: «Se stiamo insieme ci sarà un perché...» Carlo alzò gli occhi aprendoli un po' di più. Qualcuno seduto ai tavolini attorno si girò, attratto dalla canzone che avevo citato. Non mi piacquero gli sguardi estranei su me. Non mi piaceva l'idea che estranei ascoltassero o percepissero più del dovuto da quei versi. Decisi perciò di raccontare a Carlo di Dione Nadal, di com'ero stanco quel primo giorno di naja, di quanto morivo dal sonno passata la mezzanotte, di com'ero stato suscettibile nei riguardi del mio cognome storpiato con l'accento durante il contrappello, di come, già steso sulla branda superiore, Dione Nadal mi era venuto a redarguire per averlo corretto dicendogli: "Macrame senza accento, chiunque cazzo tu sia!" Di come venne a chiedermi chissà cosa e io che gli avevo risposto in modo erroneo, e lui, per ripicca mi aveva promesso di mettermelo nel sedere, al che, ormai, a un passo dallo svenire dal sonno, invece di sbadigliare avevo emesso un sonoro sospiro, che era suonato come un invito a saltare su nella branda e a darci da fare. E di come ciò fece ridere tutte le camerate attorno. Proprio come in quel momento stava ridendo Carlo, con la testa sollevata di lato, le briciole della crostata eruttate dalla bocca, e le mani sulla pancia. Mi contagiò.

«Sei stato insieme a lui? Lui com'è?» mi domandò con la curiosità di chi si aspetta una bugia come risposta. Sembrava un genitore che chiede al figlio con la faccia piena di Nutella se l'avesse mangiata, e riceve un no come risposta.

«Non si rimane indifferenti davanti ai suoi occhi verdi. Ma non è stato solo per gli occhi chiari. Mi aveva conquistato il suo cercarmi. E no. Non saremmo mai potuti stare insieme. Non condividiamo lo stesso pasto.» Azzardai a rubargli il mezzo croissant che aveva risparmiato come ultimo boccone nel caso non gli fosse piaciuta la crostata. Me lo lasciò prendere. Si adagiò la schiena sullo schienale della sedia per studiare la mia reazione.

«Se gli avessi detto che tu sei_»

«Lo sa. Gliel'avevo detto poche ore dal congedo. Ma non aveva fatto una piega. È una persona corretta in cerca di un amico, e come tale mi aveva sempre trattato.» Dopo una pausa impercettibile, orientai il discorso verso lui. «Da quando ti ho servito quei due dolcetti, Carlo, non ho fatto altro che aspettare di rivederti. Di Dione Nadal non mi è rimasto nulla.»

«Sai che ti dico? Peggio per lui, meglio per noi. Anch'io sono stato attratto da ragazzi che non potevano offrirmi ciò che cercavo. Credo sia un rito di passaggio.» Avrebbe voluto proseguire con la conversazione nel confortevole dehor riscaldato, ma c'era un viaggio che ci attendeva. Finimmo presto la colazione, e pagammo il cameriere il conto. Carlo richiese altri dolci da portare via per il viaggio. Io lo imitai chiedendo della pasticceria salata. Lo zucchero non fa tanto per me.

Più attivo di prima, Carlo riprese a guidare. Aveva rimandato la domanda che sapevo gli stava premendo sul petto. Non gliela feci pronunciare.

«Sì,» dissi. «Tipi come Dione Nadal inducono a pensare. E ad annegare negli stessi pensieri. Senza nessun appiglio che possa trarre salvezza.»

«Quindi, tu, non ti sei salvato.» Aveva capito. «E adesso?»

Non mi ricordo se avevo sorriso, però intuii ciò che voleva dicessi. «Un giorno un ragazzo mi ha fatto segno due con le dita, mentre servivo le sfoglie alla crema. E da quel momento Dione Nadal ha perso ogni significato possibile. Non sapevo che i dolci facessero quest'effetto.» Per un solo istante Carlo distolse lo sguardo dalla strada per incrociarlo col mio, e convincersi finalmente che era lui che volevo.

Eravamo già sulla superstrada quando, concentrato sulla guida, Carlo decise di ribattere in forte ritardo. Aveva forse preso tempo per scegliere le parole. Chissà. «La schiena.» Non capii. «La schiena, la postura, il modo d'indicare quello che c'era da fare per il famoso presepe, la testa china e le mani affaccendate a dipingere le statue dei personaggi. È stato tutto questo a farmi pensare a come sei. Ti avevo spiato tutto il tempo che mi è stato possibile. E tu non te ne sei accorto.» Sospirò. «Ma la schiena, la tua schiena mi ha parlato di te.»

Mi aveva colto impreparato a quella risposta. E io che davo sempre più importanza solo a ciò che i miei occhi registravano davanti a me. Il viso, le braccia, le gambe, il petto. La schiena, no. Nessuno è in grado di vedersi la schiena.

«La schiena dice molto di una persona. Più del viso. Le schiena è vulnerabile. È la pagina dove ognuno scrive la propria vita e la mette alla berlina. Anche se non tutti sanno leggerla.»

«La mia cosa ti ha detto? Cioè, cosa hai letto sulla mia schiena?»

«Mi ha fatto immaginare a uno spazio libero. Mi ha parlato di libertà. Mi ha detto che, se decidessi di entrare in quello spazio libero per poi uscire, quella uscita diventa irrimediabilmente definitiva.»

Mi aveva capito. Non ho bisogno di giri di parole nemmeno con te, caro Diario. Carlo mi capiva più di me stesso. Era un osservatore.

Avevamo sorpassato il profilo di Portogruaro, e la confidenza tra noi avanzò di livello, come a seguire l'esempio della strada percorsa. E prima di smarrire l'ultimo barlume di estraneità, semmai c'è ne fosse stata mai tra noi, Carlo ne approfittò per aprirsi. Con gli estranei viene facile aprirsi, si sa.

«A casa sanno tutto di me. Non sono del tutto contenti, ma stanno facendo i conti col fatto che sono gay. Ho avuto esperienze, ma nessuna importante.» Fece una pausa. «Che palle!» urlò infine. Un po' me lo sentivo che l'avrebbe fatto. Tuttavia sobbalzai lo stesso. Notai un po' di malinconia nei suoi occhi. Glielo feci notare.

«Pensavo. Se tu avessi richiesto l'avvicinamento, non ci saremmo conosciuti. E io?»

«E tu, cosa?» lo incalzai, incuriosito dell'eventualità che stava cercando di articolare.

«E io?!» urlò di più. Poi lanciò una mano sul cruscotto, mi indicò qualcosa, io capii che cercava una musicassetta da inserire nel mangianastri. Traccia tre. L'apparecchio musicale era all'avanguardia, considerata la vecchia generazione alla quale apparteneva, perciò era predisposto alla selezione dei pezzi. Misi su la canzone che voleva.

«Strano. La conosco. "This kiss" di Fait Hill. È dall'inizio di quest'anno che va molto in onda alla radio. I ragazzi in cucina si scatenano quando la diffondono.»

«Cantala, allora,» mi disse serio. «Prima al bar ho sentito che sai cantare.»

«Lo faccio meglio in privato. Sotto la doccia.»

«Fa niente. Canta.» Cantai, sì, però tra un verso e l'altro gli chiesi come mai ogni tanto urlava mentre mi parlava. Era emozione. L'emozione, rettificò, ponendo in evidenza il senso assoluto del termine. Di cosa? Di stare con me. Confessato ciò, Carlo aveva annullato una volta per tutte le ultime distanze. Così toccò a me imitarlo, rivelandogli che prima d'incontrarlo mi sentivo al verde di emozioni. L'espressione non gli piacque. Al primo semaforo rosso di una via di chissà quale parte del nord-est italiano, allungò le mani sul mio viso e mi baciò a lungo, fino quasi a ignorare il semaforo ora verde, e delle proteste degli automobilisti dietro che suonarono il clacson all'impazzata.

«Criminali! Toglietevi di mezzo!» Ci Gridò contro qualcuno sorpassandoci. Ridemmo. Eravamo ancora bocca contro bocca. «This kiss, this kiss, it's criminal,» sussurrai un verso della canzone prima di reclamare il secondo bacio.

L'Adige, dopo un paio d'ore, segnò lo scorrere di Verona all'orizzonte nord. Era la città di Dione Nadal. Ma questo Carlo non lo seppe mai.

Passata Desenzano del Garda, e la larghezza visibile del lago più grande d'Italia, ci fermammo a un autogrill per bere qualcosa, e anche per smaltire un po' le vertigini da viaggio in auto. «Non ce la faccio!» disse di punto in bianco, mentre raggiungevamo il self-service autostradale.

«Ti do il cambio alla guida, se sei stanco.»

«Sono felice!» gridò alzando le braccia e abbracciandomi un attimo dopo, fottendosene di attirare gli sguardi di decine di persone attorno. Sì. Mi baciò in mezzo alla gente. Carlo non avena paura di essere felice. Era la sua forza.

Di ritorno al parcheggio, dove estranei ci guardarono giudicanti, mi fece sedere al posto di guida. «Tocca a me osservare te guidare,» disse raggiante.

«Basta che mi fai da navigatore, perché è ovvio che non conosco la strada.» Non ebbe nulla da ridire. E lo ammetto, era bellissimo essere osservato da lui. Quanto ancora dovevamo scoprire l'uno dell'altro lo registrammo lungo la strada che circumnavigava Milano, dalla parte nord. Seppe che non mi piaceva viaggiare, se non per motivi strettamente necessari, come andare a casa sua quel giorno. Che a lui non piaceva il treno, perché lo rintronava troppo il rumore dello sferragliare sui binari. Che aveva una sorella minore di un anno. Che io avevo sia una sorella che un fratello. Che i suoi genitori avevano un bar in una bella zona di Torino. Che mio padre era un ingegnere civile, e mia madre un negozio di alta merceria. Altre cose ancora. A lui piaceva correre, a me la palestra, lui non praticava arti marziali, io confessai di essere cintura gialla di jujitsu.

Tutto insomma. Alla fine sapevamo tutto l'uno dell'altro. Mancava solo la nostra pelle nuda all'appello, e lo sapevamo. Lo avvertivamo. Lo aspettavamo quel momento in cui avremmo completato la reciproca conoscenza. Arrivare a dire: non c'è più nulla da sapere, soltanto da dare. Ma non era una necessità da soddisfare al freddo e nello squallore di un'auto in corsa. Carlo aveva voglia di stupirmi, e ci riuscì confondendo in modo studiato le vie da percorrere, quando finalmente entrammo a Torino, e lui riprese il comando sulla guida. Qual era lo scopo del voler percorrere il giro più lungo prima di arrivare a casa sua? Passare per via Montebello e impressionarmi con la Mole Antonelliana, che nemmeno sapevo esistesse. Fu Carlo a svelarmi il nome. Era da brivido. «È favolosa!» esclamai, e lui, studiando la genuinità della reazione, mi promise che avrebbe fatto l'impossibile per portarmici. L'impresa non fu nemmeno difficile, dal momento che la sua casa era vicina e il bar di famiglia era al piano terra sul viale San Maurizio, dove parcheggiò urlando: «Finalmente, siamo arrivati!» Scendemmo barcollando un po' per il freddo e un po' per le vertigini da viaggio.

Mi fece strada fino al bar Giulius, un bellissimo locale luminoso e spazioso, con tanti tavolini. Non c'era molta gente. Le feste erano finite, nonostante le decorazioni natalizie e tanti prodotti dolciari a tema esposti inducevano a pensare il contrario. Senza troppe cerimonie mi fece conoscere la madre, affaccendata al bancone con i bicchieri da lucidare. Aveva corti capelli ricci e biondi. Truccata con rossetto color rosa perlato e ombretto azzurro. Mi squadrò appena mi vide. Aggirò il bancone per riabbracciare il figlio, e nonostante mi avesse offerto la mano da stringere e un sorriso educato, avevo l'impressione che non saremmo andati d'accordo.

«Sono Evaristo, e sono davvero felice di conoscerla signora!» Ricambiai il sorriso.

«Chiamami Annachiara, Evaristo, non ci sono problemi. Andatevi a sedere, adesso vi porto qualcosa da bere, e tra un po', saliamo su per pranzare,» disse asciutta.

«Mamma, mi raccomando, siamo affamati, non farci aspettare troppo!» esclamò Carlo, fintamente impaziente. Poi mi pilotò verso il banco della cassa, dove un signore panciuto e con i baffi a manubrio, stava stampando gli scontrini ai pochi clienti assiepati. Era suo padre Luigi. Aveva l'aria di essere ubriaco, ma mi sbagliavo. Aveva l'aria di essersi appena svegliato, ma comunque attento mentre maneggiava la cassa.

Non nascosi d'essere agitato quando mi sedetti a un tavolino davanti a Carlo. L'ambiente attorno era una novità opprimente. Ero teso e Carlo lo vedeva. Tuttavia non disse nulla, a parte distrarmi con la storia del locale. Era antico, risaliva all'ottocento. Altro non ricordo. Ricordo però l'irruzione della cameriera mentre ci stava servendo da bere.

«Oh, Carlo! Bentornato!» tuonò la ragazza. Una rossa naturale sbiadita, senza lentiggini. Mi squadrò come un fulmine. «Questo è il tuo nuovo ragazzo? Quant'è brutto! Vi siete già sforbiciati?»

«Vaffanculo!» dicemmo insieme. Carlo però sorrideva alla cameriera.

«Evaristo, ti presento mia sorella Irene, detta Guerrafondaia.»

«Merda!» mi tappai la bocca con le mani, mi alzai impacciato e cercai in qualche modo di scusarmi. Quella mi sorrise e mi mollò un pugnetto sul petto.

«Tranquillo, noi qui si scherza.»

Tornai a sedermi e a osservare Carlo col gomito appoggiato sul tavolo e il palmo a tappare mezza bocca ridente. «Scusa, non te l'ho detto, la mia casa è una gabbia di matti.»

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