18 • Io faccio come vorrei
21 luglio 2005, giovedì
La scoperta del segreto di Tazio non aveva tolto nulla al terzetto: Evaristo, Dione e Mara. Semmai l'aveva fatto diventare un quartetto. Ora, privato del peso, il vero Tazio dalla parlantina da comare poté uscire allo scoperto, anche se continuava a collezionare disastri durante i servizi. Le due cose non erano collegate, come aveva immaginato Dione. Si convinse che Tazio non aveva attitudine a servire, forse nemmeno a lavorare in generale. Un particolare che non era sfuggito nemmeno a Elvira, che comunque lo tollerava credendo facesse piacere agli altri dipendenti averlo tra i piedi. Tazio ne era ignaro. Era pieno di sé e della sua condizione identitaria. Accettava anche che si discutesse della sua storia di transgender, ma solo in segreto, durante la chiacchierata di fine serata. Ne aveva di argomenti a favore dei transgender. Secondo Evaristo anche troppo. Grugniva seccato tutte le volte che partiva il disco.
«Se dobbiamo farci le treccine pure stasera con la parabola della patatina finta, mi scolo il mio cocktail agli agrumi e vi lascio,» annunciò quella sera Evaristo, posando sul solito tavolino le bevande che avevano scelto Mara, Dione e Tazio. «Quando gliel'ho vista così da vicino ho pensato di strapparmi gli occhi. Che schifo.»
«Sei sempre il solito delicato! Ti ha proprio sconvolto scoprirla com'è fatta!» commentò Mara, con gli occhi puntati sul margarita alle fragole.
«Dovrebbe andare in giro con un cartello con su scritto OGM. Così uno si regola,» chiosò Evaristo.
Tazio si imbronciò. «All'inizio però ti piacevo.»
«Credimi, è passata piuttosto in fretta, e senza lasciare traccia. Sono sicuro che troverai il tuo incastro. Certo però, a saperlo prima...»
«Io, sono a posto. Senza fare la spia, ho consigliato ognuno di lasciar perdere l'altro,» intervenne Dione, agguantando il suo Gin tonic al lime, zeppo di cubetti di ghiaccio.
«E il mio whisky?» domandò Tazio, seduto di fronte a Mara, ma con l'attenzione rivolta a un bicchiere di Coca-Cola.
«A te, un Cuba libre è già troppo, imbroglione,» soffiò Evaristo, guardandolo di sottecchi. Poi, con zero grazia, si sedette accanto a lui andandogli addosso per costringerlo a spalmarsi contro la finestra che rifletteva l'immagine di ognuno. Fuori era buio pesto. Non c'era nemmeno la luna.
Senza un tema di discussione, il disagio serpeggiò rapido. Dione fece per aprire bocca dopo il primo sorso di gin, ma Evaristo lo anticipò.
«Allora, avete già letto il mio diario?» domandò diretto. Mara per poco non si strozzò. Tazio non ne sapeva ancora nulla. Silenzio. «Tanto lo so che Cesira è capace di tradurre il mio codice. Ho visto giorni fa che portava nella sua borsetta il mio diario e un mucchio di carte scritte.» Bevve un altro sorso di cocktail. «Ha creduto che non me accorgessi,» ridacchiò. «Ho visto anche che è piuttosto brava,» aggiunse, incurante dei differenti sguardi degli altri.
Dione si schiarì la voce. «Lo leggerò solo io,» disse sfidando la durezza del suo sguardo. «Voglio proprio vedere se è davvero spazzatura, come dici tu, quello che c'è scritto lì sopra.»
«Okay, allora, ti restituisco la cortesia. Tu, Dione, sei l'unico che non dovrebbe leggerlo. Ti potresti fare male sul serio.»
«Chissà le cattiverie che hai scritto su di me,» rise rude.
Evaristo bevve il resto del cocktail di agrumi. Non rispose né a parole né a gesti. La serata terminò lì.
7 gennaio 1998, mercoledì
Ero di turno per la colazione, l'unico servizio più antipatico, perché bisognava alzarsi nelle ultime ore della notte, buscarsi tutto il gelo della stagione, e schizzare in cucina per preparare le bevande e i prodotti da forno. Portare il baffo del caporale sul petto comportava responsabilità in più. A saperlo! Chi voleva diventare caporale.
Tuttavia, caro diario, il disagio della levataccia non era nulla in confronto a quello che mi provocò l'aiutante Mundo quando apparve in cucina. C'era solo lui. L'ora della colazione non era ancora scoccata. Lo salutai nel modo militare, ma non mi rispose. Gli occhi da polipo putrefatto la dicevano lunga sul suo umore. Respirava affaticato. Sembrava rantolasse. Temetti stesse male. Invece no. Era incazzato.
«Ti avevo detto di dire al tenente colonnello Manin che il presepe l'avevo fatto io!» iniziò a prendere a calci tutte le superfici attorno a me. Prese a fare le percussioni con tutto ciò che espandeva rumore al massimo. A sbattere persino i pugni sui tavoli d'acciaio dove si preparava il cibo. Non mi mossi. Non mi facevano paura quei modi da donnetta isterica. Perché davanti a me quello lui era, dal momento che ritagliava tutte le sante mattine i punti dalle confezioni del latte per ottenere i premi fedeltà.
Lasciai che esaurisse l'isteria da "sindrome dell'utero fantasma", e poi aprii bocca.
«Quanto bisogna essere stupidi per non capire che, anche in assenza di telecamere nascoste, il tenente colonnello Manin abbia i suoi mezzi per sapere tutto quello che accade nella caserma Montesanto?» L'aiutante Mundo alzò la testa, sollevò le palpebre, ma rimase muto. «L'ho capito anch'io, e non da ieri.» Gli diedi la stoccata finale. «E ho la netta sensazione, vecchio idiota, che tu non ne sappia un cazzo!»
«Come ti permetti! Tu non sai chi sono io!»
«Vedo cosa sei!» Non disse più nulla. Girò sui tacchi e andò via, più incazzato di com'era arrivato.
Perché era incavolato? Lo scoprii a metà di quella mattina, durante la pausa spaccio, quando il tenente colonnello Manin mi fece chiamare per comunicarmi che il nostro presepe aveva vinto il primo premio. Era gioioso come un ragazzino. Colse l'occasione per consegnarmi l'assegno di un milione e ottocentomila lire. Insieme a un attestato filigranato d'oro per il riconoscimento al servizio reso alla caserma. Il colonnello, anzi, quell'uomo, era il ritratto della felicità. Comunque non prendiamoci in giro, Diario caro. Se poteva darmi tanto, voleva significare che lui ci aveva guadagnato almeno il doppio.
«Ho dato disposizione in fureria di assegnarti dodici giorni di licenza premio. Sei contento?» Senza che se ne accorgesse mi aveva dato del "tu" tipico dell'ambiente degli alti ufficiali. Era un onore destinato a pochi.
Cos'altro manca di registrare? Ah, sì! Il tenente colonnello si alzò dalla scrivania, raggiunse il mio petto, strappò via il baffo del caporale e lo sostituì col doppio baffo del caporale capo. «Non avendo acconsentito all'uso delle armi, sei esonerato dal corso di addestramento. Ma anche così, nessuno se l'è meritato quanto te, dacché mi ricordo. Complimenti!» e mi diede una sonora pacca sulla spalla, ma io non mi spostai di un millimetro. Lo ringraziai scattando sull'attenti, e mi congedai.
E questo spiegava l'atteggiamento che aveva avuto l'aiutante Mundo nei miei confronti quella mattina. Era segno evidente che la storia non sarebbe finita lì, specie dopo l'alterco avuto. Ma ci avrei pensato al momento opportuno. Avevo da gestire due situazioni più serie, una piacevole e l'altra meno.
Chissà se le spie del colonnello Manin, che ero sicuro esistessero, avevano mai visto i primi fugaci incontri avuti con Carlo Giuliani. Come proprio quel giorno, quando ci incrociammo lungo il corridoio del comando, e sicuri di non essere sotto gli occhi di nessuno, le nostre mani palpeggiarono veloci l'uno il pacco dell'altro, nell'attimo in cui ci siamo sfiorati spalla contro spalla. Come i nostri sguardi confermavano il desiderio l'uno per l'altro. Come il brivido del proibito suggellò il reciproco senso di appartenenza. È stato in quel momento che aprii gli occhi alla realtà: non poteva succedere nulla tra me e Carlo dentro le mura militari. I rischi di essere scoperti erano immensi. La caserma più ambita del Triveneto lentamente stava assumendo la forma di un carcere, e il servizio di leva la pena da scontare.
L'impossibilità di frequentare Carlo come amante era il problema più felice, al contrario, quello più antipatico era dovuto al richiamo che ricevetti dal capitano Foretti, il responsabile del reparto comando dove alloggiavo. Qual era il problema? Dopo quasi due mesi di servizio militare non avevo ancora richiesto i giorni di permesso per andare a casa. Era un diritto sacrosanto staccare la spina dalla caserma. Il capitano Foretti mi spiegò tutte queste cose con aria di rimprovero. Mandare periodicamente a casa i soldati metteva la caserma al riparo dall'accusa di sequestro di persona. Incredibile ma era un rischio reale.
«Oltretutto, lei, Macrame, ha anche dodici giorni di licenza premio!» disse il biondo omone dalle tre stelle sul petto, agitando le mani giunte come per dire: che vogliamo fare?
Qualunque cosa sarebbe successa, una cosa era sicura: non sarei tornato a casa. Non potevo. Oddio, avrei potuto, ma non volevo.
8 gennaio 1998, giovedì
Essere diventato caporale capo in così breve tempo allontanò una volta per tutte la possibilità di legare con i commilitoni del mio stesso anno. Essere un graduato faceva quell'effetto. La notizia del primo premio vinto al concorso fece rapido giro in tutta la caserma, e aizzò alcuni invidiosi. Persino il ragazzo dai capelli rossicci, l'esperto di barzellette che, ogni volta se ne presentava l'occasione non mancava mai di offrirmi uno dei suoi siparietti, chiuse gli spettacoli e assunse un atteggiamento distaccato. Di sera vedevo nella camerata facce ostili che mi ignoravano. Non mi salutavano più nemmeno i tre veneti burloni. Si stavano aprendo le porte di un inferno non previsto? Se sì, allora ero pronto a diventare il diavolo, pur di prevalere su tutti.
9 gennaio 1998, venerdì
Approfittando della pausa pomeridiana, più lunga essendo l'inizio del fine settimana, e con il beneficio di un sole basso all'orizzonte, andai a sedermi a un tavolo del giardino poco distante dallo spaccio. Non c'era nessuno, nemmeno in giro. Gli alberi di faggio, pino e acero rendevano discreto l'angolo che avevo scelto. L'aria profumava di resine arboree. Macchie bianche di neve intorno alle siepi incolte riflettevano luci arancioni, che contrastavano il verde del fogliame invernale. Appoggiai i gomiti sulla tavola martoriata dalle intemperie. Era limacciosa per via del muschio formatosi in alcuni punti. Scricchiolava pure.
Davanti a me il muro di cinta, mezzo divorato dall'edera illuminata dagli ultimi raggi di sole. Devo dirlo, era un sipario poetico, incantevole.
Sospirai.
«Sei già caporale capo!»
Al suono di quella voce sobbalzai. Mi voltai da seduto, sorridendo così rapido che sentii un labbro spaccarsi. «Carlo!» Lo seguii con lo sguardo, attento come un genitore segue il figlio durante i primi passi. Si sedette di fronte a me. Sul volto la soddisfazione di vedermi.
«Quali sono le tue disgrazie? Su confessa figliuolo!» imitò chissà quale padre confessore e mi fece ridere. Ridere. Da quanto non ridevo. Mi fecero male i muscoli delle guance. Comunque, sarà stato il voler assecondare il gioco, o perché avevo bisogno di dirglielo, alla fine lo misi al corrente della mia difficoltà.
«Mi hanno dato una licenza premio. Devo partire domani stesso perché in due mesi non ho mai chiesto nessun permesso.»
«E vai a casa, scusa, no?»
Per lui era ovvia la soluzione. Scossi la testa incrinando il sorriso. «A casa non posso tornare. Mi hanno cacciato il giorno stesso che sono dovuto partire per il militare.»
«Perché?»
«I miei hanno scoperto che mi piacciono troppo le banane.»
Carlo mi fissò. Aveva compreso l'allusione. Sbatté le mani sul tavolino, e io reclinai il busto per lo spavento.
«Vieni a casa mia!» Aveva gli occhi illuminati. Stavo per accennare qualcosa, ma lui scattò in piedi, incespicò sulla panchina, la maledisse e allungò il palmo della mano verso me. «Aspetta, aspetta qui! Non ti muovere!» gridò come se stesse parlando a un sordo. "Ohibò, questo è pazzo." Risi e arrossii. Una delle due cose senza motivo.
Ritornò correndo come si era allontanato. Il fiatone ignorato dalla foga di dirmi che il giorno dopo saremo partiti insieme. Dove? A Torino! Carlo era torinese. Solo dopo si ricordò di chiedermi se ero d'accordo. E che potevo dire di no? Che bello però vederlo soddisfatto. Brutto fu deludere la richiesta di trascorrere la serata fuori, dato il weekend appena cominciato e lui che era libero dal servizio.
«Mi spiace. Ho promesso al maresciallo Empolese che avrei prestato servizio per la cena.»
S'imbronciò. «Va bene. L'importante è essere riuscito a convincere il capitano Foretti a firmare il permesso all'ultimo minuto,» sorrise.
«Come l'hai convinto?»
«Ho fatto il tuo nome.» Non capii. «Aver vinto la gara dei presepi, ti ha fatto diventare famoso. E siccome sei sotto l'attenzione del tenente colonnello Manin, tutti gli ufficiali da ora in poi ti prenderanno in considerazione.»
Deglutii. «Praticamente sono segnalato. Sono sotto i riflettori.» Accidenti. Dione Nadal mi aveva raccomandato di non mettermi in mostra, di essere discreto, e invece, nell'arco di meno di un mese ero diventato un caporale capo temuto dagli ufficiali. Avrei dovuto considerarlo un pasticcio? Non sapevo dirlo.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro