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17 • Attendere la scintilla

24 dicembre 1997, mercoledì

Molti ragazzi avevano ottenuto permessi e licenze brevi per trascorrere il Natale a casa. E così la caserma apparve come un circolo per pochi sfortunati eletti. Quella mattina le brande della mia camerata erano quasi tutte vuote. Tra i quattro a occuparle c'era il tipo misterioso dalla schiena tatuata. Escluso al refettorio, lo vedevo di rado altrove. Era così riconoscibile tra tutti perché aveva tatuata anche parte della faccia. E si fa presto a dire che si cade in errore quando si giudica qualcuno dall'aspetto. Maiello era un delinquente. Questo mi diceva l'istinto. Chissà come aveva fatto a diventare anche caporale capo, com'era evidenziato dal doppio baffo al petto. Comunque, tutto il fascino che esercitava su me era dovuto all'inchiostro sottopelle che esponeva. Per il resto lo ignoravo. Avevo voglia di rivedere Giuliani, di conoscerlo, di stare assieme a lui per capire se per l'ennesima volta stavo prosciugando, o meno, il cuore inutilmente.

Uno dei motivi che mi aveva spinto ad accettare l'incarico di cuciniere era proprio la possibilità di rivedere lui. Stando in un luogo di pubblico dominio sarebbe stato facile. Mi ero sbagliato. Non l'avevo visto nemmeno quel giorno di vigilia natalizia, né a pranzo, né a cena. La giornata scivolò via quasi noiosa se non fosse per la compagnia del maresciallo Empolese, che mi coinvolgeva in tutto. E poi ero finalmente libero di frequentare lo spaccio, quel locale a metà tra un bar anni trenta, con alle pareti lamine di legno, tavolini traballanti e sedie che avevano sorretto il culo di milioni di persone. C'era la possibilità di ascoltare musica, o addirittura di rintanarsi nella saletta TV, l'unica in tutta la caserma. E per i più audaci, perfino un angolo karaoke raramente usato.

Cos'altro poi era successo non rammento. Ricordo solo d'esser andato a dormire nella desolata camerata, col proposito di sognare quel ragazzo dai capelli di grano in agosto. Senonché, verso l'una, Maiello il super tatuato venne a svegliarmi. Non faticò a farmi aprire gli occhi. L'immagine di Giuliani splendeva troppo anche a occhi chiusi.

«Devi venire con me. Ti vuole il colonnello Manin.»

«È uno scherzo,» dissi, tirandomi su dalla branda superiore.

«A quest'ora mi viene solo da dormire.» Era serio. Accorsi al richiamo del comandante supremo, tallonato da Maiello. Chi l'avrebbe detto. Fu lui a mettermi al corrente dell'emergenza. Qual'era? Era di ritorno la truppa dall'addestramento campale, che a causa di chissà quale incidente aveva perso il vettovagliamento. E ora stava rientrando affamata come lupi. Erano più di cento. Bisognava perciò preparare loro qualcosa da mangiare alla svelta.

«Tra tutta la gente che c'è, più esperta persino, quello va a chiamare proprio me?» protestai strada facendo.

«Il colonnello Manin mi ha detto che hai la massa testicolare adeguata.»

«Pure! Mi dà pure del coglione!» dissi, e Maiello perse il respiro a furia di ridere.

Recuperammo le chiavi della cucina dall'armadietto del reparto comando e servizi, e poi corremmo sotto le luci dei lampioni lungo il percorso. Avevo già capito che avrei eseguito quel servizio straordinario con Maiello. Poco importava. Aprimmo il locale in fretta. L'interno, vuoto del personale, appariva come una camera non vista dell'hotel del film Shining. Le mannaie appese alle calamite brillavano maligne. L'isola dell'apparato cottura, tutta in acciaio, sembrava un mostro dormiente.

«Cosa facciamo, Macrame?»

«Il concetto è semplice: acqua nei boiler accesi, spaghetti e sugo per primo,» gli dissi, e lui eseguì i miei ordini seppur fosse lui il caporale. L'operazione seguente era il secondo piatto. Recuperammo dalla cella frigorifera cosce di pollo, scaloppe e pangasio. Poco importava che fossero dei pezzi di ghiaccio. Condimmo e sbattemmo tutto quanto nei forni addossati al muro di fronte. Tutto, meno le scaloppe, che facemmo al vino bianco, sfruttando le due brasiere elettriche di circa un metro quadro l'una. Nel giro di mezz'ora l'ambiente s'impregnò degli odori di cucinato. Trovammo anche il tempo di preparare verdure cotte e insalate per i contorni. E per non fare mancare nulla a quei ragazzi, accendemmo anche la friggitrice per le patatine. Di più non mi era stato possibile fare.

Eravamo immersi nel silenzio spezzato dall'acqua che bolliva, e dai forni che borbottavano, quando vedemmo il pullman verde polvere fermarsi davanti al refettorio. Dietro la vettura arrancavano il maresciallo Empolese, il capitano Gobin e sua milizia il tenente colonnello Manin. Il momento fu talmente concitato che dimenticai il rituale del saluto militare. Anche i sommi graduati non badarono alla facezia, piuttosto si diedero tutti da fare per ultimare le operazioni del servizio ristoro. Incredibile. Bastava poco per spogliarsi dei fregi blasonati e diventare una squadra piuttosto che una gerarchia. Oh, sì, non mancarono di servirmi laute porzioni di complimenti per la prontezza prestata. Il tenente colonnello Manin fece anche di più. Diede ordine di servire come dolce i panettoni designati per il giorno dopo.

La fatica alla fine diede ottimi frutti. Davanti alla vetrina dei piatti che riempivo in continuazione, con l'aiuto del maresciallo Empolese, vidi sfilare tutti quei ragazzi, e in mezzo a loro c'era anche lui. Giuliani. Finalmente! Era stravolto. Le spalle incassate. Il volto basso. Gli occhi su di me. Il sorriso solo per me.

«Buon Natale,» mi disse, con un tono così dolce da non lasciare spazio a nessun dubbio su ciò che avevo cominciato a sognare potesse un giorno diventare realtà. Era stato l'unico a porgermi gli auguri. L'unico. Sperai per la prima volta in qualcosa. E non m'importava che affianco c'era Maiello a registrare la lunghezza di quel filo che ero sicuro iniziava ad annodare me a Giuliani. Sentivo che nonostante l'impegno di riempire i piatti da servire ai soldati, lui era me che studiava.

Avrebbero potuto unirsi anche gli ufficiali, fino a quel momento imboscati in cucina, a confabulare per i fatti loro. Non me ne sarebbe fregato nulla. Mi ero innamorato - punto.

La nottata fuori programma terminò col panettone, spumante, e la visita al presepe in fondo al refettorio, attivato di tutte le funzioni delle quali l'avevo dotato. I commenti benevoli si sprecarono, ma anche di quelli non me feci nulla. Neanche le belle parole che il tenente colonnello Manin mi aveva riservato, col beneficio del maresciallo Empolese e del capitano Gobin come testimoni, sortirono alcun effetto. Non mi interessava la loro ammirazione.

«Sono lusingato, ma non è giusto che mi prenda tutto il merito. Il caporale capo Maiello mi ha aiutato molto. Il merito è anche suo.» Mi assicurai, alzando il tono, di essere ascoltato da quel ragazzo. Quel che è giù è giusto. Ed era anche giusto che quel trio di vecchi mi lasciassero libero di andare a conoscere Giuliani. Ma non accadde. Non accadde nulla, a parte rendere pubblico, in quel refettorio, il merito della cena organizzata in un batter d'occhio. Ricevetti un lungo applauso e ringraziamenti urlati tipo tifo da stadio. Nulla più. Le luci dell'alba segnarono la fine del servizio fuori programma. Io e Maiello fummo esonerati dalle attività del giorno appena nato. Potemmo dormire e fare ciò che volevamo. Era il minimo. L'avevo gradito come compenso, anche se nulla al mondo mi avrebbe reso più felice che conoscere quel ragazzo biondo grano d'agosto. Sperai non fosse l'ennesima caccia a una nuova delusione.

20 luglio 2005, mercoledì

L'irritazione sul grugno di Dione guarì, e grazie a Evaristo divenne una barzelletta da posto di lavoro. Mara prese l'abitudine di adoperare sistemi meno chimici per sistemare quello che chiamava "zerbino di benvenuto".

Il loro rapporto vissuto alla luce del sole era un inno al coraggio di mostrarsi felici. Un esempio che Evaristo appurò con i suoi occhi, ora che Dione non perdeva occasione di stare vicino a Mara come se da lei dipendeva l'ossigeno che respirava. Durante il servizio alla tavola calda, mentre preparavano i tavoli, quando si scambiavano informazioni, apparivano un tutt'uno. Nemmeno i suoi richiami dalla finestra passa vivande, con le battute sui piatti che facevano ridere i clienti, sortivano più l'effetto caustico alla nuova coppia.

Quel mercoledì, le catene che li teneva imprigionati, strinse la morsa e scatenò l'urgenza di appartarsi nel magazzino durante l'ora dell'aperitivo. Elvira ne era sorpresa. Non c'era mai molta affluenza durante l'ora che precedeva il pranzo. Cominciava a credere che fosse merito dei bei ragazzi che aveva assunto. Sempiternamente seduta alla cassa, non appena accolse un quartetto di avventori, fece per chiamare Dione e Mara, ma Evaristo scattò fuori dalla cucina offrendosi a posto loro. Lo fece per non disturbarli, per creare un debito nei loro confronti, e poi perché aveva visto, sorpreso come non mai, la zia Myriam in mezzo alle altre tre signore, più o meno della stessa età. Sembrava un quartetto della belle Époque. Abiti lunghi, foulard, cappelli a balza ampia con bouquet rubati a bomboniere polverose messe in cima. «Sembrano uova di Pasqua che si trascinano,» borbottò Evaristo, incurante di far ridere Tazio e Gigi che gli stavano a fianco al bancone del bar a preparare gli aperitivi per i tavoli fuori.

Evaristo si lanciò verso il quartetto, e godette quando incrociando lo sguardo con la zia di Mara, ella trattenne il moto di disgusto che era riuscito a scatenare. L'anziana orientò l'attenzione su Elvira, gratificata dai suoi modi servili. Evaristo ghignò quando la padrona della tavola calda gli affidò quegli ospiti, che subito pilotò verso il tavolo più bello, quello con la vetrata più grande e le sedute più imbottite.

La signora Myriam, accomodata con fastidio al divanetto, lanciò lo sguardo alla ricerca della nipote. "Sapesse dov'è adesso, cara zietta," pensò Evaristo, carpendo l'intenzione di quella là d'ignorarlo.

«Vi porto il menù o la lista degli ape_»

«Chiama Mara!» lo troncò la signora Myriam, lo sguardo fuggitivo a sottolineare quanto poco lo aveva in considerazione. Lui, piuttosto che accettare la scortesia, rivolse gli occhi alle altre tre vecchiette, supponendo fossero più a modo.

«Questi bicchieri hanno degli aloni,» disse una.

«Il tavolo è appiccicoso,» disse un'altra.

«Già, dovrebbe passare lo straccio prima di farci sedere,» aggiunse la terza.

«E poi dovresti indossare qualcosa di più adatto a un cameriere. Con quella maglietta verdastra, e i capelli ricci arruffati, sembri uno zingaro,» sputò soddisfatta la zietta di Mara.

«EHI, EHI EHI!» tuonò Evaristo, battendo un piede sul pavimento di legno facendo vibrare persino la cassa dov'era Elvira, che sobbalzò. «Per prima cosa, il fatto di essere delle vecchiette dall'aria da "le insolite sospette", non vi da' diritto di dire stronzate!» Le vecchiette si raggelarono di colpo. «Secondo, si chiamano gitani, no zingari. E voi siete delle razziste nei confronti di chi è costretto a lottare fino all'ultimo momento per vivere!» La zia Myriam ebbe un ritorno di coscienza. In fondo lei era una scampata alla deportazione. «La vostra pantomima da vecchiette gangster riservatela ai vostri nipoti che vi fanno visita solo per spillarvi i soldi dalla borsa, in cambio di un abbraccio che voi scambiate per affetto. È chiaro?» Le quattro donne lottarono contro loro stesse per cercare di obiettare, ma nessuna ci riuscì. Evaristo diede la stoccata finale. «Ricominciamo da capo.» Prese lo straccio che portava sulla spalla, lo passò sul tavolo, si raddrizzò e sorrise. «Salve! Sono Evaristo! Volete il menù o la lista degli aperitivi?»

«Tutte e due,» fecero coro da chiesa le quattro comari.

Evaristo si beò della soggezione che aveva inflitto alle clienti. Le servì in tutto, anche i piatti che avevano scelto per il pranzo. Tutto senza la presenza di Dione e Mara, ancora imboscati nel magazzino, ad alzare il livello della pomiciata. Ad accorgersene era stato proprio lui, che per necessità era dovuto aprire quella porta e vedere a terra, prima degli scaffali delle provviste, l'amico con i pantaloni abbassati, il culo al vento che si agitava a suon di spinte tra le cosce di Mara. Si era morso le labbra per non ridere davanti a quello spettacolo.

«Scusate, devo prendere il barattolo della senape!»

«Eccola!» disse pronta Mara allungandogliela rapida. Lui l'artigliò con due dita, e prima di svanire dal magazzino, lanciò un'occhiata ai due gementi e godenti nella valle del "Bengodi". Le labbra feline di Dione strisciavano contro le guance di Mara alla ricerca delle sue. Le mani affondate sui seni, incapaci di agguantarli per intero. E lei che si contorceva, e cercava di abbracciare Dione, nonostante le braccia inadeguate per circondare il torso del guerriero che la stava possedendo. Al resto dello spettacolo, Evaristo disertò per andare a servire i clienti che cominciavano ad affluire.

Elvira a un certo punto s'insospettì e andò a intercettare Evaristo mentre faceva la spola al tavolo della anziane donne.

«Oh, non vi preoccupate, tra un po' vedremo la nostra Mara!» ridacchiava zia Myriam, nel mezzo dei discorsi tra un piatto e l'altro. «La mia Mara è una ragazza d'oro, e a quanto pare ha trovato un fidanzato degno.»

«Oh, sì, è davvero una ragazza deliziosa,» dava corda una delle altre comari.

«Sa sempre comportarsi con giudizio ed educazione in ogni situazione,» cinguettava l'altra ancora.

Evaristo captava quegli stralci di osannazioni tra una spola e l'altra, masticando risolini incontenibili. "Sapeste che sta facendo di là, quella deliziosa streghetta!"

Elvira a un certo punto non poté più vedere Evaristo farsi in quattro in sala. E Tazio non era d'aiuto, timido e impacciato com'era, non faceva che sbagliare ordini e tavoli. Il donnone si avvicinò a Evaristo, approfittando dell'ennesima richiesta della signora Myriam di vedere la nipote. Scambiò convenevoli con le clienti e poi domandò a Evaristo di andare a chiamare Dione e Mara.

«Ecco, sì, amerei almeno salutare mia nipote, prima del caffè. Ma dov'è finita? Volevo fare una sorpresa, a quella cara ragazza, che si occupa tanto di me,» il tono mellifluo. Incalzato anche da Elvira, Evaristo si decise ad accampare una scusa.

«Niente storie, dove sono andati?»

«Sono andati a_» Un doppio ululato sfasciò i timpani degli avventori in sala. Tazio ruppe l'ennesimo set di bicchieri. Le signore a bocche aperte.

«Ah, credo siano appena venuti, arrivati cioè,» Evaristo mostrò i denti facendo spallucce. Elvira sussultò a metà tra il riso e il pianto. Tuttavia, per la sua tranquillità, la coppia Dione e Mara "Houdini" fece la sua comparsa. Sudati e sconvolti, non si erano resi conto del servizio già iniziato, e così si apprestarono a inseguire il ritmo del lavoro quasi sgomitando. Mara sentì le palpebre arrivare fino alla fronte quando s'accorse d'essere osservata dalla zia Myriam. "Che caspita ci fa qua?" Si sforzò di sorridere.

Se pur con un inizio indisciplinato peggio del solito, la buona stella, o qualunque cosa simile vegliasse sulla tavola calda Eea-Tavola, fece sì che il servizio risultasse accettabile.

Al termine del pranzo, la zia Myriam vide esaudito il desiderio d'intrattenersi con la nipote. Fu ancora più felice vedendola affiancata da Dione, anche se quel Evaristo, seppur per dovere di servizio doveva sostare attorno per sparecchiare il loro tavolo, le procurava fitte allo stomaco. Non attese però che Evaristo si allontanasse per invitare Mara e Dione a una passeggiata a Roma il giorno dopo.

Dione e Mara, potevano rifiutarsi dal momento che il giorno dopo il locale era aperto solo la sera? No. Evaristo, sentendosi escluso dall'invito, poteva dirsi offeso? No. "Era il momento che aspettavo!" pensò, fissando da lontano il bel Tazio, che arrossì appena intercettò l'ambra dei suoi occhi. E sussultò mentre lo vedeva avvicinarsi col vassoio dello sparecchio e fargli cenno di seguirlo in cucina. Conosceva le sue intenzioni. A dire il vero le conoscevano anche i nani della cucina, dal momento che sin dal primo giorno avevano visto come Evaristo aveva puntato Tazio, sedotto, e per qualche motivo non ancora baciato. Era di dominio pubblico anche che Dione non era d'accordo che formassero una coppia.

«Stasera è il nostro momento,» sussurrò all'orecchio di Tazio, imprigionandolo tra le braccia e spingendolo contro il lavandino traboccante di piatti luridi. Tazio stirò il collo verso l'alto per fissare quegli occhi dorati accesi solo per lui.

«Non vedo l'ora,» azzardò a dire vincendo la timidezza. «Devi sapere però, una cosa.» Abbandonò gli occhi a favore del petto di roccia. Trovò il coraggio di toccare un pettorale. Le labbra contratte. «Sotto sono un po' diverso.» Sentì lo sbuffo nasale di Evaristo smuovergli i capelli.

«Sei superdotato! Santa banana! È magnifico! Lo voglio vedere subito!» Lanciò le mani sul ragazzo alla ricerca della qualità promessa, facendolo ridere a posta solleticandolo.

«Non, no, non_»

«Andate da un'altra parte a fare queste cose!» brontolò il nano Romeo, mentre lanciava nel lavandino una pila di padelle sporche. Evaristo convenne. Attendere il fine servizio della sera per riscuotere il premio, in fondo valeva la pena. Sapeva che Dione, per non perdere tempo, avrebbe trascorso l'ennesima notte a casa di Mara. Il loft era suo. Suo e di Tazio.

Il momento arrivò. Dione però, trovò il modo di scambiare due parole con Tazio, al riparo da Evaristo, trattenuto da Mara per discutere degli ultimi particolari della nottata karaoke ormai prossima. Tazio vide negli occhi di Dione una luce fredda, nella penombra fuori, dietro la tavola calda. L'odore dei bidoni della spazzatura protetti da un recinto di canneto gli impediva di respirare l'aria fresca elargita dal mare.

«Dimmi che l'hai detto a Evaristo.»

«Non ci sono riuscito,» un sibilo al posto della voce.

«Mi spiace, allora.»

«Per il tuo amico?»

«Per te, coglione,» disse occhioni verdi, e Tazio s'imbronciò. «Se Eva la prenderà male, sarà il tuo funerale.» Tazio deglutì. Detto ciò, Dione salutò soltanto Evaristo, quando in quattro, raggiunto il loft, si separarono in coppie. Mara, malgrado il sonno da stanchezza cullato dal frinire delle cicale notturne, aveva capito che c'era qualcosa che non andava. Tormentò per questo Dione lungo il resto della strada verso casa di zia Myriam. Alla fine il ragazzo cedette sotto la doccia condivisa con la procace compagna. Gli rivelò il mistero, e quella si trattenne la pancia dal ridere. Sbatté pure la testa contro la porta vetrata, ma non ci fece caso.

Tazio riuscì a convincere Evaristo a fare la doccia da solo. Non gli fu difficile, dal momento che non poteva mica scappare di notte. Uscì più imbacuccato di com'era entrato. Evaristo si insospettì. Si fece la doccia per bene, si asciugò in fretta e tutto nudo si diresse nella camera da letto, dove Tazio lo attendeva disteso in accappatoio.

La vista di quel metro e ottanta e passa centimetri, impalcati di muscoli umidi lo fece sussultare. Nascose una mano sotto il telo spugna che ancora lo copriva. Sussultò di più nel vedergli l'uccello in tiro, svettante e ondeggiante a ogni passo del proprietario. Evaristo posò un ginocchio ai suoi piedi e salì sul letto facendo affossare il materasso. Risalì il corpo dell'altro, ancora avvolto dal mistero. L'ondeggiare delle scapole del suo amante gli ricordarono il passo delle tigri nella savana. Era selvaggio.

«Aspetta.»

«Ho atteso fin troppo!» Evaristo afferrò i lembi dell'accappatoio, l'aprì come un sipario, e gli crollò la testa. Sbatté gli occhi, fece una smorfia senza qualità. Piegò pure la testa e attese di mettere a fuoco ciò che immaginava tardasse ad apparire. Ma non avvenne nulla di quanto sperato. Eppure riconosceva l'ombelico, intuiva che più giù avrebbe dovuto esserci il pube, che però non vedeva. E sotto a quello?

«Che fine ha fatto il tuo pisello? Te lo sei perso per strada?»

Tazio era violaceo in faccia. Muto. Non aveva il coraggio per confermare a parole che si era fatto l'operazione d'inversione sessuale. A quella vista fu Evaristo a sussultare, ma dai conati di vomito.

«Guarda che roba! La vista ravvicinata con questa cosa, è riuscita a smontarmi completamente il cazzo!»

Tazio in effetti notò come il tronchetto della felicità di Evaristo si era raggrinzito, intristito, svenuto di colpo. Scioccato.

«Era questo che cercava di dirmi Dione,» realizzò prima di buttarsi sulla piazza accanto a Tazio. «Come lo sapeva?» sbuffò.

«Il primo giorno di lavoro. Lui mi aveva accompagnato nel privè e accidentalmente mi ha visto mentre mi cambiavo.» Fece una pausa. «E ha urlato per lo spavento.»

«Senti. Ora va' di là a dormire. Non ti voglio vicino.»

«Ma potremmo fare...» non trovò nessun suggerimento.

«Non fartelo ripetere. Sparisci dalla mia vista. Dormi sul divano. E se ti scappa di piangere, prendi il cuscino e vai in corridoio fuori casa. Non mi piace essere disturbato mentre dormo.»

Tazio si alzò dal letto, e privo del coraggio di dire altro o anche di osservare il corpo di Evaristo, strisciò fuori. Sul viso una cascata di lacrime. "Avrei dovuto dirglielo come mi aveva raccomandato Dione. Ho agito male."

Evaristo si fece scivolare di dosso la situazione. Non era nemmeno deluso. Per quel ragazzo non aveva provato nulla oltre una iniziale frenesia sessuale. Niente al di là della bellezza esteriore che riconosceva come una scatola ben infiocchettata, del contenuto non gliene importava. "Ben mi sta."

Notte di San Silvestro 1997

Caro Diario, era giunta la fine di un anno che credo mi abbia cambiato così velocemente, che ancora oggi fatico a rendermene conto. C'è chi fa i bilanci, ma non sono tra quelli. Ma se dovessi, col senno di poi, posso sintetizzare gli eventi. Sono stato cacciato di casa perché gay, ho dovuto prestare servizio di leva, dove ho temuto di essere scoperto, mi sono innamorato forse del ragazzo più bello ed etero del mondo - un'altra volta, e rimasto deluso - ancora una volta. E poi ho, più o meno, conosciuto Giuliani, il sorso di luce.

Oh, sì, grazie alla dote organizzativa dimostrata quella notte di Natale, a riguardo dell'accoglienza dei militari campali che avevano perso le provviste, il tenente colonnello Manin mi aveva elevato a grado di caporale. Caro Diario, caporale! Io? Che manco volevo farlo il militare. Ragion per cui non mi aveva emozionato. Mi emozionò di più la notte di San Silvestro. Il giorno era scivolato senza nulla da ricordare. Il servizio mensa mi stava bene. In cucina c'era un senso di tranquillità, nonostante il da farsi sempre impellente. Il maresciallo Empolese ormai era la mia ombra. Nonostante fosse lui il punto di riferimento della squadra, chiedeva sempre il mio parere su ogni cosa. Non mi dispiaceva. No. La giornata era stata quasi rilassante, grazie alla caserma mezza svuotata dei soldati che avevano preso giorni di permesso per trascorrere le feste comandate a casa.

La mia stessa camerata, la notte di San Silvestro, era vuota. C'ero solo io e pochi altri nell'altra camerata inframmezzata. Le luci erano diventate blu, segno che chiunque fosse presente doveva andare sotto coperta. Mi venne voglia di fumare intorno alla mezzanotte. Essendo caporale avevo la libertà di circolare in tutto il reparto a mio piacimento. C'era silenzio. La notte fuori le finestre del corridoio era illuminata dai lampioni. Il vialetto brillava dell'argento della brina gelida friulana. Gli alberi immobili. Il piantone di turno notturno era appisolato sul banco accanto alla macchinetta delle merende, sotto il sottoscala che faceva da rifugio. Poveraccio che sfortuna. Ebbi cura di stargli lontano col fumo della sigaretta. Non si svegliò.

Terminato l'ultimo sbuffo spensi la sigaretta e la gettai nell'apposito posacenere all'entrata del reparto. Ero soddisfatto della tranquillità che aleggiava. Mi avviai verso la camerata e quella tranquillità venne demolita dal trambusto provocato da un gruppo di soldati urlanti, che assaltarono il corridoio dove mi trovavo. Mi irrigidii. Che cazzo stava succedendo? La penombra non era utile per capirci qualcosa. Soprattutto per vedere chi mi stava fronteggiando all'improvviso dicendomi: «Buon anno!» prima d'imprigionarmi le guance con le mani fredde, avvicinare il viso e baciarmi sulla bocca. Temendo fosse una pericolosa goliardata, spinsi quel tipo facendolo sbattere i lombi contro il davanzale della finestra. Accusò la botta. La luce artificiale esterna gli illuminò di colpo la smorfia sul viso. «Giuliani! Sei tu, figlio di puttana!»

Lui tramutò la smorfia in sorriso, unendolo a un occhiolino non studiato. «Macrame, sei tu, figlio di puttana!» La sua eco mi sbalordì. Indurii il volto e lo assalii. Gli restituii auguri e bacio. Anzi, più che baciarci sembrava stessimo facendo a botte. Il che sarebbe stato da me.

Che meraviglia. Non avevo messo in conto la possibilità che potevo interessargli.

«Non qui. Possono vederci,» ansimò appena lo lasciai libero di respirare. Aveva ragione. Ci togliemmo dalla luce indiscreta dei lampioni, cozzammo contro il muro in ombra, dove svanimmo per baciarci, incuranti del casino che i suoi amici incursori stavano provocando in tutte le camerate. Ma il principale casino lo stavamo facendo noi. Che bocca, e che baci! Sapevano di liquirizia e spumante da quattro soldi. Favoloso. Sì. Favoloso.

Ma ci separammo subito. I suoi amici brilli lo sequestrarono davanti ai miei occhi. Che furfante quel Giuliani. Per approfondire la nostra conoscenza, dovemmo attendere circostanze più fortuite. Purtroppo. Non Favoloso.

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