16 • Le belle cose capitano alle persone cattive
11 dicembre 1997, giovedì
Trascorsi una settimana a progettare il presepe nel refettorio. Il tenente colonnello Manin, forse preoccupato dall'assenza di risultati, mi affiancò come aiutante, l'aiutante Mundo. Perdonami il gioco di parole Diario caro, ma il grado di quell'uomo, anziano e allampanato, si chiama così. Viene subito dopo il grado di maresciallo capo. Quella specie di nonno, dall'aria disperata, non era entusiasta dell'incarico. Passava tutto il tempo a bestemmiare il Natale e tutti i personaggi di gesso che avevamo recuperato da un capannone dietro il magazzino viveri. Quando esagerava con le "benedizioni" alternative, lo invitavo con garbo ad allontanarsi. Quello non vedeva l'ora in effetti, di sentir dire che avevo la situazione sotto controllo per poter andare a imboscarsi dove preferiva.
I giorni a seguire li trascorsi alle prese con decine di cassette di plastica, usate per impalcare lo scheletro dello scenario roccioso. Ci volle il sacrificio di sei lunghi tavoli del refettorio per contenere quello che avevo in mente. E quanta carta-roccia richiesi per modellare ogni singolo elemento scenografico. Nel mentre, si unirono temporaneamente al lavoraccio anche due giovani soldati. Ma la musica non cambiò. Uno era un idraulico, utile per istallare i giochi d'acqua che avevo progettato, l'antro era un elettricista, che serviva per le luci. Dapprima ero entusiasta della loro assistenza, ma le facce serie che avevano gelarono in fretta il mio proposito di socializzare. Avevano per la testa altro e non lo nascondevano. Sbuffavano e commentavano malevoli l'ingaggio del presepe. Per loro era solo una rottura di palle. Ah, imprecavano pure loro contro il Natale. Essendo quelli soldati semplici, seppur in procinto di essere congedati, mi fu facile mandarli a quel paese appena non obbedirono alle mie richieste. Oddio, era vero che dovevo essere io a portare rispetto, essendo ultimo arrivato, ma il tenente colonnello Manin mi aveva dato la libertà d'informarlo per qualunque richiesta, marcando di proposito ogni significato dell'espressione. Li feci allontanare e mi arrangiai da solo. Chi fa da sé...
16 dicembre 1997, mercoledì
Il bisogno di nuovi materiali spinse il tenente colonnello Manin a invitarmi a uscire in auto per reperirli in giro a Gorizia. Che colpo, caro Diario! Mi fece indossare la drop, la divisa ufficiale in giacca e cravatta. Non solo. Mi permise di guidare la sua Mercedes mentre lui faceva da navigatore! Ero al settimo cielo. Anche se poi, a parte la cattedrale di San Ignazio, e l'aver visto dal fondo della piazza l'adiacente monticello dove sorgeva austero il castello, non vidi un granché della città. Tuttavia avevo procurato una certa dose d'invidia ai piantoni della porta carraia, e a tutti coloro che mi avevano visto al volante uscire con il capo supremo della caserma. Mi ero sentito importante. Ma poi tornai a sfacchinare al presepe, con in più la responsabilità di non sciupare i materiali, che non erano costati mica poco.
La mia insistente presenza, in fondo al refettorio, cominciava ad attirare la curiosità del resto dei soldati. Non di rado mi accorgevo in ritardo di gente alle spalle che osservava ciò che facevo. Gestire un allestimento largo sei metri, profondo cinque e sfruttare tutta l'altezza fino al soffitto, era roba che richiedeva tutta la concentrazione possibile. Di tanto in tanto però, sul lato destro della parete di fondo, laddove c'era il reparto lavaggio vettovaglie, un corpulento ragazzone dall'aspetto poco intelligente faceva capolino. Sembrava timido però, ragion per cui mi fece tenerezza. Lo salutai. Più volte lo invitai ad avvicinarsi, ma niente. Si chiamava Goffredo, come il celebre Mameli. Chissà se conosceva l'importanza del suo nome.
17 dicembre 1997, giovedì
Il giorno seguente, dopo la pausa delle dieci allo spaccio, trovai una sorpresa. L'aver trascorso i primi giorni in solitaria per via dell'incarico del presepe, ahimè, mi aveva tolto il tempo necessario per coltivare amicizie. Certo, c'erano i curiosi che mi si avvicinavano, purtroppo intimoriti dalla mia fisicità, ma comunque in qualche modo riuscivano a intrattenersi per un pochi minuto. Finiva però tutto lì. Oltretutto, l'essere a stretto contatto con il capo supremo, aveva sollevato mormorii. La cosa non mi piaceva. Desiderai abbandonare l'incarico artistico a favore di un servizio che mi potesse far legare con gli altri. Oh, sì, caro Diario, andai dal tenente colonnello Manin per informarlo della decisione. Al che lui, seduto sulla comoda poltrona, si diede uno slancio all'indietro. Potevo averlo fatto incazzare? Ne avrebbe avuto ogni ragione. Ma no.
«Lei, signor Macrame, non può in alcun modo abbandonare il compito,» la voce solenne ma gentile. E anche così, quell'uomo era capace di farmi sudare, nonostante fuori c'erano appena tre gradi di temperatura sopra lo zero. Mi guardò fisso negli occhi mentre ero rigido sull'attenti. «Lei, adesso, ritorna di corsa al lavoro che le ho assegnato. Lo completa. E al di là del risultato della gara, le assegnerò l'incarico definitivo di faccendiere.» Diario caro, il tenente colonnello mi stava dicendo che durante il resto del servizio militare, potevo svolgere qualsiasi lavoro volessi, senza essere soggetto a nessun altro alto graduato. Deglutii. Mi allettava quel compenso. «E, tenga presente che se finiamo sul podio dei vincitori, a lei darò dieci giorni di licenza premio,» disse languido, quasi sorridendo.
Ricevere la licenza però, significava tornare a casa per più di una settimana. Mi scappò uno sbuffo di risata, che il brav'uomo blasonato interpretò come gioia. Col cazzo. Sciolsi la posizione dell'attenti, diedi libertà alle gambe di camminare a destra e a manca sotto lo sguardo esterrefatto dei quattro portaborse del colonnello, e m'impuntai.
«Non mi chieda perché, ma io a casa non ci torno!» Non potevo dirgli che ero stato cacciato di casa perché gay.
«Lei invece deve dirmelo. È importante,» il tono sempre calmo. Irritante. Comunque trovai una scusa plausibile.
«Abito troppo lontano. A Lecce.»
«Ma che cazzo ci fai qui, figlio mio!» La maschera di ferro da persona placida ostentata si spaccò, e dentro di me gongolai. «Perché non hai mosso richiesta di avvicinamento quando stavi a Udine?»
«Non ho trovato tempo,» mentii. Mi sarebbe bastato dirlo al caporale capo Nadal, e a quell'ora avrei potuto trovarmi lontano centinai di chilometri da Gorizia. Il colonnello si schiarì la voce. Aveva da dire altro.
«Tornando al nostro concorso, deve sapere che se arrivasse primo, lei vincerebbe un milioneottocentomila lire.»
Alzai le orecchie come fanno gli animali predatori. Ero senza parole. Ma mi sforzai di trovarle. «Nell'ipotesi, di vittoria, dovrei dividerlo con l'aiutante Mundo...» Il colonnello agitò una mano.
«No! Anche se sto qui nel mio ufficio, io so cosa succede fuori. E non chiedermi come,» fece eco alla mia faccia tosta. «Le assicuro, signor Macrame, che so a chi riconoscere i meriti.»
Alla domanda se mi aveva convinto a proseguire col lavoro, annuii. Dimenticai pure il saluto di rito e svanii dietro la porta, che chiusi con poca eleganza. Un secondo dopo sentii il tenente colonnello ridere di gusto. «Ma vaffa_» mi bloccai sorpreso da un caporale che era rimasto in attesa in corridoio. Con mezza falcata lo raggiunsi e lo afferrai per il bavero.
«Ci sono telecamere in giro?» gli chiesi, temendo di esser stato scoperto a mandare a quel paese nientemeno che il capo supremo della caserma. Quello scosse la testa tremando.
«Quelle cose le fanno solo nelle caserme di addestramento,» rispose tremolando. Lo lasciai e corsi via. Sostai allo spaccio, il tempo di un caffè freddo, poi tornai al refettorio. Ed è stato lì che trovai la vera sorpresa. Altro che il senso motivazionale appena infuso dal colonnello. Vidi un gruppo di persone attorno al presepe mezzo distrutto. Sentii le urla addirittura del maresciallo Empolese rivolte a quel Goffredo, tutto rosso in volto. Accorsi per constatare i danni.
«Chi cazzo è stato?» ringhiai quando vidi lo scempio. Il respiro forte. Le braccia tese, e i muscoli che per un soffio non strapparono la mimetica. Qualcuno indicò Goffredo, trattenuto da sei ragazzi, che rideva soddisfatto di sé, e mi guardava prendendosi gioco di me. Strinsi i pugni. I muscoli fecero scricchiolare le cuciture della mimetica. Sentii sulla spalla la mano pesante del maresciallo Empolese e mi voltai infastidito.
«Macrame, mi spiace per quello che è successo. Ho fatto chiamare il tenente colonnello Manin.» Non mi veniva nulla da rispondere. Quel dannato presepe rappresentava la possibilità di tirare avanti in maniera serena e dignitosa dopo il congedo. Non ricordo cos'altro disse il maresciallo Empolese, tuttavia aveva sortito un effetto calmante. Intorno a me, quella ventina di soldati dalle espressioni neutre e poco macchiate da sguardi empatici, attendevano la mia reazione. Sapevo che volevano vedermi arrabbiato. Li delusi allargando un sorriso da leone d'oro.
«Tanto non mi piaceva come stava venendo!» Risero tutti, persino il maresciallo e il capitano Gobin, che non avevo ancora conosciuto. Lui era il responsabile del servizio vettovagliamento, e di tutti i militari presenti nella sua zona, me compreso. Cogliemmo l'occasione per presentarci. Su di lui non ho nulla da dire, se non che fosse un tipo affascinante e carismatico. Dovetti fare appello a molta concentrazione per non perdermi in fantasticherie da astinenza da sesso. Era proprio un bell'uomo adulto.
Il tenente colonnello Manin, nero dalla rabbia, ordinò l'allontanamento di Goffredo dalla zona refettorio, fece pulire il disastro, e pretese il piantonamento dell'allestimento. Era probabile non nutrisse più molte speranze per il buon esito che aveva preteso da me. In effetti, il danno era grave. Il maresciallo Empolese mi propose di riordinare le idee facendo altro. Furbo. Mi propose di collaborare con i cucinieri, così da corteggiarmi per far parte dello staff in futuro. Strano, ma acconsentii. Soprattutto perché sul momento non avevo idea da dove cominciare a risistemare il pasticcio che era diventato il presepe. Sembrava fosse passato un monsone.
Conobbi così i sette ragazzi che ogni giorno, dalla mattina alla sera, preparavano il rancio per le truppe. Qual era stato il mio compito? Sorbirmi le spiegazioni del maresciallo Empolese, prima di eseguire l'ordine di servire il dolce. Giovedì, sabato e domenica c'era sempre un dolcetto a pranzo.
Ah, caro Diario! Benedetto sia quel maresciallo, perché mentre il refettorio accoglieva i primi soldati per il pranzo, mentre loro riempivano i vassoi di piatti dalla vetrina, e attingevano chi acqua, chi aranciata o coca-cola, io passavo le porzioni di mille foglie alla crema a ognuno di loro, beandomi della loro vista. Che meraviglia la loro allegria, la vitalità e tutta quella goliardia spinta ammessa. Molti mi salutavano, mi ringraziavano. C'erano pure i ragazzi della mia camerata, i più burloni di tutto il complesso. Mi fecero dimenticare per un attimo l'angoscia che mi stava mettendo a dura prova.
E poi finalmente passò lui davanti ai miei occhi. Il caporale Giuliani, alto, biondo come il grano ad agosto. Volto basso a nascondere due occhi marroni coronati da ciglia dorate. Quando mi vide mi arpionò il cuore col suo volto illuminato dal sole freddo di quell'inverno, che filtrava dalle finestre attorno. La giornata si riempì di sole. Di luce. Anzi, lui era luce. Un sorso di luce del quale mi scoprii assetato.
Da quel momento ogni cosa perse importanza. Persino il presepe e i fottuti premi che da esso dipendevano. Nulla aveva più valore paragonato a quel ragazzo. Pure quello che ancora sentivo per Dione Nadal, per il suo affascinante sguardo smeraldino e la complicità che mi aveva offerto senza condizioni, non reggeva il confronto col turbinio che aveva messo in moto il viso pulito di Giuliani.
Quando si avvicinò al banco dei dolci, mi indicò "due" con le dita rivolte ai tranci di millefoglie. Compresi che voleva una doppia porzione di dolce, nonostante fossi a un passo dal diventare ebete dall'emozione. Con una mano imboscai due pezzi sotto un solo tovagliolo di carta e glielo misi nel vassoio. Non se ne accorse nessuno, quasi nemmeno io stesso per come ero stato veloce. Mi ringraziò con un occhiolino, un occhiolino che innescò un sorriso che mi fece venire i crampi ai lati della bocca. Si potrebbe dire che era stato un colpo di fulmine, per me quella era folgore incendiaria.
Lo seguii con gli occhi, finché non fu assorbito dal gruppo di amici che gli avevano tenuto il posto in mezzo alle tavolate affollate. Però mi cercava. Ed io ero pronto a farmi trovare sempre. Ogni volta che mi concedeva lo sguardo riscoprivo me stesso.
22 dicembre 1997, lunedì
Avevo lavorato alla ricostruzione del presepe con più passione di quanta pensavo di averne. A pensarci bene, la versione precedente, quella che aveva demolito Goffredo, era carente di una cosa fondamentale: l'ispirazione. Caro Diario, quell'elemento mancante lo trovai nel volto di Giuliani, anche se da quel giorno non l'avevo visto più. A un certo punto avevo cominciato a credere che non fosse reale, che fosse stato un miraggio nello sterile deserto del militare. Non avevo nemmeno potuto indagare, o cercarlo per via dell'opera in esecuzione, che mi stava tenendo incatenato come uno schiavo.
Com'era la seconda versione del presepe? Tra avvallamenti rocciosi, alberati sentierini, giochi d'acqua e cascate, dove si stagliava la grotta dentro cui Maria e Giuseppe erano in attesa del lieto evento, potevo dirmi soddisfatto del risultato. Le tende di luci led fredde come stelle, piovevano dal soffitto tinteggiato di blu notte, dando l'illusione della Via Lattea. E poi i personaggi in gesso: pastori, greggi, mugnai e forni, popolani e bambini giocosi, tutti intorno a far da cornice a ciò che a giudizio di chi osservava la scena, era un'opera favolosa.
Persino lo scontroso aiutante Mundo, nonostante avesse imprecato tutto il tempo, era soddisfatto. Attese un momento di tranquillità, attento affinché non ci fosse gente nel refettorio, per esultare, e rivelare il suo vero volto.
«Quest'anno vincerò il premio e il colonnello mi deve dare pure la licenza premio.» Si leccò i baffi color sale e pepe. Gli occhi cerulei e viscidi. «Devi dire al colonnello Manin che io, IO! TI HO AIUTATO!» Ci pensò su un po', prima di correggere il tiro. «Anzi, no! Devi dire che ho fatto tutto io, hai capito? Devi dire che tu non hai fatto niente!»
Povero vecchio rincoglionito. Con me l'intimidazione verbale non ha mai funzionato.
Però, sarò sincero Diario, per la prima volta non mi interessava il mio tornaconto, per quanto mi appartenesse di diritto. Dissi sì, perché avevo qualcosa di più prezioso in testa. E poi non mi sembrava saggio farmi nemico un graduato maggiore.
23 dicembre 1997, martedì
Era il mio primo giorno da faccendiere. La prima promessa mantenuta dal tenente colonnello Manin. Mi aveva dato sul serio la possibilità di decidere quale mansione ricoprire col diritto di cambiarla tutte le volte che volevo. L'unico impegno per mantenere il privilegio era non rimanere senza nulla da fare. Mi parve equo. Oltretutto esisteva un registro e una bacheca da compilare in fureria, dove venivano segnati i compiti di tutti i membri del reparto comando e servizi. Perciò era tutto controllato.
Cosa avevo scelto di fare, ora che il presepe era pronto e in attesa di essere valutato dalla commissione? Il maresciallo Empolese era un trascinatore. Mi aveva convinto a far parte del suo gruppo. Avevo già un minimo di esperienza, avendo lavorato come tuttofare in un hotel. Sapevo che se c'erano gli scatoloni delle forniture davanti la porta di servizio dell'hotel, andavano trasportati all'interno della cucina. Il carro delle vivande che avevo trovato fuori dalla porta della cucina della caserma quel primo giorno, non faceva differenza. Perciò mi diedi da fare a svuotarlo da solo, ignorando che fosse un compito collettivo. Il maresciallo Empolese, non so come, mi aveva visto da chissà dove, e si precipitò a passo di carica in cucina tuonando: «Beh! Solo Macrame sta scaricando la roba stamattina?! Si batte la fiacca?! Veloci a prendere la roba!» I ragazzi, che fino a un attimo prima avevano ignorato di proposito la faccenda discutendo di calcio, presero a scheggiare avanti e indietro. Sembrava una scena di panico. Panico al quale mi unii anch'io, senonché il maresciallo mi puntò il dito. «Tu no! Non ti muovere! Io e il capitano ti abbiamo visto. Sei stato il primo ad aver avuto il buon senso di cominciare a lavorare senza che te lo dicesse nessuno!»
Quell'uomo iniziava a starmi simpatico. Anche i ragazzi della cucina cominciavano a esserlo. La sera stessa mi invitarono pure a uscire. Accettai. Era un'altra occasione per legare con qualcuno, finalmente, anche se fu una uscita rapida, dato che il coprifuoco scattava alle ventitré. Avevamo giusto il tempo di percorrere via Trieste e scegliere un bar sulla seguente via duca d'Aosta. Eravamo in cinque a occupare un tavolino sghembo, dove a fatica la cameriera era riuscita a sistemare le bevande che avevamo ordinato.
Dalla vetrata accanto alla quale avevamo preso posto, vedevo la gente transumare con buste piene di pacchetti regalo. Già. Era Natale. Nonostante avessi allestito un presepe gigante, non avevo sentito l'atmosfera natalizia. La mia testa navigava altrove, avevo negli occhi solo il volto di quel ragazzo biondo. La nuova compagnia a un certo punto arrivò anche a infastidirmi. E dire che erano bravi ragazzi, dal momento che avevano avvistato una mendicante inginocchiata a terra, riparata sotto il vecchio porticato della piazzetta dov'eravamo, e avevano deciso di offrirle una elemosina. Quando la vidi, anch'io mi impietosii. Tutta la gente allegra, e di una certa estrazione sociale che le passava davanti, era priva della volontà di notarla. Non importava nemmeno che tenesse in braccio un bimbo di pochi mesi, piangente forse dal freddo, o per la fame, o per tutto. Che tristezza. Erano più importanti le vetrine dei negozi ancora aperti.
L'incombenza di consegnare la colletta che avevamo messo assieme, toccò a me. Erano l'ultimo arrivato, e regola voleva che obbedissi, non avendo maturato anzianità di servizio. Perché sì, l'anzianità fa grado. La cosa non mi pesò. Certo, mi spiaceva dover dare a quella donna le cinquecento mila lire che avevamo messo insieme, ma d'altronde era Natale. Come si dice, caro Diario.
Zigzagai tra la folla e avvistai un carabiniere che faceva la sentinella. Incrociammo un veloce sguardo, e infine raggiunsi la donna col bambino. Mi piegai sulle ginocchia, la salutai e feci per depositare nella scodella delle offerte il nostro contributo. Senonché, un particolare mi gelò la mano. La donna era scura in volto, i lineamenti erano dell'est Europa. Invece il bimbo strillante era orientale. Occhi a mandorla e pelle lattiginosa. Sorrisi alla donna e andai via senza darle nulla. Quella si accigliò e sputò per terra. Io mi acquattai dietro una colonna del porticato, dove il carabiniere di prima stava facendo il suo giro di perlustrazione. Mi assicurai di non essere visto dalla mendicante e feci un cenno all'uomo in divisa, e quello si avvicinò con passo aggressivo.
«Sarò breve signore, e mi auguro che voglia prendere in considerazione quanto sto per dirle.» Il carabiniere mi studiò, prima di annuire serio. Il volto indurito. Gli dissi: «La donna che sta qua dietro, per terra, ha un bambino che non ha l'aria di essere suo figlio.»
Capì subito che ero serio. «Mi segua,» disse freddo, dirigendosi verso il punto che gli avevo indicato. La donna però, era già scappata, e aveva lascianto la creatura per terra, in mezzo al lerciume. «Si occupi del bambino!» mi ordinò mentre si lanciava all'inseguimento della disgraziata. Eh. Cosa potevo fare caro Diario, se non inginocchiarmi, raccogliere quell'anima innocente e ripulire la scodella colma delle precedenti offerte? Sì. Era quello che feci. Intascai tutte le elemosine, prima che i miei nuovi amici mi raggiungessero e spiegassi loro quello che era appena successo. La vicenda turbò a tal punto i ragazzi che si dimenticarono della mancata donazione, e io non glielo ricordai. Non potendo più sperare nella vincita economica del concorso, dal momento che l'aiutante Mundo se l'era arrogata, ritornai al vecchio sistema per mettere da parte il necessario per sopravvivere dopo il militare.
Sono una persona cattiva?
Come andò a finire col bambino? La faccenda si risolse lentamente. Consigliai i compagni di tornare in caserma e di avvisare qualche alto graduato su quanto era successo. Attesi un'ora sotto il porticato affinché arrivasse l'ambulanza, che supposi avesse chiamato quel carabiniere. Mi raggiunse anche una volante dello stesso corpo, e i nobili militari si offrirono di accompagnarmi al mio circondariato. Menomale. Non sarei riuscito altrimenti a rientrare, data l'ora del coprifuoco sforata di lungo. Ad accogliermi oltre la porta carraia trovai, tra i vari marescialli di guardia, anche il tenente colonnello Manin in persona. Era preoccupato. Esigette spiegazioni, gliele fornii e lui non commentò. Mi lasciò libero di ritirarmi. Lo ringraziai e sperai non macchinasse una punizione.
Altro che punizione. Il mattino seguente mi fece chiamare nel suo ufficio, dove ritrovai il carabiniere della sera prima. Assieme a lui c'era il suo colonnello, un uomo più alto di me, massiccio e dallo sguardo penetrante. La voce poi, un baritono tonante.
«Soldato, la ringrazio per il servizio reso. Grazie al suo intuito, siamo riusciti a restituire un figlio alla madre, e ad assicurare alla giustizia la rapitrice. Era una ricercata.»
Ero sfrastornato. Confuso. Ero sull'attenti, ma temetti di perdere i sensi quando quel monumento d'uomo mi strinse la mano. Ah, non feci una bella figura quando quello elaborò domande di rito cortese, alle quali risposi come se avessi avuto in bocca paglia secca. Alla fine mi appuntò una minuscola medaglietta al petto come riconoscimento ufficiale alla buona azione.
Menomale che Dione Nadal mi aveva consigliato di vivere nell'ombra, di evitare di mettermi in mostra, di essere discreto. Senza che l'abbia voluto, i riflettori della ribalta mi stavano braccando ogni giorno sempre più.
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