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14 • Destinazione nuovi guai

4 dicembre 1997, giovedì

Era un pomeriggio meno freddo del solito. Il sole accendeva di arancione i muri color crema delle casermette attorno al parcheggio interno alle mura. Gli alberi si stavano ancora scrollando di dosso le foglie arrossate dall'autunno, giunto a un passo dal cedere il posto all'inverno. L'aria era frizzante. Insolito, dopo un gelido mese quasi senza un barlume di sole, eccolo lì, redivivo e luminoso che ricordava il suo tepore. Quanto sarebbe durato?

Intorno al piazzale c'erano tutto lo scaglione 97/98 diviso in squadre, in attesa di salire sugli autobus verde polvere diretti alle destinazioni finali del servizio di leva. Era surreale. L'angoscia che ci aveva visti intraprendere quell'avventura era svanita. Senza accorgercene avevamo assimilato il rigore militare. Eravamo tutti pronti e sistemati in ordine. Eravamo diventati degli ubbidienti soldatini. Diventarlo era evidentemente un rito di passaggio comune ai najoni. Tra di noi c'erano amicizie appena nate, molte delle quali destinate a morire quello stesso pomeriggio a causa dello smistamento nelle diverse località alle quali ci avevano destinato.

Mi ritrovai affianco a Lorenzo, il sorridente toscano, ora con l'aria colpevole a elemosinare da me un po' di cameratismo. Poteva fottersi! Mi aveva ignorato la domenica precedente, troppo preso dalla gioia di rivedere i suoi parenti. Era il mio turno. Gli restituii la stessa valuta. Lo trattai come fosse un venditore ambulante che disturba durante le ore inopportune. Che goduria, caro Diario quando si imbronciò. Sembrava un cane bastonato. Se devo essere sincero, non ero nemmeno offeso quando mi aveva ignorato. Durante quegli ultimi istanti però avevo bisogno di vedere nei suoi occhi lo smarrimento nel quale i miei erano annegati. Se davvero aveva visto un amico in me, avrebbe potuto fare qualcosa per non farmi sentire solo quella dannata domenica. Comunque, non aveva da soffrire molto dal momento che sarebbe stato in compagnia di Senigallia. Era capitato nello stesso gruppo. Lo avrebbe allietato con le novità sepolcrali all'ultimo grido di lutto. Menomale, me lo sarei tolto di mezzo.

Più sfortunato di Lorenzo fu il nanerottolo romano, quello che si era messo in testa di rendermi la vita un inferno. Solo che l'inferno gli fu restituito con gli interessi da me, e ottenuto il resto dalla caserma stessa, per via del linciaggio che insieme ai suoi compari aveva ordito ai miei danni. Infatti a lui e ai suoi scagnozzi toccò andare a Cormons, l'inferno bianco. E finalmente scoprii il perché di quell'epiteto terribile ascoltando gli accorati commenti di commiserazione che si erano levati attorno agli sfortunati. A quanto mi era parso di capire, la caserma di Cormons era in montagna, isolata, che il freddo invernale da quelle parti fosse intenso e duraturo, che il rigore militare vigente era il più rigido in assoluto, e che addirittura vantava il più alto caso di suicidi tra soldati. Prestare servizio in quel posto era a tutti gli effetti una punizione. Quella scoperta mi rallegrò e mi fece ringraziare la mia buona stella: grazie caporale, anzi, sergente onorario Dione Nadal, per avermi sottratto il biblico amaro calice. Non lo dimenticherò mai.

Ma torniamo a noi, caro Diario. Cos'altro ricordo di quel pomeriggio? Che il mio gruppo era stato l'ultimo a partire durante il tardo pomeriggio. Perciò ebbi modo d'inquadrare per bene chi fossero i sessanta o poco più commilitoni che mi avrebbero affiancato. Non ne conoscevo nemmeno uno. C'erano due che svettavano in altezza e che si avvicinarono verso me come attratti da un richiamo tra simili. Il resto del gruppo... oh, santa, banana! Sembrava reduce da una generale carenza di vitamina D a livello pandemico! Per carità, caro Diario, non giudico le persone dall'altezza, ma minchia, stare con il capo chino tutte le volte per scambiare due parole... mi crollerebbe il doppio mento - che non ho.

Al saluto di circostanza ai caporali, seguì la salita sull'autobus. Ringraziai il cielo che Dione Nadal si fosse congedato già da giorni. Lo avrei abbracciato in un modo che non avrebbe lasciato spazio a nessun dubbio su quanto quello stupendo ragazzo mi era entrato dentro. Ma, assente lui, era anche ora che uscisse fuori dalla mia mente e da tutto il resto. Mica aspiravo alla pazzia.

Dopo aver sistemato i bagagli nel vano sotto il veicolo, ed esserci accomodati nell'autobus, un maresciallo dalla stazza di un facocero si alzò, con molta fatica, e si schiarì la voce per interrompere il brusio che avevamo sollevato.

«Stiamo andando alla caserma Montesanto di Gorizia. E lì si lavora!»

Tutto qui. Discorso finito. Già lo adoravo quell'uomo mezzo annegato nel lardo. Se una persona è anche il prodotto dell'ambiente in cui vive, c'era da dubitare sul lavoro che aveva promesso.

Intorno alla vita strinsi il marsupio dentro il quale avevo risposto i miei ori, che avevo recuperato poche ore prima dal deposito valori. Il maresciallo dell'ufficio valori mi aveva raccomandato in modo sentito di fare attenzione. Lo ringraziai brevemente. Quel pomeriggio in verità fu tutto breve. Anche il viaggio. Una mezz'oretta circa, con solo Palmanova come città degna di nota intravista nella cornice del finestrino, e la sconosciuta Gorizia si rivelò in tutto il suo fascino di città di frontiera. Pur nella brevità del viaggio, ho potuto comunque constatare quanto verde fosse il Friuli e quanto era curato. Incantevole.

Ultima nota, la vicinanza della stazione ferroviaria. Da lì la strada conduceva, dopo poche centinaia di metri, alla caserma dei carabinieri, confinante con la Montesanto.

La porta carraia era più modesta, e più stridente quando si aprì. All'aspettativa della magnificenza dello Spaccamela, con le sue aree immense e gli infiniti porticati che univano le colossali casermette, si sostituì una più modesta piazza d'armi, asfaltata l'ultima volta forse in tempi di guerra. Tuttavia, l'agitazione dovuta alla nuova situazione era la stessa già provata il primo giorno. Di diverso c'era anche l'assenza dei caporali urlanti regole, e l'ossessivo imperativo di mantenere l'ordine e il silenzio. Ci fecero scendere, recuperare bagagli e attendere pochi minuti nella piazza. Il tempo per organizzare lo smistamento nelle casermette lo adoperai per guardarmi attorno. Oh, c'era una casermetta vicina alla porta carraia. Era la più curata, tinteggiata di rosso mattone. Al piano superiore c'erano gli uffici degli alti graduati. Sotto, in pianterreno, l'infermeria e poche camerate. Difatti era il reparto pronto soccorso.

Separata da un giardinetto con alti alberi di pino, betulle e aceri, c'era il reparto comando e servizi. Ogni rifugio, a dire il vero, era separato da spazi verdi simili. Appariva tutto così curato e accogliente. Vai a pensare che Dione Nadal mi aveva fatto davvero un bel regalo agevolando la mia destinazione in questo posto. Un grazioso vialetto asfaltato e sbiancato dal sole univa tutte le strutture. Un po' più in là c'era una minuscola casupola adibita a barberia; così c'era scritto sopra il cornicione della porta. Il piano superiore era destinato alla lavanderia. E poi più in fondo al vialetto, la terza e ultima casermetta, quella del genio guastatori.

L'unica incombenza che espletammo fu rispondere all'appello, mostrare il tesserino militare di riconoscimento, e dividerci in gruppi, che una manciata di caporali avevano già designato nei loro taccuini. Naturalmente sotto la supervisione di un maresciallo.

Io e una ventina di ragazzi capitammo nel reparto comando e servizi, dove entrammo con una certa soggezione. Di fronte c'era una scala che conduceva al piano superiore, dove già una parte del gruppo si disperse. Sulla destra un'altra manciata di commilitoni sparì dalla mia vista. Io e ciò che era rimasto dei nuovi arrivati imboccammo il corridoio a sinistra. Non c'era molto da camminare. Sulla destra notai l'ufficio del capitano. La porta successiva era della fureria, che occhieggiava come uno sportello comunale, un ufficio preposto a posta, notizie varie e altre burocrazie. Ancora affianco, c'era la porta di una cameretta con appena due letti uno sopra l'altro. Di fronte, sul finire del corridoio, la camerata che ci attendeva. E che attesa!

Un boato sentimmo appena il nostro caporale accompagnatore aprì l'uscio. Tanti ragazzi festosi e curiosi di vederci ci sorridevano, applaudivano persino. Noi, per via della rigidezza che ci avevano inculcato durante l'addestramento, eravamo sbigottiti e persino impauriti.

La camerata era divisa in due da un muro, lo notammo perché sulla nostra sinistra c'era un accesso senza porta.

Nel breve passaggio che compimmo, altri ragazzi stavano a ridere e scherzare con tutti noi, che sfilavamo rigidi come statue. Tutti tranne uno, la cui schiena avvallata sulle natiche in bella vista, era mezza coperta dall'anta di un armadietto di ferro. Mi colpì non solo l'altezza equa alla mia, ma il fatto che fosse piena di tatuaggi. Mi affascinò, e quasi non feci caso al ragazzo che ci poneva domande tipo barzellette, alle quali nessuno rispondeva. Nessuno tranne il sottoscritto.

Infatti, durante la brevità del fascino sortito dalla schiena iper disegnata, quello mi domandò: «Perché l'arancia non va a fare la spesa?»

«Perché manda-rino,» gli risposi puntando ora gli occhi addosso, facendolo rimanere a corto di scherzi. I suoi compari lo presero in giro perché aveva scommesso sopra al fatto che nessuno di noi nuovi sarebbe stato abbastanza sciolto da rispondere alle sue burle. Non immaginava di trovarsi di fronte al favoloso Evaristo. Comunque lo trovai simpatico, con quel suo volto lungo e pieno di lentiggini, e nonostante gli occhi mi ricordassero Dione Nadal. Per questo motivo addolcii la sua delusione con un rapido occhiolino. Si risollevò subito.

Il frastorno dovuto al senso di nuovo ci accompagnò fino al reparto rancio. Difatti era giunta l'ora di cena. Dopo aver sistemato i bagagli civili e militari negli armadietti accanto le brande, il solito caporale accompagnatore ci esortò, con scarsa autorità, a metterci in fila fuori dalla casermetta. Non marciammo, menomale, così potemmo vedere gli altri luoghi che componevano la caserma. Ci pilotarono a destra dell'uscita e ci fecero sfilare davanti la casermetta del pronto soccorso, dove da qualche finestra alcuni ragazzi ci osservarono passare. Vedemmo scivolare sotto i nostri sguardi la porta carraia, e anche lì, nell'alveolo di guardia, un quintetto di soldati espresse curiosità con gli occhi. Successivamente notammo un edificio tipo condominio, dove alloggiavano gli altri graduati maggiori. Il vialetto, dopo alcune centinaia di metri, curvò a sinistra, sfiorando un grazioso angolo verde, pieno di alberi con tante panchine e tavolini. Era un giardino a tutti gli effetti. Voltati a sinistra, notammo il vialetto lasciare il posto a una larga strada dove a sinistra il magazzino viveri, a quell'ora deserto, fronteggiava lo spaccio a destra, che accoglieva i primi clienti. Da quel punto, intuire la dirittura d'arrivo al refettorio era agevolata dagli odori di cucinato che riempiva l'aria. Sarà stato il languore di stomaco, ma era invitante.

Sostammo pochi minuti sotto un minuscolo porticato, composto da colonne e tettoia di cemento, prima di scoprire l'interno del locale. Era un po' più grande di una palestra. Il pavimento era piastrellato e pulito. I tavoli erano lunghi e messi in fila uniti, striavano di arancione tutto l'ambiente. Le sedie di plastica erano verdi. Sulla destra il bancone self-service continuamente rifornito dai reclutati al servizio rancio, diretti da un maresciallo. Proprio quel graduato ci esortò ad avvicinarci. Era tarchiato. Volto quadro e sguardo sveglio. Da come impartiva le direttive si capiva che ci teneva alla buona riuscita del servizio. Aveva occhi grandi. Aveva l'aspetto di un padre dai modi energici. Trasudava serietà e massimo impegno.

Com'era quel servizio così promettente? Beh, considerando da dove venivamo, dalle minestre propinate che rendevano invitante il digiuno quaresimale, ci ritrovammo sorpresi dalla bontà di quei piatti. Quanto ancora dovevo rendere grazie al magnifico sergente onorario Dione Nadal, per essere riuscito a destinarmi in questo posto?

Tuttavia, la pessima figura la facemmo noi nuovi arrivati, con tutto la rigidezza che portavamo addosso. Eravamo impacciati. Qualche piatto colmo di cibo cadde dalle mani di qualcuno. Da ciò quel maresciallo, M. Empolese, fiutò subito la situazione. Non si arrabbiò per l'incidente, anzi! Comandò un soldato sotto il suo controllo di pulire.

«Questi vengono dallo Spaccamela!» esclamò con un vocione che investì l'intero refettorio. «Li conosco come lavorano lì.» Lo disse con tono soddisfatto. Ma cazzo, ci avevano fatto il lavaggio del carattere per davvero! Pensai. E pensai che fosse giunta l'ora di tornare a essere il caro vecchio Evaristo pre-naja.

Il refettorio si riempì solo per metà. Gli altri soldati di stanza prima di noi avevano avuto cura di lasciarci entrare per primi. Balzava subito agli occhi la mancanza della rigidezza alla quale eravamo abituati. Ecco. Abituarsi a quel cambiamento era un altro rito di passaggio al quale nessuno alla fine poteva sottrarsi.

Il ritorno nelle casermette, l'opportunità di fare la doccia e tante altre incombenze, non esigevano l'osservanza delle file. Vigeva un ordine autonomo. La caserma Montesanto era una minuscola comunità, vivace e accogliente. Così accogliente che prima di occupare le brande si poteva animare la serata con discorsi, giochi con le carte, scherzi e quant'altro. Noi nuovi giunti subimmo allegre interviste da parte dei ragazzi più anziani in servizio. Ce n'erano tre, veneti, tutti biondi, sulle brande dirimpetto alla mia, che si fecero in quattro per apparire simpatici. E lo erano per davvero. Si prendevano in giro l'un l'altro, con quelle voci squillanti e il loro accento veneto che suscitava allegria. Allegria. Uno stato d'animo che francamente non mi era mai appartenuto. Era giunta l'ora di provarne un po'. Dovevo cambiare qualcosa in me, se volevo stringere qualche amicizia anche temporanea.

Le cose cambiano d'altronde. Come a esempio la modalità della sveglia il mattino dopo, non più alle cinque ma alle sei e mezza, senza il ricorso a esplosioni di urla incontrollate da parte di sadici caporali impettiti, no. Piuttosto con un delicato "sveglia" sussurrato dal piantone turnista, appena sostituiva con le luci bianche quelle blu notturne delle camerate.

Ma quella che sembrava una vita da pacchia, per me prese sin da subito una piega inaspettata. Eppure mi ero prefigurato un ricco ventaglio di possibi situazioni che sarebbero potute accadere. Mai nessuna però sarebbe stata più singolare di quella che accadde il giorno dopo, di venerdì. Infatti, dopo la colazione e il rito dell'alzabandiera con sussurro generale dell'inno nazionale, ci fecero marciare. Mi dirai, caro Diario, nulla di nuovo in vista. Invece no. Eravamo una trentina a percorrere il vialetto in direzione della casermette dei guastatori, guidati da un occhialuto caporale impacciato come pochi, aiutato da un'altro messo pure peggio. Non sapevano cosa farci fare dal momento che proposero di spazzare le foglie cadute negli spazi verdi tre le casermette.

Mi proposi con entusiasmo, anche perché nonostante il sole e il cielo pulito faceva freddo. Muoversi era l'unica difesa per non prendersi un malanno. Perciò, con rastrelli e sacchi neri in mano ci avviammo al servizio, senonché qualcuno chiamò: «Macramè!» Mi voltai in mezzo al giardinetto, interrompendo lo scambio di battute con quanti avevano avuto voglia di parlare con me. Tre caporali stavano discutendo su qualcosa, poi si rivolsero ancora una volta al gruppo.

«C'è qualcuno che si chiama Macramè?»

«Se togliete l'accento può darsi!» dissi avvicinandomi. I volti si sollevarono per fissare il mio posto un tantino più in alto dei loro. Si scusarono imbarazzati. Decisi di sorvolare.

«Allora? Che c'è?»

«Devi venire al comando. Il tenente colonnello Manin ti vuole parlare,» disse uno serio. Caro Diario, tutta la baldanza che avevo fatto riemergere a fatica, crollò. Che cosa poteva volere da me il comandante supremo della caserma? Strada facendo lungo il vialetto glielo chiesi a quel caporale. In tutta risposta mi informò che ero fottuto. Il tenente colonnello era un sadico. Mi raccontò brevemente la vicenda di un tizio che aveva ricevuto le sue attenzioni, e che alla fine del periodo di leva era ridotto a pelle ossa, depresso, e mezzo uscito fuori di testa.

Perfetto. Tutta la fortuna, o presunta tale, avuta fino a quel momento, stava per presentarmi il conto. Mi sorse un orribile dubbio. E se Dione Nadal avesse informato i piani alti circa il mio orientamento sessuale? Oh, mi sembrava troppo perfetto come ragazzo. Traditore. E io come un idiota che glielo avevo confessato. Sentivo i muscoli scoppiare sotto la divisa. Non sentivo più nemmeno freddo. Sarebbe stato il secondo tradimento che subivo. Il primo dalla mia famiglia, il secondo da quel bel viso d'angelo caduto. Decisi di non esporre mai più questo lato di me, a nessuno. La mia sola vulnerabilità. Un punto debole mortale.

Ormai non potevo fare nulla oltre a farmi condurre col cuore in gola fino al piano superiore del reparto comando, accettare dal caporale accompagnatore il suggerimento di compostezza, e osservare il protocollo gerarchico. Stare sull'attenti in attesa che il tenente colonnello sciogliesse l'obbligo.

Bussai. «Avanti!» E tac! Assunsi la migliore delle pose di saluto militare salutando con energia.

«Oh!» sobbalzò l'uomo seduto sulla scrivania più ricercata che avessi mai visto. «Che grinta!» esclamò alzandosi. Era di statura media, volto vetusto, baffetti teutonici, e scuri occhi piccoli. E data la pregiata mobilia contenuta in quell'ufficio, sembrava un venditore di antiquariato, piuttosto che il comandante supremo. «Riposo, soldato, riposo!» Sembrava incerto su cosa dire. Forse a causa della mia irruenza, chissà. «L'ho fatta chiamare perché ho bisogno di un servizio speciale,» esordì dopo avermi squadrato per bene.

«Sono a vostra disposizione, signore!» mi sciolsi in un sorriso di sollievo. Non ero stato scoperto.

«Sulla scheda attitudinale ho letto che lei è un artista.»

«Ho un diploma artistico signore, ma non mi reputo ancora un artista.»

«Penso che andrà bene lo stesso. Ho intenzione di allestire un presepe per questo Natale. Vorrei affidarle questo incarico.»

Per una cosa banale come questa, pensai, avrebbe potuto chiamare chiunque. Quali doti ci vorranno mai per assemblare un presepe su una mensola, o sulla scrivania, od ovunque in quell'ufficio. Ma, chi ero io per obiettare. Perlustrai rapido ogni superficie alla ricerca del punto visivo migliore. Il tenente colonnello intercettò veloce la mia ricerca facendomela abbandonare.

«Non ho bisogno di un presepe per la scrivania. Ho bisogno di un allestimento al gran completo. In grande stile. Una rappresentazione vasta e scenografica. Ne ho bisogno perché vorrei far partecipare la Montesanto al concorso di presepi tra caserme che si tiene ogni anno. E ho bisogno anche e soprattutto di vincere almeno una volta!»

Era determinato. Sapeva quello che voleva, e io non potevo rifiutarmi. Farlo avrebbe segnato la fine della vita tranquilla promessa da quella pacifica caserma. Eppoi, Dione Nadal me l'avena raccomandato di fare tutto ciò che rientrava nelle mie competenze. Il tenente colonnello mi aveva proposto un lavoro artistico. Mi dissi: facciamolo bene allora.

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