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Capitolo 9


DANTE

Ogni volta che penso di essere pronto, di avere ogni cosa sotto controllo, tutto si capovolge e il destino mi riporta nell'oscurità. In quel baratro profondo in cui ho vissuto fino a sentirmi a casa.
Nel mio petto, continua a pulsare qualcosa a cui non riesco a dare un nome. È un groviglio di sensazioni che rischiano di annientarmi, di ridurmi la mente in macerie.
Quello sguardo duro, accusatorio. Quelle parole... sono state talmente affilate da strapparmi come carta qualcosa dentro, e da non riuscire a rispondere come avrei dovuto per riportare il giusto ordine nel mio mondo.
Non ho osato mettere piede in casa per affrontare la situazione, il lieve imbarazzo che ne è derivato dalla sfuriata di Joleen in auto di fronte alla mia reazione tanto impulsiva quanto aggressiva, mi ha fatto desistere. Troverò un modo per discutere la mia posizione in merito con lei. Adesso però devo chiarire una cosa importante con quella testa di cazzo di Coleman.
Lui non può e non deve ostacolare in alcun modo la mia vendetta sui Rose. Soprattutto non può usare il suo repellente atteggiamento per mettere le mani su una donna.
Mai. Non dovrà farlo mai più.
Non è solo la sua mancanza di rispetto quella ad avermi fatto ribollire il sangue nelle vene. È stato lo scambio che ne è conseguito quando sono sopraggiunto in quel vicolo e gli ho impedito di fare qualsiasi cosa avesse in mente dopo avere appena iniziato. Ho agito d'impulso e a dire il vero non mi pento.
Accendo una sigaretta dietro l'altra, incurante del limite di velocità per raggiungere il locale in cui sono certo di trovarli in una situazione come quella che si è creata. Ne ho conferma quando Terrence mi invia la posizione esatta, senza neanche il bisogno di chiedere. Perché sa che arriverò da loro. Sa che sto andando a cercare quel coglione per farlo a pezzi.
"Il Blackout", è un altro dei nostri club. Il posto in cui passi la serata e il giorno dopo non ricordi come sei finito nudo su una spiaggia o in una stanza d'hotel con tre persone; dato che non è solo l'alcol la cosa principale a circolare.
Entro come una furia. Non mi perdo in convenevoli, non mi fermo al bar, non scambio nessun saluto o chiacchiera di circostanza con chi ci lavora da tempo. I due buttafuori posizionati in fondo alla sala, quando li raggiungo, mi lasciano passare senza battere ciglio.
Non appena spalanco la porta della sala privata, molte paia di occhi mi si puntano addosso per capire che aria tirerà.
Faron sta urlando addosso a Coleman. Proprio come farebbe qualsiasi capofamiglia infuriato e un uomo al quale hanno osato fare del male alla propria donna.
Di mio padre o di Parsival non vi è traccia. Il che è un bene, perché sto per dare spettacolo e un cattivo esempio al nostro gruppo.
Non appena si accorge della mia presenza, Faron smette di sbraitare, provando subito a ricomporsi; seppur con scarsi risultati. «Le hai lasciate a casa?», domanda aggiustando il colletto aperto della camicia. «Stanno entrambe bene?»
Annuisco.
Faron può incutere timore, può essere spietato. Ma a suo modo è anche innamorato di Joleen; l'unica persona al mondo a metterlo in ginocchio. Ha dei solidi principi nella vita, in parte anche dei sogni diversi da quelli ambiziosi di nostro padre.
Le guance in fiamme, lievemente alticcio, forse anche strafatto, Coleman invece se ne sta stravaccato su uno dei divani. La camicia aperta sul davanti, macchiata di chiazze rosse; gli occhi lievemente assonnati e le pupille dilatate. Un lungo graffio copre parte del gomito fino alla zona del polso. Il segno evidente della reazione della sua vittima.
Non lo perdo di vista neanche per un secondo. Attendo paziente la sua prima mossa per sfoderare il mio arsenale.
«Sono arrivati di nuovo i rinforzi. Grandioso!», biascica con finto sarcasmo, ridendo come un imbecille. Indicandomi, aggiunge: «È solo colpa sua se...»
In un attimo sono davanti a lui. Lo faccio cadere dal basso schienale del divano e con un ginocchio lo schiaccio a terra come un verme.
«Non ho sentito ciò che hai detto. Ripetilo. Oppure ti va di riferire a tutti quello che mi hai urlato in quel vicolo, dopo che ti ho impedito di stuprare una ragazza? Se non erro, l'ennesima sulla quale hai mirato il tuo sguardo da maniaco. Una persona che non avresti mai dovuto toccare con un dito», non termino la frase, lo faccio girare a pancia in giù, porto il polso dietro la sua schiena tirandoglielo verso l'alto, in una posa dolorosa. Un solo movimento sbagliato e potrà dire addio all'uso del braccio per un po'.
«Eri a tanto così dal macchiarti di un qualcosa di orribile. Ma questo lo sai già. Non è così?»
Coleman urla dimenandosi. «Lasciami andare, cazzo. Lasciami o mi farò offrire lei come colazione e segno di scuse da tuo padre quando saprà come stai reagendo!»
Rido come un pazzo. «Sai, temo che questa volta il tuo paparino non potrà chiedere neanche a Cristo in persona l'aiuto che ti serve», gli sibilo all'orecchio, al contempo con un tono abbastanza udibile agli altri. «Hai superato il limite e sei andato contro gli ordini della famiglia. Mi hai mancato di rispetto davanti a tutti, pur sapendo quanto e cosa c'è in gioco. Pur avendo giurato lealtà e obbedienza».
«Sei solo un fottuto bastardo, Dante. Un fallito che vive di ricordi e si diverte a torturare chiunque. Hai perso qualcuno e hai sofferto, vero, ma questo non te lo riporterà indietro. Svegliati! Tuo padre ha voluto quella ragazza solo perché era dest...»
«Basta! Non un'altra parola, Cole!», Faron lo mette in allerta, provando allo stesso tempo a fermarmi, perché ha notato cosa sta per succedere. Troppo tardi. Ho già fatto voltare Coleman e gli ho mollato un pugno in faccia talmente forte da rompergli il setto nasale.
Il rumore dell'osso in frantumi sovrasta qualsiasi altro suono nel giro di qualche metro ed è tutto quello che si sente intorno a noi per pochi istanti, seguito dal singulto di Coleman quando gli premo il palmo sulla bocca, ripetendo il gesto che ha fatto a Eden; mollandogli di seguito un altro pugno per vendicare lo schiaffo che le ha dato e che non ho potuto impedire.
Rabbia.
Desiderio di vendetta.
Lascio uscire tutto in maniera violenta.
Senza controllo sfogo la mia furia cieca, mostrando solo briciole di quello che mi divora dall'interno.
È di questo che ho bisogno. Sguinzagliare il lato oscuro della mia anima infuocata dai morsi divoranti della vita.
Di tanto in tanto, sento il forte bisogno di perdere il controllo di tutto, di spegnere le emozioni, di dare uno strattone alla realtà per potere ritrovare il controllo.
È l'unica maniera che conosco. L'unico metodo infallibile per tenere a bada la bestia selvaggia che mi trascino dentro.
Abbasso il viso trovandomi a livello del suo. «Sta' pur certo che se dovessimo incappare in una situazione come dire... spiacevole, non salverò un pezzo di merda e codardo come te! Non lo permetterò e non lo farò neanche sotto giuramento. Non dopo questo giorno».
Prova a reagire, lo placco a terra tenendolo fermo per il collo. Un'altra cosa che ha osato fare con lei.
Non ho ancora finito di impartire la mia lezione.
«Sei un verme e tornerai presto a strisciare in fondo alla scala sociale. Dato che hai toccato qualcosa che non ti è stato neanche offerto, lasciandole i segni, da oggi avrai un bel ruolo nella nostra famiglia», sorrido come un sadico, pregustando la vittoria.
«Cazzo, amico, fermalo!», Nigel, appena entrato, cerca aiuto in Faron chiedendogli di farmi uscire da qui dentro prima che ammazzi Coleman. Anche Terrence interviene facendo un passo avanti, seppur combattuto. Ho notato il modo in cui ha guardato Cole per tutto il tempo in quel vicolo. Sta continuando a farlo anche adesso. So che cosa lo sta trattenendo e so che se solo gli dessi la possibilità, un comando qualsiasi, lo farebbe a pezzi. Ma ci penserò io a farlo, giorno dopo giorno, a partire da stanotte.
«Non riuscirai mai a darmi degli ordini o a sottomettermi. Tu non sei il capo», sibila sprezzante Coleman, ritrovando un po' di fiducia in se stesso solo dopo essersi reso conto della folla di uomini che ci circonda. I suoi due amici, Chip e Chop, sono già stati messi al tappeto al Regency dopo avere toccato Joleen, attualmente non si trovano qui. Penso che non li rivedremo tanto presto al suo fianco. Le punizioni sono punizioni.
Attirati dalle nostre urla, tutti gli altri che ci hanno raggiunto, stanno assistendo inermi alla lotta.
Un passo avanti da uno solo di loro e potrebbe nascere una guerra. Perché farlo, ha tanto il significato di uno schieramento.
Sono le regole della famiglia. Nessuno può aiutare in caso di tradimento o insubordinazione. Ecco perché Faron sta tentando di calmare gli animi con le parole.
Una volta tanto queste regole mi sono utili per rimettere in riga il bastardo che da quando sono entrato a far parte della famiglia non ha fatto altro che mettermi in cattiva luce o nei guai.
«Ho ancora un conto in sospeso con quella puttana. Non avresti mai dovuto intrometterti. La prossima volta me la scopo a sangue davanti a te», mi provoca. «Poi farò fare lo stesso ai miei uomini e alla fine, forse potrai riprendertela. Sempre se vorrai gli avanzi», ghigna.
Faccio pressione sul suo naso e mi godo ogni singolo istante della sua agonia senza battere ciglio. «Quindi stai ammettendo di avere fatto qualcosa che non dovevi?», soffio aria dal naso come un toro, mostrando al contempo i denti come uno squalo. «Hai appena ammesso di avere tradito la fiducia della famiglia anteponendo i tuoi bisogni...»
«Dante!»
«Fermati!»
«Tra un po' lo ammazzi!»
«Qualcuno faccia qualcosa, dannazione!»
«Che nessuno si avvicini! Sono le regole».
Inferocito come sono, non riesco a sentire ragione. Mi abbatto ancora su di lui come un ariete di sfondamento. «Da domani servirai cibo ai cani e ti occuperai dei maiali. Sono sicuro che tra i tuoi simili ti troverai bene. Non scomodarti a venire alle riunioni di famiglia perché fino a nuovo ordine non sarai il benvenuto. Goditi le retrovie, idiota!», mi sollevo mollandogli un calcio talmente forte da non permettergli di aprir bocca. «E se solo ti avvicinerai di nuovo a lei, perderai più di una mano... e un proiettile in testa sarà il tuo unico e ultimo desiderio».
Coleman riesce a non svenire, sputa sangue a terra, strisciando tra puof pieni di bottiglie, divani e persone che ci fissano spaventate, continuando a scansarci per non andarci di mezzo.
«Te la farò pagare!», osa minacciarmi, facendo crollare a terra dei calici. «Aspetta e vedrai!», urla in mezzo al fracasso.
Attendo che si sollevi da terra e gli permetto di caricare e provare a colpirmi. Lo faccio solo per buttarlo di nuovo a terra con una gomitata sull'addome. «Be', che dire, sei stato utile al mio scopo una volta tanto, cugino. Benvenuto all'inferno pezzo di merda!», gli sibilo dopo averlo afferrato per il collo e averlo avvicinato al mio viso.
Prima di perdere completamente la testa, lo lascio andare e mi allontano. Raggiungo il bancone della zona bar proprio mentre due delle guardie scortano fuori dal Blackout Coleman.
Frugo dentro il freezer, tiro fuori un sacchetto di ghiaccio per metterlo sul dorso della mano. Riesco a muovere le dita e da una prima occhiata non mi sembra messa poi così male.
Appoggiato all'angolo inspiro a fatica, tolgo il tappo con i denti sputandolo come un vichingo e tracanno un po' di liquido direttamente dal collo della bottiglia. Non ho scaricato neanche un quarto della rabbia che sento su quel maledetto. Ma le conseguenze sarebbero state irreparabili se solo fossi arrivato un minuto in ritardo in quel vicolo o se non avessi sentito quell'urlo che mi è entrato dentro come un proiettile.
Raggiungerla e vederla lì, inerme, spaventata, sul punto di smettere di lottare, con le mani di Coleman sul suo corpo irrigidito, mi ha trafitto in due come una lama avvelenata. Non ho osato guardarla negli occhi quando l'ho liberata, per non perdere del tutto il senno. Era già abbastanza difficile assistere mentre mi stavo avvicinando a loro.
«Sei sempre il solito». Terrence mi raggiunge passandomi un flacone di crema per il dolore e i lividi. «Ma l'hai fatto a pezzi e per questo ti stimo. Goditi il momento e ricordami di non farti incazzare mai così tanto. È stato spaventoso vederti in azione», con un sorrisetto si allontana dalla mia traiettoria. Sa quando è il momento di lasciarmi solo prima che possa esplodere di nuovo.
Faron prende il suo posto. Il telefono premuto all'orecchio, si appoggia con un fianco al ripiano del bancone, incrocia le caviglie, poi avvicina la bottiglia che ho davanti prendendo anche lui un sorso. Fa una smorfia, riaggancia e infila il telefono nella tasca posteriore dei pantaloni. «Non ti ho mai visto tanto arrabbiato con qualcuno quanto lo eri prima. Non eri più tu».
Sollevo una spalla per sorvolare sull'argomento, tolgo gli anelli e controllo meglio la mano livida.
Non posso dire a mio fratello di essere stato bacchettato dalla ragazza che abbiamo preso in ostaggio, la quale mi ha aperto gli occhi e fatto sentire un coglione quando ho commesso l'errore di sbraitarle in faccia di essere stata tanto ingenua e fragile da non essersi difesa. Avrei voluto prendermi a schiaffi da solo, sotterrarmi, tagliarmi la lingua. Perché so che le parole hanno sempre un peso. Le mie hanno demolito quel poco di sicurezza che le rimaneva dentro.
Aperto il tubetto di crema la spalmo sul dorso gonfio e riuscendo a trovare il kit in uno dei cassetti bassi dietro il bancone, bendo la mano. Infilo poi gli anelli dentro la tasca dei pantaloni. «Mi stai dicendo che sono fuori dal comando per un po' e che gestirai tutto quanto tu? Be', è un'ottima notizia! Non era quello che volevi?», sfodero il mio finto sguardo serafico. «Hai battuto il fratellino non voluto. Nostro padre sarà fuori di sé dalla gioia».
Faron, contrariamente, mi guarda storto. «Tecnicamente sei fuori per qualche giorno dopo quello che hai fatto a tuo cugino, non solo per la mano. Aspettati anche una strigliata da nostro padre, il quale non sarà affatto contento. Per il resto, passa come meglio credi il tempo libero che ti è stato concesso e per favore, evita altre cazzate. Soprattutto cerca di non stuzzicare più Cole e tratta Eden come tratteresti le tue sorelle».
Mi avvio fuori irritato. «Non ti prometto niente. Sappi che ho fatto il mio dovere non solo per lei. Ha toccato anche Joleen e mi ha mancato di rispetto».
Faron mi tira dietro il flacone che prendo al volo. «Se si gonfia sarà un cazzo di casino», indica la mia mano.
Il suo in parte è un ringraziamento velato. Un gesto atto a indicare e a chiedere una tregua tra noi.
«Ho superato di peggio di un osso rotto».
«Lo so. Ma le tue mani servono alla squadra», mi fa intuire il nesso delle sue parole.

* * *

Uscito dal locale, non ho proprio voglia di fare niente. Non voglio ubriacarmi o scopare con qualcuno fino a stordirmi, pertanto me ne ritorno alla villa.
Raggiunto il portico, le luci delle stanze principali sono tutte spente. L'aria è piacevolmente fresca.
Controllo il perimetro, ricevendo qualche cenno da parte delle guardie di turno sparse e in collegamento tra loro.
Entro in casa senza fare il minimo rumore. Non ho nessuna voglia di avere ulteriori discussioni. Ho fatto il pieno stasera.
Voci sommesse raggiungono il corridoio dalla cucina. Joleen e Eden sembrano impegnate in una chiacchierata notturna.
Mi accosto alla parete accanto al soggiorno ad ascoltare, e nel caso in cui la discussione tra loro dovesse degenerare, per intervenire.
«Non vuoi dirmi cosa ti turba? Sei taciturna e non sempre è un bene tenere tutto dentro».
«Continuo a pensarci», risponde a bruciapelo Eden. Un tono di voce dal quale traspare incredulità e paura.
«A Coleman? È stata dura per te, non ne dubito. Ma se fossi nei tuoi panni, non perderei tempo prezioso per quello stronzo».
Eden risponde con un sospiro pesante. «In realtà non sto pensando solo a quello che è successo stasera, anche se è inevitabile», dice a bassa voce. Quasi come se non volesse farsi sentire da Joleen.
«Non ti seguo».
«In auto ho ripensato a Darrell, a quello che ho dovuto sopportare sin da quando ne ho memoria, a causa della sua presenza nella mia vita. Lui, lui ha saputo manipolare mio padre per ottenere quello che la sua famiglia voleva dalla mia, compresa me. Ogni singola persona da quando sono nata è come se avesse il diritto di prendere un pezzo di me, di toccarmi o farmi sentire... niente. Coleman è stato solo una sorta di innesco stasera. Mi ha fatta precipitare in ogni singolo ricordo e mi ha fatto capire che non ho mai avuto potere. Sono solo un mezzo per chiunque», la voce le si incrina. «Sono stanca di esserlo».
Segue un lungo e interminabile attimo di silenzio.
Fisso i miei pugni chiusi, lo faccio per istinto, come se stessi per combattere contro qualcuno. Magari contro Darrell. Conosco quel pezzo di merda. Più volte le nostre strade si sono incrociate e non è finita pacificamente.
Non so cosa ha fatto a Eden. So invece cosa ha fatto al sottoscritto e un giorno io e lui arriveremo alla resa dei conti.
Rilasso le mani, le dita tremano impercettibilmente e le fletto percependo dolore irradiarsi su tutta la mano.
Joleen, si sta distraendo preparando qualcosa di caldo, forse una delle tisane che le piace tanto bere di notte, gironzolando in giardino o nei corridoi. Una delle poche cose che sa fare in cucina senza dar fuoco a tutto il resto.
«Posso chiederti che cosa è successo? Sono ancora dispiaciuta».
«È... difficile da raccontare».
«Provaci».
«Devi fare rapporto?»
«No. Ma se me lo racconti, cercherò di aiutarti. Inoltre ti farà bene. Sei ancora piuttosto scossa».
«Credevo fossi alle mie spalle. Quando mi sono fermata di sotto però non c'eri. Di colpo è arrivato lui, con quel sorriso perfido e quei modi carichi di arroganza. Non mi ha dato il tempo di scappare quando ci ho provato. E fidati, ci ho provato davvero, ma era troppo forte e in quel momento io... io volevo solamente che tutto finisse. Sono riuscita appena a mollargli una gomitata e credo di avergli anche graffiato il braccio. Poi lui, lui si è infuriato, è diventato violento e mi ha messo le mani addosso. Se chiudo gli occhi... le sento ancora sulla mia pelle. E continuo a dire disgustata a me stessa: "Non è li che dovevano stare. Non è li che si dovevano posare. Avresti dovuto combattere. Non essere tanto spaventata da bloccarti"», continua a rimproverare se stessa. «Dante forse aveva ragione ad arrabbiarsi».
Cosa? Si sbaglia.
Cazzo. Ho fatto un gran casino.
«Hai avuto coraggio ad affrontarlo. Nonostante la situazione e la paura».
«Coraggio? Me la farà pagare. Mi ha minacciata in quel tipico modo disgustoso di chi sa che nella vita riuscirà comunque a farla franca. Non conta quanti errori commetterà, otterrà sempre quello che vuole. L'ho umiliato, farà di tutto per rendermi impossibile la vita», replica giù di corda a Joleen. «Come se non avessi già abbastanza problemi da risolvere o altro a cui pensare».
Sbircio e trovo Joleen impegnata a portare due tazze verso il salotto. «Coleman subirà delle punizioni. Qui ci sono delle regole. Gerarchie da rispettare e patti da non violare. Non immagini quanto lavoro abbiamo dovuto svolgere prima di poterci avvicinare a te», le spiega tranquilla, pur non rivelando niente di compromettente.
«Ne sei sicura?». Un barlume di speranza sfiora il volto di Eden, ma si affievolisce in fretta.
«Verrà punito. Forse è già successo».
Eden si sta mordendo nervosamente il labbro inferiore. Scuote la testa. «È come Darrell. Non si arrenderà e troverà il modo di farmi del male».
Qualcosa l'ha raggiunta e ferita. Così tanto da lasciarle un segno dentro. Uno di quelli che non vedi, ma che esiste e fa enormemente male, proprio come un taglio fatto con la carta. Dapprima non te ne accorgi. Qualche istante dopo, il dolore ti brucia persino l'anima.
«Darrell sarebbe il tuo promesso sposo?»
Una pausa in cui trattengo il fiato. Eden si concede un sorso della bevanda calda che Joleen le ha porto, un modo come un altro per annegare una notizia spiacevole. «Non l'ho mai considerato tale, ma sì. È così».
Joleen gioca con la cartina della tisana. «Anche se ti sembra impossibile perché non mi conosci e mi vedi come la tua rapitrice, sappi che se hai bisogno di parlare, con me puoi farlo. Non per forza dobbiamo metterlo agli atti», le rivolge un sorriso affabile.
«No, non posso. Non è facile. Prima di tutto potresti usarlo contro di me. Non sono stupida come pensi. Poi... perché ho dovuto dire addio a qualcosa che mi faceva sentire libera, me stessa, e in qualche modo apprezzata. Parlarne, farebbe solo affiorare altro dolore».
Joleen corruga la fronte e la osserva. «Che ti ha fatto?», domanda con voce flebile, quasi fosse spaventata di chiederglielo ad alta voce.
Ha visto qualcosa che a me sfugge, ne sono sicuro. Joleen ha un radar naturale. Riesce a cogliere al volo informazioni che agli altri comunemente potrebbero sembrare insignificanti.
Eden distoglie nell'immediato lo sguardo. «Odiava vedermi felice e me l'ha tolto. Mi ha strappato l'unica cosa che mi rimaneva per egoismo, per invidia, per la sua sete di potere», singhiozza. Non se ne rende neanche conto, presa com'è a rigirare il cucchiaio nella tazza. «Ha fatto in modo che ci fosse soltanto lui. Darrell è una persona spregevole, più di Coleman che abbaia ma non morde. Dovete fare molta attenzione a lui. Le sue mosse non sono mai sferrate a caso. Lui... lui è furbo e infimo. Non mi sorprenderebbe trovarlo domani qui, con la pretesa di riportarmi a casa. Riuscirebbe in qualche modo a convincere Seamus a lasciarmi andare. Dopodiché scatenerebbe l'inferno».
«Perché me lo stai dicendo?», Joleen questa volta non coglie al volo il significato del discorso di Eden, ma si agita.
Vengo colpito da una fitta. Diversa dal fastidioso ronzio che spesso mi attraversa come corrente la pelle. È qualcosa di più pericoloso.
«Nessun altro oserà metterti le mani addosso. E per quanto riguarda Darrell, non preoccuparti, lui è abbastanza lontano da pensare ad altro al momento», le accarezza il palmo, con la solita praticità e dolcezza. Eden però si scosta rapidamente.
«Non esserne tanto sicura. Non illuderti. Non abbassare la guardia, mai. Non con lui».
Decido di fare la mia comparsa. Ho bisogno di prendere del ghiaccio prima che la mano si gonfi troppo, e di porre fine allo strazio che percepisco come condensa nell'aria.
Varcata la soglia, Eden sgrana i suoi incredibili occhi argentei, portando entrambe le mani verso la bocca; mentre Joleen adagia malamente la tazza sulla superficie del tavolo basso e corre verso di me allarmata. «Che cosa è successo? La tua mano...»
Gliela mostro senza tante cerimonie. «Piccola rissa in famiglia», le sorrido come un ragazzino.
La sua espressione muta e dalle sue narici fuoriesce uno sbuffo. «Non dirmi...»
Il mio sorriso si apre ulteriormente. «A lui è andata peggio. Lavorerà alla fattoria per un po'. Prova a indovinare dove», sollevo entrambe le sopracciglia. «Odierà ogni singolo giorno e per mesi puzzerà di merda».
Joleen si concentra su un compito, non ha ancora avuto alcuna reazione esagerata. Non mi è sfuggito il modo in cui ha sussultato. Sa che stavo ascoltando tutto.
Raggiunge la cucina, apre il freezer e poco dopo avere controllato mi lancia una confezione di piselli. «Spiacente, niente ghiaccio. Non sei riuscito proprio a trattenerti, vero?»
Premo un fianco al bancone. «Ho dovuto. Visto che mi sono fatto male sarò in vacanza per qualche giorno», sposto la mia attenzione sulla ragazza che sta sentendo il nostro scambio senza intervenire in alcun modo. Smetto di parlare, ricordandomi il suo ruolo. Non voglio che sappia ciò che ho fatto e che si senta in dovere di ringraziarmi. Non se il primo a dover chiedere scusa dovrei essere io. Non solo per quello che le ho detto, quanto per il modo in cui l'ho fatta sentire.
«Faron sta bene?»
«Sarà a capo di tutto. È quello che vuole da sempre».
Joleen mi assesta un colpetto sul braccio.
«Non essere ridicolo. Faron raccoglie i detriti che ti lasci dietro. Sono sicura che starà imprecando mentalmente perché ancora una volta hai capovolto i suoi piani. Quando capirai che non cerca l'approvazione di vostro padre ma la tua?»
Mi siedo sul divano, la confezione di piselli surgelati sulla mano.
Eden, se ne sta in un angolo, tiene una tazza fumante tra le mani e ha le gambe avvolte da una coperta. «Sembri un'ottantenne infreddolita. Mia nonna è meno morta di te. Su con la vita, uccellino», tiro giocosamente un lembo della coperta.
Mossa azzardata, perché non appena vedo quei lividi sulla sua coscia esposta, mi infurio ancora di più con quel pezzo di merda. Così tanto da voler ritornare indietro e suonargliele di santa ragione. Usare davvero il proiettile che gli ho promesso.
Eden, ignorando i miei pensieri turbolenti, si imbroncia in modo comico, ma tiene al posto la lingua senza ribattere dicendo qualcosa che potrebbe farmi incazzare di nuovo. Rimettendo la coperta sulle ginocchia sbucciate, livide e graffiate, chiede: «Hai lottato con un gatto a mani nude, vedo. Ma... chi è messo peggio?»
Inaspettatamente ridacchio e lei rilassa le spalle, premendo la guancia contro la schienale del divano.
Che cosa ti rende tanto guardinga quando sei a poca distanza da un uomo?
È un puzzle da comporre. Difficile, ma non impossibile. È una sfida che posso accettare. Che ho già accettato.
Eden Rose, non è altro che una spina conficcata a fondo nel fianco. Ma sarebbe ipocrita da parte mia affermare di esserne del tutto immune. Perché è indubbiamente bella e attraente come poche. Non in modo comune. In un modo che ti fa sfuggire quel lato perverso, sporco della tua anima. In un modo maligno e violento, ti fa venire voglia di marchiarla in posti ben visibili con i denti e di fare terra bruciata intorno per non permettere a nessun altro avvoltoio di avvicinarsi a lei.
Ed è proprio quello che è successo stasera. Mi ha fatto perdere il controllo fino a trasformarmi in un animale aggressivo e imprevedibile, pronto a fare fuori persino un cugino.
«Quindi fammi capire, sei in convalescenza da adesso?», chiede ulteriore conferma Joleen, con il telefono in mano e le labbra lievemente incurvate in una smorfia, volta a nascondere quel sorrisetto furbo che conosco molto bene.
Che cosa ha in mente?
«Odio ripetermi», brontolo con circospezione. Tiro indietro la testa e sospirando prendo a stropicciarmi un'occhio. «Ho già qualche idea su come divertirmi».
«No, no, no! Scordalo! Quella stronza non metterà più piede qui dentro!»
«Ti ho già detto che ho chiuso con lei».
«Bene. Eden avrà bisogno di un po' di compagnia. Vado a recuperare Faron».
«Cosa?», domandiamo all'unisono.
Joleen mette le mani sui fianchi come un genitore incazzato. «Avete iniziato con il piede sbagliato. A nessuno è sfuggito il vostro approccio iniziale alquanto scoppiettante. Provate a conoscervi. Ordini dall'alto, sai com'è», gesticola, impaziente di allontanarsi e di lasciarmi il carico. 
Non ho neanche il tempo di obiettare con lei. Massaggio la fronte appoggiandomi allo schienale del divano. Pesco lo Zippo e ci gioco con la mano libera.
«Merda!»
«Non va messo in quel modo».
Sbircio con un solo occhio e la ritrovo inginocchiata a pochi centimetri da me. Che cazzo fa?
«Dovresti...», indica la confezione di piselli.
Freddo. Un'ondata di brividi mi si abbatte sulla pelle al suono della sua voce che mi ridesta dai pensieri. Non abituato a simili reazioni, nascondo la sorpresa sotto uno strato di ruvido coraggio.
Mi ricompongo schiarendo la gola. «So come si tiene il ghiaccio su una botta. Non è di certo la prima volta che prendo a pugni qualcuno», mi sento ridicolo mentre pronuncio ogni parola, dimostrando il contrario.
È davvero così accorta o lo fa solo per un secondo fine?
«Tecnicamente hai sulla mano dei piselli surgelati», ribatte a bassa voce. Con le guance sempre più arrossate, prosegue: «Non sembra rotta», si allontana in un primo momento, per poi tornare a farsi vicina per sistemare la confezione a un'angolazione decisamente migliore per la mia mano che continua a pulsare terribilmente.
«A questo ci sono arrivato anch'io», non riesco proprio a smettere di risponderle in questo modo a tratti ironico, a tratti caustico.
Diventa un fottuto casino con lei a poca distanza a distrarmi.
Voglio continuare a sentire questa brama. Il desiderio esplosivo che mi annienta dentro tutte le volte in cui ci ritroviamo a poca passi l'uno dall'altra.
Ma non voglio solo questo. Non mi basta. Non più.
Io voglio provare quel fastidioso formicolio, quel tepore che mi sfiora quando i nostri sguardi si scontrano e le nostre parole riempiono il silenzio. Voglio sentirmi in bilico e, allo stesso tempo, essere il centro di qualcosa che sa come tenermi in equilibrio.
Molti pittori dipingerebbero Eden sulle loro tele come una dea. Lei ne ha decisamente l'aspetto. Sembra irraggiungibile, talmente attraente da mettere quasi in soggezione.
So bene dal modo in cui sta ricambiando lo sguardo che anche lei pensa qualcosa di simile su di me. Ma io sono più il frutto del peccato. Un angelo caduto che si è macchiato l'anima, e che si è perso in un inferno profondo e senza via di fuga.
«Cosa stai guardando?»
«Te».
«Perché mi guardi così?»
«Perché voglio».
«Sei inquietante».
«Disse quella con le ciabatte di SpongeBob».
Sbuffa. «Che problemi hai?», borbotta guardando le suddette ciabatte. «Sono carine e comode».
Nascondo un sorriso. «Termine abusato per sostituire la parola: orribile, mostruoso, orrendo... devo proprio continuare con i sinonimi?»
Mi lancia un cuscino in faccia. Lo prendo al volo adagiandolo in grembo.
«Lieta di sapere che conosci i sinonimi. A ogni modo a me piacciono», solleva il mento.
«Sei strana».
Si stringe nelle spalle. «Forse sei tu quello ordinario».
Mordo il labbro continuando a nascondere a stento quel sorriso che affiora tutte le volte in cui ribatte prontamente e senza peli sulla lingua.
«Magari dimentico di esserlo. Ma oggettivamente quelle ciabatte sono l'anti-sesso».
Muove le dita dei piedi arricciandoli come artigli di un felino che si ritirano. «Non devo sedurre nessuno», dice riflettendo su qualcosa. «Dici che potrebbero essere utili come repellente?»
«Decisamente. Quel giallo e quella faccia strafatta di acidi farebbe ammosciare qualsiasi uccello in circolazione».
Appoggia meglio la schiena, mettendosi comoda. «Bene. Le userò spesso dopo stasera».
Mi piace il modo in cui sta reagendo. Ancora di più la forza che è riuscita a trovare dentro se stessa.
Ed è proprio vero, siamo in grado di sopportare tutto. Come fiori in balia di un vento che tenta di strappare via petali e bellezza.
Segue un attimo di silenzio. Non è imbarazzante.
«Sei stato tempestivo a medicarla. Riesci a muovere le dita?»
Sporgendomi prendo la sua tazza contenente del caffè nero, dandole una dimostrazione diretta. «Dovresti medicare anche tu quelle», indico le sue cosce dopo avere bevuto un sorso del liquido. «E metterti a dormire».
«Non ancora», guarda verso la vetrata dove uno spiraglio di luce filtra pallido. «Altri cinque minuti?», mi fissa speranzosa.
Ancora una volta sta usando quel broncio a tratti tenero, a tratti arrapante.
Perché quando si trova in una stanza ne diventa automaticamente il centro? Quale strano potere possiede? Perché mi attrae nonostante sia un qualcosa di impossibile e proibito?
Non ho voglia di raggiungere la mia stanza e lasciarmi attaccare dai pensieri.
Sospiro massaggiandomi il dorso del naso e mi ritrovo a guardare l'alba forse per la prima volta, in silenzio, rilassato e stranamente a mio agio con la figlia del mio nemico.

💛

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