Capitolo 5
DANTE
Sono uno scoglio difficile da levigare. Non sento niente pur incassando tutto.
Da quando ho abbracciato la mia parte cinica, mi sembra di avere solo una voragine dentro. L'ho accolta, ancorandola nel petto, mi ci sono tuffato senza esitazione e non ne sono più emerso dalle sue profondità.
Non ho ancora superato questa giornata. Credo di avere pensato più volte nel corso delle ore: "Forse andrà meglio e questo senso di oppressione si allenterà". E ho continuato a illudermi persino che qualcuno se ne accorgesse.
Ma non è così che funziona. Non per me. Perché io non mi abbino a niente.
Giornata di merda.
Missione di merda.
Serata di merda.
E per concludere: sesso di merda.
Che cazzo sta succedendo?
Non appena Trisha sprofonda a pancia in giù sulle lenzuola sgualcite, per metà riverse sul pavimento, mi sollevo dal letto.
Se pensa di avermi soddisfatto, si sbaglia di grosso. Non sono neanche venuto. Ho fatto finta, coprendo il tutto grazie alle sue urla.
All'inizio, quando l'ho incontrata giù al club, mi era sembrata una buona idea, credevo sarebbe stato utile cedere alle sue avance. Non ero nemmeno ubriaco quando mi sono lasciato convincere a darle un'altra possibilità, il che ha dell'incredibile. La verità è che avevo solo bisogno di trovare uno sfogo.
Con esasperazione passo la mano sulla testa, affondando le dita tra i capelli. Muovendomi, recupero i pantaloni neri abbandonati sul pavimento e li indosso, mentre lei tirando il lenzuolo intorno alle sue forme prorompenti, e in parte anche ricostruite da un buon chirurgo plastico, cerca di capire cosa sto facendo.
Sono sfinito, incazzato e ho bisogno di fare una doccia; di mangiare qualcosa e farmi una dormita, una volta tanto.
Tra qualche ora dovrò tornare al lavoro e se non farò niente di tutto questo dopo averla sbattuta fuori da questa stanza, non mi resterà altro che bere un caffè amaro per tenermi in piedi, correndo il rischio di altre sviste.
Non me ne faccio una colpa. Perché commettere errori, significa vivere. Significa sentire addosso il peso di un nuovo tormento, la schiacciante realtà di un compromesso in cui devi accettare di non essere stato all'altezza, di avere ceduto per un solo istante la tua forza, di avere guardato il mondo con altri occhi. Di essere caduto e di non esserti rialzato in tempo. Commettere errori significa trovare il modo per non inciampare un'altra volta.
So con certezza, perché lo conosco, che Faron avrà qualcosa da ridire sul mio comportamento aggressivo sfoderato al club. Mai avrei immaginato di poter perdere il controllo nel vedere mio zio Parsival con le mani su quella ragazza e di sentirmi in dovere di marcare il territorio come un animale aggressivo e possessivo di fronte a mio padre e ai nostri uomini.
Se da una parte legarla e filmarla era solo un monito per spaventarla e tenerla buona, dall'altra non avrei mai scelto un'azione simile e che reputo disdicevole. Ma mio padre ha sempre avuto le sue buone ragioni, i suoi metodi per arrivare al nemico, e io, io non posso oppormi. Non ancora. Non fino a quando non sarà pronto a cedere il suo posto a uno dei suoi figli. Il che spero avvenga presto.
«Che cosa stai facendo?», miagola Trisha, sbattendo le ciglia scure con aria carica di malizia riportandomi subito al presente.
Dal modo in cui si struscia tra le lenzuola, si morde il labbro e mi fissa con occhi carichi di lascivia, vuole un secondo round. Purtroppo per lei non avrà nient'altro che un biglietto di sola andata verso l'uscita. Non è stata capace di soddisfarmi e questo mi sta facendo infuriare ancora di più. Perché tra le tante cose, quando mi fionderò in doccia, sarò costretto a un lavoretto di mano per sciogliere la tensione. Cosa che non avrei pensato di fare dopo essere stato a letto con lei.
Mai avrei immaginato di ridurmi in questo stato. Eppure è successo.
«Rivestiti, è ora di andare», evito le chiacchiere sterili.
«Ma come...», incespica sulle parole, neanche fosse fatta. «Avevi detto...»
«Cambio di programma: mi serve qualche ora di sonno», non mento, ma devo scrollarmela subito di dosso. Spesso sa essere come una gomma da masticare.
La sua risposta infatti non tarda ad arrivare: mette il broncio come una mocciosa del cazzo. Non ha nemmeno la dignità di accettare il mio rifiuto, raccogliere le sue poche cose e tagliare la corda.
Perché deve essere così esasperante?
Batte il palmo sul lenzuolo. I miei occhi si soffermano su quelle orribili unghie finte a forma di ferro da stiro di un colore che neanche mia nonna sceglierebbe.
Come ho fatto a non accorgermene per tutto questo tempo?
«Torna a letto».
«Ti ho appena detto di rivestirti. Non farmi ripetere», uso un tono brusco e autoritario.
Trisha raddrizza subito le spalle, scosta i lunghi capelli neri dietro la spalla fulminandomi con i suoi occhi color onice. Ha appena assunto la tipica posa di un pavone.
Ben presto la sua bocca carnosa si apre per protestare. «Fai sul serio?», gracchia con rimprovero.
«Non rompere il cazzo e muoviti!», le lancio in faccia le sue mutandine rosse con il merletto nero che le ho strappato di dosso non appena siamo arrivati qui in camera. Apro la porta e le indico furente il corridoio.
Trisha, intuendo di non avere altra scelta, scende dal letto, afferra il tubino e i tacchi abbandonati sulla soglia, e continuando a guardarmi storto mi segue al piano di sotto mentre si riveste.
«Sai, ho un fidanzato e stiamo per iniziare i preparativi del nostro matrimonio. Non sarò disponibile ancora per molto», tenta di farmi sentire in colpa e di farmi pentire di averla trascinata fuori dal letto.
«Se sei fidanzata perché quando mi vedi continui ad aprire le cosce e la bocca? Quante volte ancora vuoi tradirlo quel poveretto, prima di capire che non è quello che vuoi? Dovresti lasciare che sposi un'altra, magari una donna che non sia una bugiarda patologica e arrampicatrice come te».
Trisha avanza come una gatta pronta a graffiare. Strizza le palpebre piene di ombretto sbavato e furente urla: «Voglio te, ma si dà il caso che tu non sia un uomo da esclusiva. Solo da sesso occasionale con donne impegnate», sputa fuori le parole iraconda, le guance ormai rosso fuoco.
«Ho sempre messo in chiaro che non provo niente per te».
«Sai, a dire il vero non ho mai capito perché ti comporti in questo modo. Che cosa nascondi dietro tutto quello che dici o fai. Sei come un muro impenetrabile».
Incasso la sua frecciatina, pur non sentendo gli effetti fastidiosi che dovrebbero provocarmi le sue parole, indicandole la porta principale. «Be', mi stai rendendo il lavoro facile. Direi che è arrivato il momento di darci un taglio. Sai com'è, prima o poi delle cose usate ci si stanca e non vorrei che il tuo futuro marito scoprisse che ti fai sbattere dal suo capo», sollevo una spalla e aprendole la porta attendo che mi lasci finalmente in pace.
Lo schiaffo lo sento appena quando mi colpisce la guancia. Ho ancora il viso dolorante a seguito del colpo che mi ha quasi rotto il naso. Ma è stata fottutamente divertente la scena e non ho reagito dando una lezione a quella ragazza per non mettere altra legna sul fuoco. Per ovvie ragioni avevamo abbastanza occhi puntati addosso già da prima.
Adesso però è diverso. Perché ad avermi toccato non è il mio nemico, è qualcuno di insignificante che devo proprio rimettere al suo posto.
«Sei un bastardo, Dante. Presto se ne accorgeranno tutti che non sei tagliato per avere una persona accanto. Morirai solo».
«Forse voglio stare solo. È una scelta. Ma non credo tu possa capire. Adesso vattene!», replico d'impulso.
Attendo che sia abbastanza lontana dal viale per chiudere la porta. «Finalmente!», batto le mani, le strofino e mi indirizzo in cucina fischiettando.
Arresto subito la mia corsa quando mi accorgo della luce accesa proveniente dalla zona del soggiorno.
Aspettandomi Joleen, con i postumi della sbronza e probabilmente del sesso sfrenato, dapprima sul jet, poi al club e per finire in camera con Faron, mi preparo deliziato a prenderla in giro; soprattutto sono curioso di vedere la sua faccia mortalmente seria quando saprà che Trisha è entrata in questa casa.
So che le provoca un certo fastidio quando un estraneo invade la nostra privacy. Ma non spetta a lei decidere chi posso o non posso portarmi a letto.
Lei e Faron non sono sposati, non hanno vincoli, eppure vanno a letto lo stesso e io non mi sono mai lamentato.
Il loro è un rapporto libero, per ovvie ragioni. Scommetto però che la gelosia, di tanto in tanto, gioca brutti tiri anche a loro, costringendoli a scambiarsi promesse che con il tempo non faranno altro che asfissiarli o distruggerli. Conosco abbastanza entrambi per affermarlo con certezza.
Seduta sullo sgabello alto della cucina, purtroppo, non trovo Joleen.
Rimango sbalordito e incapace di ragionare per pochi istanti di fronte a quello che ho davanti agli occhi.
La ragazza indossa una stupida vestaglia giallo Tweety con le figure dei fumetti, i suoi capelli sono legati in una crocchia scomposta; tiene un paio di occhiali da lettura abbassati sulla punta del naso piccolo e dritto con qualche efelide sparsa sulla pelle di porcellana. È impegnata a leggere un libricino sul quale, di tanto in tanto, annota qualcosa con una matita che continua a mordicchiare.
Abbasso lo sguardo e per poco non scoppio in una fragorosa risata alla vista di un paio di ciabatte con il pelo color pastello.
Con le cuffie alle orecchie, non si accorge di me; impegnata a seguire qualsiasi cosa stia ascoltando e annotando.
Il modo in cui continua a mordere distrattamente la punta della matita e il labbro carnoso, sorseggiando una disgustosa bevanda verde mela e sgranocchiando una confezione di stuzzichini, mi provoca quasi un'erezione. Specie se si aggiunge alla lista quel magnetico e tenue odore di rose che aleggia costante nell'aria e che sniffo come un tossico.
Continuo a fissarla con un misto di curiosità e sospetto. Non sembra arrabbiata o ferita da ciò che ha subìto su ordine di mio padre; il quale avrà già mandato al suo il messaggio.
Avrebbe tutto il diritto di esserlo, eppure sembra quasi rassegnata all'idea di trovarsi qui.
Ma so per esperienza che una catastrofe naturale non dà mai un preavviso prima di abbattersi sul mondo.
L'ho capito subito che lei è così. Scatena la sua forza senza fare rumore, al momento opportuno, portando addosso un'armatura ammaccata, sfoderata con orgoglio. In realtà, non è altro che un pozzo profondo di dolore nascosto sotto strati di ribellione. E io so come fermarla.
Un altro dubbio prende subito forma.
«Chi cazzo ti ha fatta entrare?»
Si volta talmente in fretta verso di me che per poco non fa cascare a terra il bicchiere. Fortuna vuole che abbia dei riflessi pronti o si sarebbe fatta male con quei pezzi di vetro.
Ad ogni modo, i suoi occhi grigi, mi trapassano. Non si limita solamente a squadrarmi, lei mi sfiora con quelle iridi mozzafiato, facendomi provare qualcosa di strano.
È come un fuoco che ti divampa dentro. Dapprima sono solo piccole fiammelle sparse, poi si ricongiungono, tramutandosi in un rogo mortale sottopelle.
Le guardo le labbra affascinato e lo faccio con sfacciato interesse per diversi secondi prima di riportare lo sguardo nei suoi occhi che stanno facendo esattamente lo stesso.
Toglie le cuffie posandole sul libricino insieme alla matita. Apre e richiude la bocca come un piccolo pesce. «Terrence?», la risposta le esce flebile e più come una domanda.
Notando che sto ammirando la scollatura al di sotto della vestaglia con una bella apertura sul davanti, ripensando forse anche al modo in cui l'ho toccata, leccata e fatta sentire, si ricompone richiudendola con un gesto impacciato. Le guance sempre più rosee.
Nascondo un sorrisetto al ricordo del gemito che le ho sentito emettere e dal modo in cui il suo corpo è aderito subito al mio quando mi ci sono premuto contro.
«Ti ha portata lui qui?»
«Sì. Mi ha lasciato in camera e mi ha spiegato che...»
Smetto di ascoltare, le do le spalle, pesco il telefono dalla tasca posteriore dei pantaloni e lo chiamo immediatamente.
Risponde al secondo squillo, e come sempre, con un: «Che c'è? Sono in pausa».
«Testa di cazzo, perché lei è qui?»
Sbadiglia. «Perché il tuo paparino ha deciso che sarebbe meglio...», esita, «farvi vivere sotto lo stesso tetto».
Ringhio. «Col cazzo! Tu adesso dici al mio paparino di andare a farsi fottere, poi torni qui, raccogli le sue cose e la fai trasferire dall'altra parte della...»
«Non fare il difficile. Sai perfettamente che non posso discutere gli ordini di tuo padre. Inoltre, la sua stanza si trova a un piano dalla tua. Lontana abbastanza da non sentire i tuoi amplessi e da non incontrarla».
«Uhm...»
«Che c'è?»
Riattacco. «Maledetto», sibilo stringendo il telefono. «Perché sei sveglia?»
Le sfugge un verso di esasperazione, come se pensare alla ragione le schiacciasse il petto.
Raccoglie le parole giuste e come se avesse di fronte un bambino spiega: «Sono stata obbligata a scendere per non sentire la sinfonia dei due che nella stanza accanto ci davano dentro. Anche se penso che fosse più lei quella a divertirsi e a godere o a urlare di proposito come una squinternata», scrolla la mano per scacciare qualche altro pensiero.
La sua voce... sono rimasto ammirato quando l'ho sentita per la prima volta. È un qualcosa di caldo e liscio come la seta, bassa come il suono del mare calmo quando hai bisogno di un po' di tranquillità. Nessuno le ha mai detto che potrebbe realizzare podcast potenzialmente rilassanti, soprattutto a letto? Se capite quello che intendo, ha una voce ad alto contenuto erotico.
Irritata dalla mia presenza ingombrante e con ogni probabilità dalle mie parole ascoltate durante la chiamata con Terrence, raccoglie le sue cose, pronta ad allontanarsi da me.
«Non provarci nemmeno».
«A fare cosa?», chiede confusa, con un filo di voce dopo avere deglutito a fatica.
«A scappare, da me».
So che ha provato a evitarmi dopo la discussione avvenuta sul jet privato e immagino sia il suo primo obiettivo dopo il mio comportamento al club. Ma non glielo permetterò.
«Qualcosa non va?»
Joleen ci interrompe, avanzando tutta arruffata e rilassata. Lei a differenza di molti dei nostri famigliari e amici, ha preso bene la presenza di una Rose in casa. Tutti gli altri hanno deciso di fare i bagagli o prendersi qualche giorno di vacanza.
Indico alle mie spalle. «Uccellino starà qui».
Sento uno sbuffo giungere alle mie spalle. «Non mi sono di certo imbucata in questa casa. L'hai voluto tu quando mi hai rapita, stronzo ipocrita. Adesso ti toccherà fare il baby-sitter che ti piaccia oppure no!», sbotta superandomi. «Potrei renderti le cose facili, se solo non fossi così irritante».
«Non mi farai sentire in colpa», ribatto composto. «E non fare minacce che non sei in grado di portare a compimento».
Si volta. «Dici? Anche le pietre possono rompersi».
Corrugo la fronte e taccio per un istante. «Di rotto qui ho solo i coglioni. Vattene in camera e restaci, uccellino».
Assottiglia la palpebra sfiorandomi con quello sguardo turbolento, provocandomi un'altra fitta che mira alle mie parti basse.
«Non farne un dramma solo perché hai avuto una giornata storta».
«E tu che ne sai?»
Si stringe nelle spalle. «Intuito».
Soffio aria dal naso. «Mi sa che fa cilecca il tuo intuito».
«Un po' come te a letto, a quanto pare».
Come diavolo ha fatto a capire che ero io quello nella stanza accanto alla sua?
«E tu che ne sai? Non puoi affermarlo con certezza. Devi prima provare. Forse sarò magnanimo e ti farò fare un giro. Sono sicuro che ti divertirai».
Apre subito la bocca per ribattere con impertinenza.
«Ma insomma, smettetela voi due! Eden, non penso si sia ancora presentato perché ama fare il cattivo, l'oscuro della situazione, il protagonista perfetto e tormentato di tutti i romanzi, ma lui è Dante, il fratello di Faron, figlio minore di Seamus Blackwell. Sei sotto la sua tutela quindi vedi di non fare cazzate. E tu, Dante Blackwell, vedi di comportarti come si deve o sarà Faron a ricevere il testimone quando avrai fatto un passo falso e tuo padre ti avrà fatto fuori da ogni decisione. Non ho intenzione di condividere il mio uomo, perché questa qua ha del potenziale e Faron non è di certo un santo», continua a pugnalarmi con il dito sul petto. «So che le ha già messo gli occhi addosso».
«Ricevuto forte e chiaro». Le metto un braccio intorno alle spalle. «Quando ti arrabbi diventi la regina del melodramma. Mio fratello è fortunato ad averti, anche se di tanto in tanto vi fa bene un po' di sana gelosia. Sai, alimenta quello che c'è da sempre tra di voi. Ma tranquilla, non condividerai niente perché lei non è sua».
Arriccia il naso. «Ti serve una doccia. L'odore stucchevole di quell'arrampicatrice si sente da lontano. Sul serio, Dante? Quante volte devo dirti di non portarla qui?»
Prendo una bottiglia d'acqua dal frigo e sollevando le spalle, appoggiandomi al ripiano della cucina, bevo un lungo sorso. «Sai che su certi vizi sono recidivo. Ad ogni modo, non entrerà più qui dentro. E lei», indico Eden, «lei deve rimanere nella sua cella e non rompermi le palle o la riporterò al club e farò divertire quei pensionati annoiati che non vedono l'ora di mettere le mani addosso a qualcosa che non abbia le rughe».
Quando sente quest'ultima frase, il suo viso impallidisce. Stringe al petto le sue cose e per un attimo appare persa da qualche parte.
Sono uno stronzo, lo so, ma è necessario per tenerla al suo posto.
«Ah, un'ultima cosa, uccellino».
«Solo se la smetterai di chiamarmi così».
Ignoro la sua richiesta. È divertente il modo in cui avvampa e al contempo aggrotta la fronte non appena sente pronunciare quel nomignolo. Non le piace e dentro sta letteralmente impazzendo per trovare il modo giusto di incassare senza reagire. O forse per farmi fuori. Che ci provi pure.
«La prossima volta che giri per casa, indossa qualcosa di adatto».
Abbassa lo sguardo sulla sua vestaglia colorata che mi fa guadagnare un'altra sbirciatina al suo davanzale.
«Adesso non mi è concesso indossare quello che voglio?»
«No».
«Per quale assurda ragione?», domanda con voce piatta.
Stringo due dita sul dorso del naso. Tanto vale dirle la verità, ragiono. «Perché quella dannata vestaglia, quelle dannate pantofole, quella porzione di pelle esposta... potrebbe ammazzare qualcuno o far ammazzare qualcuno», preciso schiarendomi la voce.
«Stai scherzando?»
Adesso è il mio turno di aggrottare la fronte. Non dirmi che non crede di essere un potenziale pericolo per qualsiasi umano dotato di occhi, mente e parti basse.
«Io non scherzo mai su ciò che è mio». Non aggiungo altro sull'argomento. Mi dirigo verso le scale. «Adesso vado a farmi una doccia. Non è stato un piacere vederti tanto presto, Eden Rose».
Mi guarda storto. «Neanche per me, Dante Black-stronzo!».
Ghigno. «Dovrai impegnarti di più con queste battute. Ma avrai tempo a sufficienza per imparare, uccellino», facendole l'occhiolino, mandandole un bacio volante, salgo in camera lasciandomi alle spalle questa lunghissima giornata.
* * *
Dopo essermi tolto di dosso l'odore dell'alcol e della scopata andata in fumo con Trisha; dopo l'incontro in cucina che mi ha lasciato addosso il sapore amaro della sconfitta, riesco a dormire per due ore di fila. Mi alzo che è ancora buio.
Fuori dalla villa, nell'aria umida, sotto un cielo che sta iniziando a tingersi di azzurro e rosa, pesco il pacchetto di sigarette dalla tasca interna del giubbotto di pelle e picchiettando un dito sul retro, ne faccio uscire una prendendola direttamente con le labbra. Uso lo Zippo che ho scelto dalla mia collezione prima di scendere e gioco con la fiamma assentandomi per qualche secondo. Aspiro e butto fuori due colonne bianche dal naso, osservando l'intera proprietà.
Non è più un gioco tutto questo. Le cose sono cambiate, i piani stanno per ribaltarsi.
Passo una mano tra i capelli. Ho bisogno di incontrare la mia squadra. Sapere di potere contare su ognuno di loro mi farà rigare dritto, mi dico entrando nel SUV, mettendo in moto.
Mio fratello mi deve ancora delle spiegazioni su quello che ha fatto prima che arrivassimo al jet privato. Sapeva benissimo con chi avremmo avuto a che fare, ma lasciarsi prendere la mano durante l'azione, sovrastare la nostra prigioniera... è andato oltre. Per quanto io sia assetato di vendetta, devo valutare tantissime cose prima di qualsiasi azione e non posso subire perdite.
Stringo la presa sul volante e concentrato sul mio obiettivo, guido in direzione della città, in un club dove all'interno teniamo un ufficio, nonché una delle nostre basi per gestire gli affari.
Durante il viaggio, mi rilasso lasciando diffondere dalle casse un po' di musica classica; uno dei pochi vizi che non sono riuscito ad accantonare.
In molti credono che io sia solo uno stronzo figlio di puttana, un uomo senza principi né anima. Mi vedono come un cazzone senza amor proprio, impulsivo. Non si accorgono che sono soltanto una facciata di vetro piena di lesioni. Al minimo urto cadrò giù in milioni di frantumi.
Giunto nel parcheggio sul retro del magazzino ristrutturato, non rimango affatto stupito di trovare le auto dei miei uomini.
Entro dalla porta principale, con la mia tipica spavalderia di sempre. Una delle guardie di turno mi rivolge un cenno di saluto, mentre il ragazzo che sta pulendo il locale abbassa semplicemente la testa, fingendo di non avermi visto. Nessuno dei dipendenti vuole rogne. Apprezzo la loro discrezione.
Spalanco la porta dell'ufficio e trovo Terrence sdraiato su una delle poltrone, impegnato a giocare con una pallina anti-stress presa da chissà dove. Faron invece se ne sta appoggiato alla scrivania con aria tesa. Non è da lui esserlo. Che sia successo qualcos'altro?
«Cosa sono quei musi lunghi?», mi preparo subito un caffè sistemandomi dietro la scrivania, sulla mia comoda poltrona girevole, con i piedi sulla superficie mogano.
«Vedo che sei riuscito a scrollarti di dosso la futura moglie di un nostro uomo», sibila guardandomi storto, Faron.
Io e lui essendo fratellastri e avendo vissuto in ambienti diversi per parte dell'infanzia prima di conoscerci, abbiamo due caratteri diametralmente opposti. All'inizio è stato difficile dovermi ambientare e cominciare a convivere con la costante sensazione di poter sbroccare da un momento all'altro per qualcosa senza la possibilità di poterlo fare veramente. È successo, certo, ma abbiamo sempre cercato di mantenere una tregua almeno tra di noi. Anche se solitamente quello a mollare il primo colpo sono io, Faron non è noto di certo per la sua bontà. Lui è un dannato corvo. Riesce a memorizzare i torti subiti e a darti il benservito a tempo debito.
Non è stato facile farmi accettare dalla famiglia Blackwell. Per un paio di anni ho dovuto combattere contro qualcosa che tuttora non riesco a comprendere del tutto.
La fastidiosa sensazione di dover vivere nella sua ombra fatta di perfezione e successi, mi ha spinto a dare il massimo, a essere quello che tutti definiscono un buco nero. Cosa che odio.
Bevo un sorso di caffè fissando il fondo della tazza. «Non pensavo che la mia vita privata fosse di dominio pubblico o così interessante».
Mio fratello mi scruta, strizzando la palpebra destra. «Te ne sei andato ed è stato Terrence a fare il tuo lavoro».
«Vuoi spiegarmi qual è il tuo problema? Ho portato a casa quella stronzetta, mi sono beccato insulti, graffi e cazzo se mi sono trattenuto dal non farle male quando per poco non mi ha rotto il naso. Le ho dovuto dare una lezione davanti a tutti quando ha osato reagire contro nostro zio. Non è stato facile trovare il modo giusto, ma ho seguito il protocollo, avevo tutto il diritto in seguito di...»
«Non me ne fotte un cazzo se hai o non hai il diritto! Hai il dovere di prenderti cura di lei. Più di noi qui presenti. Hai accettato di fronte alla famiglia il tuo compito e sai cosa bisogna fare, lo sai da sempre. Ora non puoi lasciare ogni incombenza a chi ti circonda solo perché pensi di potere dare ordini senza muovere il culo dal tuo trono. Non puoi andartene per una scopata in un lurido cesso proprio quando devi comportarti da uomo!», urla. «Adesso hai altre priorità. Il tuo uccello non è una di queste!»
Raddrizzo la schiena. «In realtà Trisha me la sono scopata a casa, dove ho trovato una sorpresa prima dell'alba. E non era di certo un regalo gradito!», lo fisso di rimando con un sorrisetto perfido.
Faron si accascia sulla poltrona di fronte a me e a Terrence. «Lei dovrà stare con noi alla villa. Conosci le regole. Era prevedibile che nostro padre...»
«Lascia per un momento i suoi ordini del cazzo da parte e rifletti bene, perché non lasciarla alla sua villa, dove le sue guardie potrebbero fare una volta tanto il lavoro sporco e permetterci di lavorare al resto?»
Stringe due dita sul dorso del naso. «Terrence, glielo spieghi tu?»
«Penso sappia già di essere fottuto. Sta' solo reagendo come un bambino perché la sua libertà ha appena subìto una battuta d'arresto e non potrà più scopare con quella traditrice di Trisha».
Sto sorridendo talmente tanto da sentire la mascella tesa. «Continua pure e ti affiderò ogni singolo turno di notte per un mese».
Si solleva in fretta dal divano. Per poco non fa ribaltare il mobile basso con la lampada all'angolo. «Stai scherzando?»
Lo sfido in silenzio. Lui scuote la testa e sospira. «Quella ragazza ha più di una ragione per odiarci, ma ha accettato quello che le abbiamo fatto, pur reagendo. Minacciare di fare fuori le persone a cui tiene è stato un monito per lei e sappiamo o abbiamo capito che non è una stupida. Adesso se hai finito di comportarti da bamb...»
«Dato che è mio compito, sai cosa farò? La userò così tanto che alla fine mi implorerà di fare fuori prima lei!»
Terrence scatta come una molla. Con una mossa che non avevo previsto, mi afferra per il bavero del giubbotto di pelle sollevandomi dalla poltrona e sbattendomi contro la parete.
So perché ha reagito in questo modo. Sono un verme. Eppure non mi sento in colpa quanto dovrei.
«Ma ti senti? Cristo, Dante! Quando ficcherai in quella testa che non puoi fare quello che vuoi quando lo vuoi? Eden, si chiama così, lo sai, e non è un oggetto! L'abbiamo rapita, vero, ma con un po' di gentilezza non creerà problemi e prima di quanto pensi se ne tornerà a casa o accetterà di restare. Forse non hai sentito quando ha chiesto a Joleen se c'era un coltello in più anche per lei, smascherando il suo gioco. Questo che cazzo vuol dire secondo te?»
Mi scrollo le sue mani di dosso senza fatica. «So cosa ha detto. Ma suo padre...»
«Lo so, amico. Lo sappiamo tutti cosa ha fatto quel bastardo. Ma non è lei il nostro obiettivo», prova a farmi ragionare.
Faron ci separa. «Qui le decisioni non spettano solo a te, Dante. Sono il maggiore e anche se lei è tua, abbiamo il diritto di aiutarti e sostenerti. Ma se ti comporti da coglione o provi anche solo a fare di testa tua, ci intrometteremo e interverremo. E sai cosa succederà? Allora nostro padre la cederà a me o peggio: a nostro cugino per farti un dispetto». Nelle sue parole le minacce sono velate. «Dio, odio quando sei così testardo da non riuscire a capire. Non vuoi che succeda qualcos'altro, vero?»
Io e Terrence ci immobilizziamo. Come dimenticare quei momenti? È uno di quei ricordi che non potrò mai cancellare dalla memoria.
Lo spingo, perché mi è troppo vicino. Sa bene che è una mossa azzardata da fare. «Parli proprio tu che sei andato contro il protocollo ficcandole una siringa sul collo? Che cosa volevi dimostrare, eh? Te lo dico io: stai solo giocando sporco!»
I suoi occhi scuri si fissano adirati nei miei. «Affatto. Ti sto solo chiedendo di tenere la tua impulsività e la rabbia da parte. Indirizzala verso la persona che la merita. Ma Eden, non è tua nemica», mi ricorda con voce severa avviandosi alla porta, dichiarando conclusa la nostra discussione. «Se non riesci a reggere, pensa che lo stai facendo per noi che ti abbiamo salvato il culo più volte. Fallo per la tua famiglia. Non seppelliremo più nessuno prima del tempo».
Dopo quest'ultima freccia scoccata con veleno, si allontana impensierito.
Terrence recupera la sua giacca e lo segue a ruota. Ma giunto sulla soglia si volta appena. Ha ancora qualcosa da dire. Ancora una lama da affondarmi sulla schiena.
«Nel profondo sai che ha ragione tuo fratello. Per quello che conta, anch'io ho perso qualcuno. Ma non sarà la vendetta a portarli indietro. Eden non è suo padre», gira la maniglia. «Non fare il cazzone con lei. Per quanto riguarda Faron, gli passerà in fretta», mi consola, intuendo ciò che mi ha messo di malumore. «Se ne prenderà cura, ma mai quanto potresti fare tu. Se solo aprissi un po' di più il cuore».
Rimasto solo, con un gesto impetuoso e carico di frustrazione, di nuovo seduto alla scrivania, faccio cadere sul pavimento tutto ciò che c'è sulla superficie. Con i gomiti sulle ginocchia, affondo il viso tra le mani cacciando un urlo.
Sbircio poi ai miei piedi, perché qualcosa ha attirato la mia attenzione.
La foto di un uomo spunta tra i fascicoli che si sono sparpagliati. La sollevo, fisso a lungo il volto di un assassino e decido che è giunto il momento di pareggiare i conti.
♥️
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