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Capitolo 25


EDEN

"L'orgoglio è solo un filo spinato intrecciato al cuore".
Le parole trascritte in uno dei post-it di mia madre, che avrò letto innumerevoli volte per trovare conforto, mi rimbombano dentro la testa mentre con la fronte appoggiata al vetro del finestrino dell'auto di Regina, vedo scorrere in modo distorto, a causa della pioggia battente, la strada davanti fino a raggiungere la villa; completamente avvolta nel buio.
Non mi perdo in chiacchiere perché non servirebbe a un bel niente farlo, non sono nemmeno dell'umore giusto per scherzare.
Nel corso della serata sono stata letteralmente bersagliata da domande su domande non solo sul rapporto con Dante, quanto sulla brusca reazione che ho avuto a seguito del suo comportamento al nostro risveglio.
È stato meschino lasciare a me il compito di inventare una bugia. Ha messo però in chiaro come sarà il nostro rapporto.
So già che le altre avrebbero continuato fino a stordirmi. In parte non è qualcosa che generalmente dovrebbe accadere a qualcuno che è stato rapito. Non dovrei familiarizzare con nessuno, dovrei essere tenuta dentro una cella e non portata alle feste cosicché tutti possano vedermi. Spesso lo dimentico, ma puntualmente torno a ricordarlo quando succede qualcosa che scombussola quel poco di tranquillità che si riesce a creare.
Sono lieta che la serata sia finita prima del previsto. Ringrazio persino quel qualcuno che con una soffiata ha inviato delle volanti al locale, costringendoci quasi a scappare.
Non che fossimo disposte a restare, ce ne stavamo andando da qualche altra parte a smaltire la sbronza quando è scoppiato il putiferio in sala e Faron ci ha ordinato di tornare alla villa.
Jo ha avuto qualcosa da ridire, mentre Regina, non ha dissentito. Felice di restare per la notte. Da quello che ha raccontato, si trova da queste parti per un viaggio d'affari. Ma ho il forte sospetto che in realtà sia qui per aggiornare Adeline su ogni passo fatto dal fratello e forse anche su di me.
Per non turbare il silenzio e ancora di più me stessa, lascio Regina e Jo in soggiorno, a discutere su dove trovarlo.
Salgo al piano di sopra e mi indirizzo nella mia stanza, dove spero di nascondermi per i prossimi giorni.
Se chiudo gli occhi rivedo ancora quella stronza guardarmi, sorridermi e poi baciarlo.
Non riesco a spiegare la reazione immediata che ho avuto. Prima di chiudere la porta del locale alla mie spalle, ho percepito quelle che non erano semplici emozioni, solo qualcosa di devastante.
Entro in camera, pronta a chiudere a chiave la porta e a fuggire da una situazione che mi sta facendo venire solo il mal di testa. Premo la fronte sulla superficie e con la mano vado a tentoni verso la maniglia per girare la chiave.
Solo allora mi accorgo che manca.
Le mie dita si aggrappano alla maniglia e irrigidisco le spalle quando la luce della lampada del salottino a pochi passi si accende con un clic e il suono della sua voce mi raggiunge come la lama affilata di un rasoio.
«Cercavi questa?»
Volto appena la testa e mi prende un colpo.
Se ne sta in penombra, seduto sulla poltrona. La chiave penzola dalle sue dita. Ci gioca continuando a fissarmi negli occhi, mortalmente serio.
«Che ci fai qui?», chiedo senza fiato.
Non si scompone di fronte al mio atteggiamento diffidente. Forse non gli sfugge neanche il modo in cui lascio che la porta si apra. Voglio che gli altri sentano cosa sta succedendo qui dentro. Sono stata umiliata abbastanza.
Dante si solleva dalla poltrona, adagia il libro che teneva in grembo posizionandolo di nuovo al suo posto nella libreria e mi si avvicina come un rapace. Il tutto dopo avere infilato la chiave nella tasca dei pantaloni.
Si è dato una ripulita e si è cambiato indossando una semplice tuta, anche se le sue nocche rimarranno violacee per giorni, mi fermo a pensare.
«Sono il padrone di questa casa, ci vivo».
«Ma non sei obbligato a rubare la chiave della mia stanza».
Un sorrisetto affiora sulle sue labbra. «E qui ti sbagli», mi si avvicina fermandosi a pochi centimetri, le mani adesso ficcate dentro le tasche dei pantaloni. Con la bocca contro il mio orecchio, mi solletica la pelle. «Posso prendere quello che voglio. Tutto qui è roba mia. Anche tu», sussurra.
Notandomi scossa, prosegue come un abile giocatore che ha fiutato aria di vittoria. «Ti è piaciuta la serata?»
«Dovresti andare a dormire», indico la porta. «O magari raggiungere la donna che ti stava addosso nel parcheggio. Ha lasciato il suo futuro marito o le piace ancora avere due piedi in una staffa?»
Lui la richiude appoggiandosi contro.
«Percepisco della gelosia», rotea il dito con un sorrisetto beffardo stampato su quel suo viso dannato e proibito.
«Gelosia? Ho sentito bene?», tengo a freno la risatina isterica che vorrebbe tanto irrompere dalla mia bocca.
«Hai sentito benissimo. Solo che continui a negare l'evidenza e a sorvolare sulla questione».
«Io non sorvolo su niente. Sai, sei convinto di avere un posto importante nella mia vita. Ma ti sbagli. Non occupi neanche un angolo minuscolo. Sei troppo ingombrante».
Si appoggia allo stipite, incrocia le braccia e sospira, come se avesse di fronte un rompicapo. «Adoro la tua testardaggine e posso anche accettare uno spigolo», mi fa l'occhiolino.
Alzo gli occhi al cielo. «Vattene dalla mia stanza».
«Non dimentichi qualcosa?»
Pur cercando di comprendere, non afferro al volo il nesso logico della sua domanda. Lui ne approfitta per ribadire il concetto: «Tutto qui dentro, è roba mia. Compresa tu».
Con delle semplici parole, accompagnate da quello sguardo di cui non riesco a saziarmi, stravolge tutto in pochi attimi. Nessuno è mai stato in grado di ferirmi ed essere allo stesso tempo la cura al mio dolore. Nessuno tranne lui. Ma non posso permettergli di farmi ancora male. Non so se sono così forte da resistere. Pertanto, se non se ne va lui, allora lo farò io, mi dico provando a superarlo.
La sua mano si artiglia intorno al mio braccio, mi attira a sé e in un attimo la sua bocca si precipita sulla mia. Ma rimane lì, immobile. Così vicina da sfiorarmi, da farmi sentire le farfalle nello stomaco che tentano di creare un buco profondo in cui farmi precipitare; eppure così lontana da ingigantire quel senso di desiderio che ho dentro.
«Non ne ho voglia», mormora. Allontanandosi, prende a grattarsi il mento. «E neanche tu», abbassa gli occhi sulla scollatura e il suo gesto basta a fare sollevare i miei capezzoli che si intravedono sotto la stoffa.
In mancanza di una giacca, mi copro con le braccia. «Smettila!»
Sorride sardonico. «Potrei sapere come risolvere il problema».
Con le guance in fiamme lo guardo storto. «Non c'è nessun problema. Adesso vattene. Sono un po' stanca e ho bisogno di dormire».
Prendo a muovermi nervosamente intorno, in cerca di qualcosa che possa distrarmi dalle sue mani, dal suo corpo, dal suo profumo. Da lui. Lui che è una di quelle cose talmente uniche, forti e distruttive che non le puoi spiegare; perché neanche te ne accorgi di come o quando ti ha sfiorato appena appena il cuore. Non te ne accorgi che dapprima è solo un minuscolo graffio, poi uno squarcio dal quale è impossibile guarire.
Metto in ordine il libro che aveva in grembo, augurandomi che non abbia letto il mio diario.
Vicina alla scrivania, mi impegno a non guardarlo. Neanche quando facendo un passo avanti si posiziona alle mie spalle, invadendo con il suo odore i miei sensi.
Toglie tutto dalle mie mani adagiandolo sulla superficie in legno. «Guardarmi», ordina.
«No!»
«No? Abbiamo un discorso in sospeso io e te».
«Eravamo ubriachi. Forse lo siamo persino adesso».
«Forse tu, non io. Ricordo perfettamente ogni istante e ogni parola».
Mordo forte il labbro inferiore, trattenendo a stento l'agitazione. «Pensavo avessimo sorvolato sull'argomento. In soggiorno sei stato chiaro».
Evidentemente mi sbagliavo di grosso perché, afferrandomi per i fianchi, mi solleva come se fossi una piuma, mi adagia sul ripiano della scrivania e mi bracca posizionandosi tra le mie gambe.
Per non perdere l'equilibrio sono obbligata a reggermi con le mani sulle sue spalle ampie. A essere ostaggio dei suoi occhi che nascondono furia e desiderio.
Percorro con lo sguardo il suo volto teso e vedo la ferita profonda, mai rimarginata, tenuta ben nascosta dentro. Si trova proprio su quel cuore, apparentemente di pietra. Un segno tangibile del dolore che ha sofferto chiuso nel suo silenzio, nella freddezza di una solitudine a lungo vissuta, mai condivisa.
«Che cosa stai fissando?»
«Te», lascio uscire la parola così piano dalla mia bocca, da costringerlo ad avvicinarsi per sentire la mia voce.
«Me?», sussurra a sua volta.
È talmente vicino che mi si stringe lo stomaco, e al contempo il battito del mio cuore accelera al suono della sua di voce, che si riverbera sulla mia pelle in una lieve carezza.
Non è abbastanza.
Voglio di più.
Non posso averlo.
«Che cosa ti ha fatto?», chiede, ammorbidendo il tono.
«Adesso ti importa?»
«Non dovrebbe».
Distolgo lo sguardo. Un senso di sconforto e sconfitta mi si abbatte addosso. Il sapore acre delle parole che ci siamo urlati, mi risale per la gola. «Allora perché l'hai chiesto?»
«Perché ci ho provato. Ho provato a far andare le cose secondo i piani».
Esito. «Che cosa è cambiato?»
Il suo sguardo percorre senza fretta il mio corpo. Un su e giù che sento addosso come se mi toccasse, lasciandosi dietro un formicolio e quel senso di familiare calore, da disarmarmi.
«Sei come un fiammifero, Eden», sospira. «Sei così facile da accendere. Ma sei anche maledettamente difficile da spegnere perché diventi come uno di quegli incendi indomabili e imprevedibili, proprio qui», afferra la mia mano e se la preme al petto.
Facendo un passo indietro, nervoso, gratta il dorso del naso. Prende subito fiato, l'espressione di chi si è lasciato sfuggire troppo. «Posso farti una domanda?»
Adesso, che cosa ha in mente di fare?
Sollevo gli occhi al cielo. «Poi mi lascerai in pace?»
Il pensiero che se ne vada da una parte mi angoscia, ma so che non possiamo funzionare, proprio come ha detto e ribadito anche stasera. Inoltre, prima l'ho beccato con quella donna.
Il ricordo ancora una volta brucia e mi fa tremare dentro. Non avevo mai provato così tanta gelosia verso una persona che neanche mi appartiene, né mi rispetta.
«Secondo te sono stronzo?»
Non fa ridere la sua domanda posta in modo serio. «Evidentemente ti viene naturale, non crucciarti», scivolo dalla scrivania sulla quale sono rimasta, e ancora una volta apro la porta.
Lui mi raggiunge e la richiude tenendo il palmo contro la superficie. «Parliamo. Sono calmo», mi promette silenziosamente di non urlarmi di nuovo addosso e di non mandarmi via.
Non gli credo. «Adesso vuoi parlare? Appena avrai finito cosa farai? Te ne andrai fuori da questa stanza, raggiungerai la tua amica per raccontarle di avere sgridato la tua prigioniera e ti farai con lei altre risate sulla povera vergine che ha ceduto al tuo fascino?», lo provoco volutamente.
«Voglio solo parlare».
Prendo un breve respiro. «Bene. Allora spiegami perché continui a mandarmi via».
«Perché questo», indica me e lui, «è sbagliato», conclude con aria severa. «Ti avevo detto sin dal principio di non farti strane idee. Che cosa ti aspettavi? Io non sono uno di quei "damerini" del cazzo di cui sei costantemente circondata», indica fuori. «Li attiri come mosche!», dopo avere chiuso il pugno premendolo sulle sue labbra, lo apre e schiocca le dita per rafforzare il concetto.
Quando avanzo, pronta a mandarlo via dalla stanza, noto dell'esitazione iniziale che pian piano diventa tangibile quando morde il labbro così forte da squarciarlo. I miei occhi catturano quel rosso scarlatto rilucere sulle sue labbra. Lo lecca via, proprio come ha appena spazzato ogni speranza dal mio cuore con l'ennesimo rifiuto.
Lacrime affiorano e le palpebre bruciano. Con un immane sforzo di volontà le ricaccio giù, nel profondo, e lo guardo con indifferenza. La stessa che ho dovuto adottare da bambina quando nessuno mi ascoltava o si accorgeva di me. Ero invisibile, lo sono sempre stata e la cosa, fa fottutamente male; soprattutto adesso che pensavo di avere lui.
Che sciocca!
«Non mi sentirò in colpa», mi anticipa, dando una spiegazione alla sua reazione.
Cammina verso di me, pronto a confondermi. Lo fermo. Decido di colpirlo, ignorando l'attrazione che sento. «Neanche io dopo che avrai varcato la soglia e te ne sarai andato. Magari chiamerò qualcuno per un po' di compagnia. In fondo, è stato facile. Mi hai risparmiato la fatica di scegliere», mi sforzo di non gridare, di non mostrargli quanto sia ferita.
Se c'è una cosa che non posso controllare però, sono le sue reazioni.
I suoi occhi mi si puntano addosso come catrame. Una frustata improvvisa mi attraversa dopo avere riempito la stanza di elettricità, privandola dell'aria.
Fuori, un tuono spezza il silenzio e un lampo rischiara tutto, mentre la pioggia picchia forte contro le vetrate.
Mentre sono sul punto di allontanarmi, qualcosa me lo impedisce. Sento le sue mani serrarsi sui miei fianchi. Vengo trascinata indietro e l'unico suono che sento, oltre al battito scostante del mio cuore, è la porta che si richiude.
I nostri respiri affannati, i nostri occhi incastrati, sono tutto quello che abbiamo in comune.
Con una mano continua a tenermi stretta, con l'altra mi afferra il viso avvicinandomi alla sua bocca. Il pollice prende ad accarezzarmi il labbro inferiore. «Sarà divertente pensare a un altro che ti tocca o ti fotte mentre starai con uno incapace di farti godere allo stesso modo», strofina la punta del naso sul mio, sfoderando ancora quel sorriso da clown, in parte carico di gelosia.
Lurido bastardo!
Vorrei colpirlo, ma sono paralizzata dal desiderio che sento innalzarsi a ogni soffio del suo fiato caldo sulla mia pelle. Ha maledettamente ragione. Penserei al suo tocco. Alle reazioni del suo corpo. Alla sua voce. Al suo calore. A lui che non fa parte di niente, ma inizia a essere tutto per me.
«Non ti sentirai in colpa neanche un po' ad aprire le gambe a qualcuno che non sa dove toccare, come venerarti, vero? Ad avere intorno qualcuno che non vuoi», le sue dita sollevano la seta sopra le cosce, lo spacco gli permette di insinuarsi fino agli slip.
Provo a oppormi, ma è inutile. C'è una linea di confine tra istinto di conservazione e desiderio. Le nostre, si sono incrociate facendoci scontrare mortalmente.
In un momento di lucidità, lo respingo. «Basta!», urlo. «Tu non capisci. Non sai cosa voglio e continui a giocare con me!»
Afferra i miei polsi e mi divincolo.
«Non voglio essere una semplice sfumatura nella tua vita. Non voglio mischiarmi ad altri colori. Voglio essere il tratto deciso di quel particolare che completa un'opera d'arte. Voglio essere tutte quelle cose che non sono mai stata: importante, essenziale, unica, non scontata. Voglio essere amata, non per i colori, anche per il bianco e nero che porto dentro», trattengo un singhiozzo.
«Uccellino...»
«Dante, tu hai solo bisogno di una persona qualsiasi per passarti il tempo. Io invece ho bisogno di te. C'è differenza, non so se comprendi. E lo so, l'ho capito. Non puoi darmi niente di tutto questo. Quindi vattene!», fatico sempre più a parlare. «Vattene e lasciami in pace», la voce mi si spezza. «Vattene e fammi dimenticare come meglio credo il modo in cui mi fai sentire».
Immobile, incapace di rispondere, riesco a buttarlo fuori dalla stanza a suon di spinte. Non voglio nessuna bugia. Non voglio nessuna pietà. Non voglio niente che possa distruggere ulteriormente il mio cuore. Mi leccherò le ferite in silenzio fino a quando il dolore non sarà che un formicolio gestibile.
Sbatto la porta e urlo carica di frustrazione prima di voltarmi affannata e preda di un attacco di panico, avventarmi su quello che trovo adagiato alle superfici.
Butto ogni cosa a terra e non trovando nient'altro, sfinita, scivolo giù, lasciando scorrere via ogni traccia di dolore con il sonno.

* * *

Riesco a dormire solo per qualche ora poco prima di svegliarmi di soprassalto a seguito di un incubo, ritrovandomi rannicchiata sul tappeto morbido, tra due cuscini e con una coperta adagiata sulle spalle.
Chi è stato a mettercela?
Indolenzita, ignoro il caos che mi circonda e che non ho intenzione di sistemare, raggiungo il bagno e dopo avere fatto una lunga doccia calda, allentando la tensione nei muscoli, indosso indumenti comodi.
Afferrando il telefono, scorro tra gli unici contatti che ho e scrivo a Terrence.
Devo allontanarmi da qui e subito.

Eden: "Ho bisogno di una boccata d'aria."
Terrence: "Già sveglia? Niente postumi? Inizierò il mio turno e sarò lì tra pochi minuti. Preparati, ti porto con me."
Eden: "Non è un problema?"
Terrence: "No."

Mi piace il modo risolutivo di Terrence. Non si piange mai addosso, non sfoga la sua rabbia sugli altri ed è sempre pronto a reggere il mio malumore facendomi sentire meglio.
Il fatto che si prodighi per tenermi al sicuro, me lo fa adorare e stimare ancora di più. È quanto di più vicino a un amico ed è una buona compagnia. Le nostre chiacchierate non sono mai banali. Inizio a volergli bene e la cosa da una parte è piacevole, dall'altra mi terrorizza. Perché quando inizi a legarti a qualcuno e a provare qualcosa, rischi di perdere tutto.
Scendo al piano di sotto di corsa quando sento la sua auto fermarsi sul vialetto. Non voglio dargli neanche il tempo di sostare e cambiare idea.
«Dove credi di andare?»
La voce di Jo mi coglie impreparata e arresta la mia corsa. Raddrizzo subito la schiena e penso a una scusa da darle, pur non trovandone di valide. Evito di guardarmi intorno, di sentirmi un disastro perché so di non avere un bell'aspetto. «Ho chiesto a Terrence di portarmi fuori. Regina è ancora a letto?»
«Uhm. Regina è già fuori per una riunione e io a breve andrò in ufficio. Terrence ha il permesso? Dove state andando?»
Il fatto che non stia obiettando, negandomi questa uscita, tentando di dissuadermi, tantomeno dubitando della mia smania di uscire tanto in fretta da qui dentro, mi fa frenare e riflettere.
«Tutto bene?»
Avvicinandosi, mi abbraccia, di seguito lascia la tazza vuota sul mobile e si allontana dicendo: «Parliamo quando torni. Ho delle cose da dirti. Non fare stancare Terrence. Ha anche il turno di notte e vogliamo che sia lucido».
Mi sento in colpa ma è l'unica soluzione che mi è venuta in mente quando ho realizzato che mi sarei trovata da sola in casa con quel grandissimo bastardo. Chiamare Regina è fuori discussione. Dal modo in cui si dimenava con quella ragazza ho qualche sospetto su come si concluderà la sua "riunione".
Dopo avere versato del caffè in due bicchieri da portare via e avere sgraffignato due ciambelle dalla scatola di cartone posta sul tavolo della cucina, esco dal portone principale. Sul lungo vialetto, trovo Jo con Terrence.
Sembrano animati da una discussione. Non si accorgono della mia presenza se non quando lei mi avvista, smette di parlare, molla una pacca a Terrence e si allontana.
«Grazie per avere accettato con così poco preavviso e andando contro l'ordine di non farmi uscire», gli porgo la tazza e scuoto il sacchetto di carta.
Ha una strana espressione e sta ancora fissando un punto imprecisato della villa. «Ho bisogno di allenarmi. Non ti dispiace seguirmi al poligono, vero?»
Spesso il dolore diventa l'unico posto in cui ti rannicchi quando i ricordi ti travolgono spingendoti alle lacrime.
Al contrario di quello che sto mostrando per nascondere ogni tipo di reazione, mi elettrizza e mi spaventa. Da una parte mi è sempre piaciuto quel senso di protezione dato dal tenere in mano un'arma. Dall'altra, mi ricorda quello che ho perso a causa di esse. E quegli attimi, in questo istante, rischiano di risalire in superficie facendomi scoppiare il cuore.
«Mi insegnerai a sparare?», sfodero la migliore espressione carica di sorpresa che riesco a esibire. «Sei sicuro che sia il posto giusto?»
«Ne avevamo parlato. Così, quando mi hai chiesto di uscire ho pensato, perché no?»
«Bene. Allora andiamo!», taglio corto. Non dico ad alta voce di averne bisogno, ho il sospetto però che Terrence me lo legga in faccia.
«Serata movimentata, vero?»
Alzo gli occhi al cielo. «Oh, non sai quanto», entro in auto, sedendomi sul sedile anteriore. Terrence non se ne lamenta. Forse sarà più semplice per lui tenermi d'occhio da qui.
Per tutto il tragitto, guida con attenzione, controllando che nessuno ci stia seguendo. Che io non tenti di scappare.
«Stai bene?», domanda dopo qualche minuto, interrotto dai suoni dell'auto; un bestione tecnologico. Qui dentro c'è odore di pulito. Abbasso il volume dello stereo. «A meraviglia», mento.
Storce le labbra. «Che ha fatto?»
Mi volto di scatto. Lui rimane vigile e inserendo la marcia svolta a destra attendendo che la fila davanti scorra. «L'ho capito dal modo in cui sei corsa fuori. Dubito ti stessero inseguendo dei lupi. Quelli non li abbiamo nella tenuta».
Mordicchio il labbro. «L'ho trovato in camera. Mi stava aspettando pronto a scaricare la sua furia su di me. Dapprima ho provato a parlare con lui, quando ho capito che non saremmo andati da nessuna parte, l'ho buttato fuori. Sai, non capisco la ragione di così tanto odio, ma non gli permetterò di rendermi la vita impossibile».
Annuisce divertito. «Ecco dove si trovava. Sai che tornerà alla carica?»
«Sarò pronta e armata magari la prossima volta», sorrido perfida e lui di rimando.

* * *

Raggiunto il poligono, un grande stabile abbastanza affollato, mi lascio guidare da Terrence, ignorando gli sguardi curiosi. Non c'è quasi nessuno nell'area in cui ci fermiamo e la cosa mi fa rilassare le spalle. Meno occhi puntati ho addosso, meno saranno le domande alle quali rispondere a causa delle strane reazioni che potrei avere a ogni colpo di pistola. Ma ho il sospetto che Terrence abbia prenotato per essere soli. Sa qualcosa sul mio passato? Si aspetta che abbia una crisi o altro?
Per le prime due ore, gli permetto di posizionarsi alle mie spalle e insegnarmi le basi; anche se so già come si fa ogni cosa e mi costa tenere a freno le mani e quel senso di paura ogni volta che i ricordi tentano di sovrastarmi.
Notandomi distante, mi riporta al presente. Mi chiede se sto bene, se ho bisogno di una pausa. Tutte le volte, riesco a inventare una scusa e a nascondere il tremore.
Intuendo che siamo qui anche per lui, lo incito ad allenarsi e a non preoccuparsi più di tanto per me.
Lo ammiro sparare, rimanendo sbalordita, in particolare quando con un sorrisetto mi guarda con quei suoi occhi scuri e dice: «Scommetto un gelato che riesco a colpire lo stesso identico punto per tre volte».
«È impossibile. Non sei mica Jigen. Ma visto che non mi tiro mai indietro, facciamo pranzo completo? Posso scegliere io il punto?»
Me lo conferma con un verso gutturale.
«Spalla, sopra il cuore».
Spara, a una velocità che ha dell'impossibile.
Continuo a fissare la sagoma con un unico foro quando preme il pulsante sul marchingegno elettronico e questa lentamente si avvicina. «Buon Dio, spero di non essere mai tua nemica».
Ride orgoglioso e allo stesso tempo in imbarazzo. «Dovevo fare bella figura, altrimenti che cecchino sarei?»
«Sei stato addestrato per quello?», la curiosità mi spinge a chiedere qualcosa in più sul suo conto.
«So fare tutto», si gongola. «Anche se ho anch'io delle preferenze».
È bravo a eludere le domande. Non volendo importunarlo oltre, mi posiziono, tengo a mente di non dover essere Eden Rose al poligono. «Dove?»
«Fianco sinistro».
Sparo. Sbaglio di proposito, anche se per orgoglio mi mantengo in linea con il bersaglio e il punto indicato creando un semplice triangolo.
Terrence togliendosi le cuffie e gli occhiali, mi indica l'uscita. «Mi devi un pranzo e un gelato».
«Ho il sospetto che tu lo abbia premeditato».
«Sei tu che hai sbagliato. Ma hai una buona mira».

* * *

Dopo avere pranzato in un grazioso ristorante vicino al molo, camminiamo tranquilli lungo il sentiero del parco. Il sole ormai al tracollo manda gli ultimi bagliori e il cielo si tinge di rosso, oro e rosa. L'aria intorno profuma di margherite ed erba ancora bagnata dal temporale. C'è anche qualcosa di sottile simile allo zucchero filato e all'odore che si diffonde al cinema grazie ai popcorn.
«È la prima volta che una ragazza mi offre il pranzo e un gelato», esclama compiaciuto, tenendo il cucchiaino colorato tra le labbra.
«E come ti senti in merito?», caccio in bocca una cucchiaiata di gelato.
«È strano», mugugna. «Solitamente non lo permetto. Sono stato cresciuto in un certo modo e i miei genitori mi farebbero a pezzi».
«Uhm, strano positivo o negativo?»
«Positivo. Hai persino scelto il mio gusto preferito. Certo, non so come sia possibile».
«Uno come te non poteva che adorare il gelato alla stracciatella».
Tiene il cucchiaino in bocca. «Da cosa l'hai capito?», biascica con sospetto.
«Anche se dai agli altri l'idea di essere un duro, in realtà hai un animo buono e dei gusti semplici. Non cambiare mai, Terry».
Spalanca gli occhi. «Come mi hai chiamato?»
Ridacchio. «E scommetto che ti chiamano così».
Sbuffa andando a buttare le coppette vuote. «Inizio a pensare che tu sia molto più di quello che fai credere. Prima ho anche notato che ti trattenevi al poligono. Sicura di non avere mai usato un'arma? Hai una certa predisposizione».
Mi incupisco.
«Sei Eden Rose?»
Un ragazzo, capelli lunghi biondi e arruffati, con addosso jeans larghi sotto una maglietta piena di disegni, mi si avvicina interrompendo la nostra conversazione.
Terrence, credendo che sia un malintenzionato, si frappone in un attimo, facendomi scudo con il suo corpo. «Se cerchi rogne ti consiglio di smammare».
«Mi hanno detto che ti avrei trovata al parco insieme a un ragazzo alto, simile a un Marines. Devo consegnarti un regalo. Allora, sei tu?», dice stralunato il tizio smilzo che ha tanto l'aria di un tossico, ignorando le minacce di Terrence, il quale lo afferra per la maglietta. «Come ti chiami? Chi cazzo ti manda?», lo tempesta di domande.
Il tizio solleva entrambe le mani allarmato. «I-io so-sono Murphy. Ti giuro che non ho fatto niente. Non so niente. Mi è solo stato offerto questo lavoro e devo consegnare», fruga nella tasca posteriore passando a Terrence un pacchetto. «Questo regalo a Eden Rose».
«Chi ti ha assoldato?», indaga, prendendo il pacchetto con due dita, posandolo a terra neanche fosse una bomba pronta a esplodere da un momento all'altro.
Continuando a tenere il ragazzo per il tessuto della maglietta, lo strattona quando non replica in fretta. «Ho fatto una domanda!», alza ancora il tono, fissandolo con autorità.
Vederlo in azione, mette i brividi. È un tripudio di forza, compostezza, muscoli tesi.
Questo nuovo lato di Terrence mi fa tremare.
«C'era quest'auto costosa ferma nel parcheggio qui dietro. Non ho visto in faccia il tizio che ha abbassato il finestrino. Mi ha richiamato con un fischio. Quando mi sono avvicinato è solo comparsa una mano coperta da un guanto nero che mi ha passato un messaggio con delle indicazioni, il pacchetto e un bel po' di soldi. Sul foglietto c'era scritto che avrei dovuto consegnarlo alla ragazza, che l'avrei trovata qui al parco».
Mi abbraccio guardandomi intorno.
Terrence ringhia. «Non osare scappare se incroci di nuovo il mio sguardo o ti riterrò complice di qualsiasi cosa contenga quel dannato pacchetto. Intesi?»
Murphy annuisce. «Sì, s-s-sì, signore», e ottenendo il permesso, scappa.
Terrence solleva il pacchetto. «Lo portiamo da una parte per controllare che non contenga qualcosa che possa esplodere. Anche se ho il sospetto che sarebbe già accaduto se lo scopo fosse stato quello di farci del male, okay?»
Sono troppo terrorizzata per replicare, mi agito ancora di più quando il mio telefono prende a squillare. Non ho dubbi su chi possa essere.
Terrence mi fa cenno di rispondere e di fargli ascoltare la conversazione.
Eseguo come un automa. Rispondo e metto in vivavoce.
«Stai ancora facendo le fusa al nemico?»
Non avevano detto che era come nuovo il mio telefono? Allora come ha fatto a trovarmi e cosa sta succedendo? Chi sapeva dove mi sarei trovata e con chi?
Un momento...
Mentre il mio cervello mi dà una risposta, il mio cuore cerca di rifiutarla. No, non può essere, mi dico. Non tradirebbe mai i Blackwell.
Insieme a Terrence ci spostiamo verso l'uscita mentre lui imprecando digita frettolosamente un messaggio sullo schermo del suo telefono, continuando a tenere d'occhio la strada e ad ascoltare la chiamata.
«Spero ti sia piaciuto il mio regalo».
Non resisto e riaggancio.
Succede tutto in fretta. Allacciate le cinture, Terrence mi porta in un posto isolato, all'interno di una struttura blindata, piena di controlli e guardie armate in tenuta mimetica.
Non trovo nessun volto noto all'interno. Il sospetto che Terrence abbia nascosto qualcosa sul suo conto ai Blackwell, cresce in me mentre avanziamo e osservo il modo in cui è strutturato l'edificio, molto simile a una base per le operazioni militari.
Ricevo un'altra chiamata che mi distrae dalle domande e dal sospetto. Abbasso gli occhi sullo schermo. «È ancora lui», gracchio.
«Rispondi», mi incita. «Non mostrarti spaventata. Puoi farcela», mi rassicura, notando la mia agitazione.
«Ma cosa ci facciamo qui? Che cos'è questo posto? Che sta succedendo, Terrence?»
Indica un computer. «Non avere paura. Rispondi e ti spiegherò tutto più tardi».
Prendo un lungo respiro e mentre intorno si crea un silenzio quasi assordante, accetto la chiamata portando la cornetta all'orecchio.
«Non riagganciare mai più!», alza il tono, Darrell. «Hai o non hai ricevuto il mio regalo?»
«Se è così importante il tuo regalo, perché non me l'hai portato direttamente anziché mandarlo con uno sconosciuto?», lo stuzzico, usando un tono pieno di arroganza. «Hai così tanta paura di farti vedere?»
Ride facendomi sussultare il cuore. «Non impari mai a tenere a freno la lingua. Quando sarai mia sarà la prima cosa a cui penserò». Poi sospira. «Ti do la possibilità di fermare tutto questo. Voglio essere buono con te. Accetta il mio dono, fai la scelta giusta e non farò male ai tuoi nuovi amici».
Terrence mi fa cenno di continuare. Se ne sta davanti a uno degli schermi, le cuffie alle orecchie e le dita sulla tastiera di un tablet, cerca di agganciare il segnale della chiamata.
«Tu non vuoi loro, vuoi me. Non è mai stata la tua guerra quella tra Rose e Blackwell. Continui a dire che sarò tua, eppure non ti vedo da nessuna parte da quando mi hanno rapita. Sei solo un bugiardo che crede di potermi manipolare. Ma ti sbagli. Sono io quella che ha manipolato e fottuto te per tutto questo tempo», parlo come una Rose e mi sento nauseata mentre lo faccio. Le lacrime affiorano, le trattengo alimentando la rabbia. «E sai una cosa? Mi piace. In fondo è stato facile lasciarti solo a dare spiegazioni sulla mia fuga. Mio padre sarà contento dei tuoi insuccessi anche in questo campo», ridacchio. «Che cosa ti ha detto quando ha visto il video? Scommetto che ti ha minacciato e hai chinato il capo, un po' come hai sempre fatto. Uhm, che cosa ti dirà quando non avrete più il contatto che usi per raggiungermi?»
Lui emette un ringhio. «Non osare...»
«E tu non minacciarmi a vuoto, Darrell. Sai di chi sono figlia, ma non hai ancora visto niente di quello che farò per distruggerti. Perché ricorda, anche se appartengo alla stirpe dell'uomo che ti chiama figlio, ho altre armi a mia disposizione e sono molto più pericolosa. Ti sei lasciato scappare troppi indizi e sono arrivata in fretta alla soluzione», sibilo, muovendomi da una parte all'altra. «Mi domando solo perché. Cosa hai da darle in cambio».
Un uomo con una profonda cicatrice sulla guancia che si è posizionato di fianco a Terrence, mi fa cenno con un dito. Un minuto. Solo uno. Posso resistere?
«Sei solo una stronza. So come metterti in riga. E so come distruggere il tuo piccolo cuore. In fondo l'ho già fatto spingendoti da quelle scale. Credo che partirò da quel ragazzo rasato con cui hai fatto amicizia. Com'è che si chiama? Terrence. Siete molto affiatati, vero? Dopo che avrò finito con lui, mi occuperò di tutti gli altri. Per ultimi terrò il mio contatto e il bastardo a cui hai aperto le gambe. Morirà davanti ai tuoi occhi».
Tremo. Alzo lo sguardo su Terrence, ma ha l'aria di uno che con le minacce ci si pulisce il culo.
«Stai solo sprecando il tuo tempo. Vuoi me e non puoi avermi. Tu hai paura», lo schernisco. «In più sai che ho con me quello che mi serve per distruggerti».
Terrence, con le dita segna il: tre, due, uno.
«Che cosa stai dicendo?»
«Devi essere più furbo e meno egocentrico. Sai, non fa bene al tuo stomaco arrabbiarti», lo prendo in giro e notando un segnale che l'uomo fa a Terrence, riaggancio.
Le gambe non sorreggono più il mio peso e scivolo giù prendendomi il viso tra le mani. Che cosa ho fatto?
«Sei stata brava»
Terrence si è avvicinato, abbassandosi sulle ginocchia, mi massaggia la schiena.
Mi irrigidisco. «Vi farà del male e io non voglio», scoppio in lacrime.
«Ce ne occupiamo noi», replica Nigel, spuntando da una saletta. Tira sul naso gli occhiali.
Da quanto tempo è qui? Anche lui sta nascondendo qualcosa ai Blackwell?
«Siamo qui per questo», afferma una donna molto bella, di età superiore alla media qui dentro, carnagione ambrata. Raggiungendomi mi passa un bicchiere d'acqua. «Sei tosta, mi piace. Sono Hanne».
Le stringo la mano lasciando che mi aiuti a sollevarmi, accetto il bicchiere e dopo avere preso un sorso d'acqua e avere scrollato le lacrime, rispondo: «Eden».
Li guardo uno a uno. «Mi spiegate che cosa sta succedendo?»
Terrence mi passa la scatolina. «C'erano questi nel pacchetto che abbiamo controllato».
Riconoscendo la busta degli inviti di nozze scelti dalla mia matrigna e la scatolina di velluto, indietreggio di un passo. Gli occhi di nuovo colmi di lacrime. «Non tocco quelle cose», sussurro. «Tienile lontane da me».
Quando Terrence solleva il coperchio, la scatolina di velluto non contiene nessun anello di famiglia, solo un biglietto:

"Se non torni per il giorno delle nozze, a pagare sarà uno di loro".

♥️

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