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Capitolo 23


DANTE

Provarci o smettere?
Non è facile lasciare il torpore di una vita fatta di distacco e solitudine, soprattutto dolore e morte e tanto di quell'odio da non avere più altro spazio.
O così credevo che fosse prima che lei travolgesse del tutto la mia esistenza.
So però per certo che continuando in questo modo, l'unico a morire, sarò proprio io.
La verità è che non riesco più a sentirmi al sicuro con me stesso. Sono sconvolto. I muri che ho chiamato casa, si stanno riempiendo di crepe. Non posso permettere che filtri attraverso di essi altra luce. Non posso farmi sommergere dalla speranza. Perché tutto è effimero e io, io sono un disastro, un vero campione nel tenere lontano dal mio cuore ogni possibile minaccia.
Seduto sulla poltrona della sala riunioni, attendo paziente che uno degli informatici spifferi la verità. Minacciarli non è servito a farli arrendere, ma è stato abbastanza convincente da ottenere qualche minuscola reazione. Stanno infatti iniziando ad agitarsi e a capire che non è uno scherzo. Che non sono disposto a lasciare correre perché non si tratta di un errore innocente o di una svista. Qui parliamo di tradimento.
Dopo avere fiutato aria di litigio con Jo, l'unica cosa che ho trovato fosse abbastanza utile da scaricarmi le pile è stata richiamare i miei uomini per una visita lampo al centro di controllo. Mai mi sarei aspettato che uno di loro cedesse alle minacce di un gran figlio di puttana per una cosa banale come un numero. Eppure è successo, quel bastardo si è messo in contatto con lei, terrorizzandola; adesso, attendo la storia che ci ha condotti qui e il nome di chi ha tradito i Blackwell.
«Signore non abbiamo informazioni sufficienti», prova a dire il capo dell'intero gruppo, uno dei collaboratori che ha selezionato Seamus anni fa.
Oscar non è mai stato subdolo, mai avido. Eppure non so se credergli.
Gioco con una penna facendo scattare nervosamente la mina. «Devo ricordarti che uno dei tuoi dipendenti, facendosela quasi addosso, poc'anzi ha spifferato che qualcuno in ufficio di recente è stato minacciato e ha dovuto fare il doppio gioco?»
Oscar abbassa la testa, le guance flosce arrossate. «Io non so il suo nome, signore. Mi lasci parlare con loro e ne verremo a capo. Ci deve essere una spiegazione», dice proprio di fronte a loro.
Picchio la penna sul tavolo ovale di vetro e sussulta. «Voglio quel nome e lo voglio adesso! Non me ne fotte un cazzo della spiegazione, voglio sapere come sia possibile tutto questo! Voglio sapere perché non posso fidarmi dei miei stessi uomini! Perché non sono stato avvertito immediatamente e perché avete insabbiato tutto, rischiando di provocare più di una semplice reazione a catena», sbraito. «Siamo una squadra. In quanto tale, bisogna agire insieme. Avremmo potuto tendere loro una trappola, farli abboccare, portarli dove volevamo».
L'uomo deglutisce, passando una mano grassoccia sulla calvizie per togliere l'alone di sudore. «Non ho un nome, signore», ripete ostinato.
Sta mentendo. Stanno tutti coprendo uno dei presenti. Per quale ragione?
Poggio la pistola sulla superficie e i tre assiepati all'angolo della stanza, squittiscono. «Coraggioso a rischiare per un topo di fogna che sta mettendo a rischio tutti quanti. Mi domando cosa ci guadagni da tutto ciò. A meno che non sia stato tu».
Faron e Nigel, sulla soglia come due guardie del corpo, mi fanno capire di averli in pugno.
Con la coda dell'occhio controllo Terrence, al computer in un cubicolo non molto distante dalla sala riunioni. Concentrato sullo schermo, sta facendo le sue magie. A un certo punto, solleva la testa e anche un pollice.
Se solo lo avessi messo a capo di tutto, andando contro il volere di Seamus, non saremmo in questa situazione. Ma ormai è andata così. Farsi le paranoie è controproducente. Sono tante le cose che non sono riuscito a fare.
Mi rimetto in piedi e trattengono il fiato. Do loro le spalle fissando dalla vetrata il paesaggio naturale che si staglia davanti. «Devo proprio annunciarlo?»
«Mi dispiace, signore».
Donaldson, grandissimo lavoratore, intelligente e importante risorsa informatica, si inginocchia scuotendo la testa. «Mi tenevano sotto tiro e facevano lo stesso con mia figlia. Lei sa che non abbiamo nessuno e non potevo perderla. Avrei dovuto avvertire o dare un numero diverso. È stato un errore sciocco e imperdonabile, dettato dal panico», piagnucola, mentre gli altri lo guardano colpiti dal suo coraggio, forse anche preoccupati per la sua sorte.
Se avevano in mente di sfuggire alla mia ira, si sbagliavano di grosso. Adesso lo sono il triplo. «Continua», mi appoggio alla superficie del tavolo, con un cenno ordino a Nigel di scortare gli altri fuori; in modo tale da non fargli sentire il resto della confessione e non farli intervenire. Nei prossimi giorni saranno mandati altrove, a scontare la loro punizione.
Faron si avvicina a Donaldson e lo trascina su una sedia, posizionandosi alle sue spalle. L'uomo non si oppone.
Nigel, di ritorno insieme a Terrence, si siedono anche loro e attendono mentre quest'ultimo ha con sé un tablet pieno di finestre aperte.
Rinvio le domande per dopo. Adesso voglio solo sapere il nome. È chiaro che il poveretto non ha agito da solo. A stento riesce a prendere una bustina di zucchero in più a mensa senza sentirsi in colpa. Non è un ladro.
«È iniziato tutto con una chiamata. Era anonima, la voce dell'individuo metallica. Se all'inizio avevo pensato che fosse uno scherzo di cattivo gusto, mi sono ricreduto quando lo stesso giorno, ho ricevuto a casa, in una busta, le foto di mia figlia», stringe i pugni sui braccioli della sedia. «Ho fatto il doppio gioco, l'ho fatto per salvare lei. Non so altro».
«Quali erano i comandi?»
«Era una richiesta alquanto strana. Dovevo portare il numero della ragazza, trascritto su un foglietto e imbustato e lasciarlo sotto una panchina della stazione. Le istruzioni sono arrivate per e-mail. Ho provato a raggiungere l'indirizzo, ma sono stati bravi a eliminare le tracce».
«Non così bravi», interviene Terrence, soddisfatto. «Io sono risalito a te».
Donaldson annuisce. «Mi dispiace, davvero. Ho solo fatto da tramite».
«E non potevi nasconderti da qualche parte e vedere chi si sarebbe fermato a quella dannata panchina? Cazzo, quante esercitazioni abbiamo fatto? Quante volte abbiamo svolto mansioni simili. Non ti è venuto in mente di fregarli?», interviene adesso Faron, la preoccupazione evidente sul volto stanco.
Donaldson nega: «Come ho già detto, mi tenevano sotto tiro e al telefono, signore. Facevano lo stesso con mia figlia, inviandomi di tanto in tanto una foto mentre giocava con la babysitter. Un passo falso e avrebbero sparato loro e io sarei stato il prossimo».
Massaggio il mento. Faron mi scocca un'occhiata mentre Nigel riflette con attenzione sulle parole dell'uomo. Terrence sembra preso dalle sue ricerche.
«Hanno fatto altro?»
«Mi hanno offerto del denaro per il mio silenzio», abbassa ulteriormente la testa. «Non ho preso un centesimo, ve lo giuro», scoppia a piangere. «Vi prego, mia figlia è così piccola e ha bisogno di cure mediche...»
Sollevo una mano. «Basta così!», mi allontano dalla stanza. L'ufficio ormai è deserto in quanto tutto il personale è stato mandato via. Smantelleremo questo posto. Nessuno di loro avrà vita facile e mio padre da questo momento accetterà i miei ordini.
Appoggiato al bordo di una delle scrivanie, rifletto accendendomi una sigaretta, ma più i minuti passano, più non ne vengo a capo. Come ha fatto Darrell a superare le nostre difese, a convincere un nostro uomo a cedere così facilmente fino a costringerlo a usare un altro povero dipendente?
Clic, clic.
Apro e richiudo il coperchio dello Zippo. Mi è tornato il tic nervoso.
«Qualcosa non ti torna», Terrence prende posto accanto a me. «Hai ragione. È una situazione talmente assurda».
«I nostri dipendenti sono tenuti sotto stretta sorveglianza. Abbiamo un fascicolo completo di storia personale, debiti, bisogni, sogni su ognuno di loro. E quei fascicoli sono tenuti nascosti. Non vanno a cagare senza che noi non lo sappiamo, cazzo. Eppure ci siamo lasciati fregare».
Terrence oscilla con la sedia. «Stai pensando che qualcuno ha messo le mani su quei fascicoli per usare la pagliuzza più corta in modo tale da sfuggirci? Che non era Darrell ma qualcun altro che ha fatto tutto a suo nome?»
Annuisco. «Penso sia qualcuno che conosce i nostri spostamenti, le nostre abitudini così bene da agire indisturbato. È in mezzo a noi, porca puttana! Ma cosa ci guadagna?»
Terrence fa una smorfia. «La vera domanda è, chi? Chi può avere accesso così facilmente e perché tradirci?»
Aspiro e lascio uscire una nuvola di fumo. Non mi preoccupo che potrebbe scattare l'allarme antincendio. «Chi ha scelto Donaldson, conosceva la sua condizione, sapeva che avrebbe ceduto facilmente al ricatto perché non può perdere sua figlia. L'ha sfruttato a proprio vantaggio per fare avere il numero di Eden a Darrell. Ma in cambio? Che cosa ha ottenuto?»
Terrence gioca con una pallina anti-stress che si trovava sulla scrivania. Anziché strizzarla, la lancia e la riprende assorto.
«Abbiamo estorto qualsiasi cosa dalla loro bocca, Di. Quell'uomo ha confessato ma sa ben poco su chi possa esserci dall'altro lato. Dobbiamo fare attenzione».
«Forse ho un'idea».
Terrence solleva il sopracciglio. «Vuoi tendergli una trappola?», dà voce ai miei pensieri sotto forma di domanda.
Non ho il tempo di replicare, Faron ci raggiunge. L'aria testa, di chi ha visto un fantasma.
«Che c'è?»
«Dobbiamo andare. Hanno preso uno degli uomini di Rose. Erano in agguato e...»
«E... cosa?»
«Forse miravano a nostro padre. Hanno anche ucciso Dallas».

* * *

Raggiunto il magazzino, la prima cosa che noto sono i segni della colluttazione e il sangue sul volto di Seamus. Mio zio Pascal tiene sopra l'occhio del ghiaccio secco, per il resto non sembra ferito. Ha solo lievi escoriazioni e l'espressione di chi vorrebbe mettere a soqquadro il mondo per avergli sporcato il suo prezioso e costoso completo beige chiaro, per gran parte chiazzato di rosso.
«Che è successo?», Faron chiede subito i dettagli, avvicinandosi a nostro padre, seduto su una delle logore poltrone, appoggiato al suo bastone.
Io me ne sto in disparte. Non mi dispiace la vista. Per una volta ha corso lui il rischio e dalla sua postura ho la conferma che è spaventato. Ha perso il suo braccio destro oggi.
Pur essendosi ritirato, Dallas era un uomo influente. Questo getterà merda sulla famiglia, sul clan, sugli affari.
«Quei pezzi di merda lo sapevano», replica sprezzante Pascal, scostando il ghiaccio dall'occhio nero. Sputa ai piedi dell'uomo legato per i polsi a due spesse catene agganciate al tetto, proprio come un maiale da sgozzare. «Una trappola che ci è costata uomini e Dallas. Con noi c'era Cole, è stato lui a notare il loro SUV seguirci. Altri ci aspettavano all'incrocio. Siamo riusciti a stento difenderci».
Perché non hanno chiesto a me e a Faron di partecipare?
Seamus si solleva, reggendosi al suo bastone, zoppica verso l'energumeno legato. Gli molla un colpo sulla pancia con il manico. «Il piano non era farci fuori. Non senza prima avere preso qualcosa. Non volevano solo informazioni o distrarci».
«Figlio di puttana! Morirai insieme alla tua stirpe e ai tuoi uomini se non riporti al padrone ciò che gli appartiene!»
Seamus si mette dritto, aggiusta persino il colletto della camicia. «E cosa gli appartiene?»
«Non fare il finto tonto. Puoi anche ammazzarmi, verranno altri a cercarvi», ribatte animato dalla rabbia l'uomo. Il sangue continua a colargli dalla bocca a ogni parola pronunciata con disprezzo e odio.
Seamus non si scompone. «Se abbiamo qualcosa che gli appartiene perché non è venuto personalmente a prendersela? Ha paura di spezzarsi un'unghia?», lo schernisce. «O non è poi così certo di quello di cui ci accusa? Non sarebbe la prima volta».
I nostri uomini ridacchiano, pur essendo sfiniti. Qualcuno sta dando loro aiuto e medicazioni. Di Coleman non c'è traccia e mi domando cosa stia facendo.
«Ridi pure, Seamus Blackwell. Presto farai la fine che meriti. Proprio come quella che hai fatto fare alla signora Rose in quella chiesa».
Ho sentito bene?
«Cosa?», non resisto alla curiosità.
L'uomo mi guarda con l'unico occhio rimasto aperto, arrossato e sanguinante. «Adesso chi è che fa il finto tonto?», mi schernisce. «A meno che...», ride e si rivolge a Seamus e a Parsival. «Il bastardino non ne sa niente, non è così?», continua a ridere tra un colpo di tosse e l'altro.
«Che cosa dovrebbe sapere?», lo sfida Seamus.
Pascal si fa avanti. «Adesso basta con queste chiacchiere inutili, dicci quello che vogliamo sapere e facciamola finita. Sei ben consapevole che il tuo tempo sta per scadere, perché sprecarlo con delle bugie».
L'uomo ride. «Perché stai interrompendo il discorso? Qualcosa da nascondere?»
Pascal si fa vicino, l'uomo ne approfitta e gli molla una testata. «Non sono bugie le mie. Siete degli assassini! Non avete onore e il coraggio di ammettere di avere commesso un atroce delitto!»
Immediata è la reazione di Seamus, solleva il bastone e a una velocità esorbitante toglie la sicura facendo scattare la lama dal manico premendola sulla gola dell'uomo. «Saluta il tuo padrone da parte mia quando ti raggiungerà all'inferno e digli che questo è per mio figlio».
«Marcirai anche tu con noi, assassino», gorgoglia in un mare di sangue l'uomo.
Il silenzio rimbomba e nessuno si muove di un passo mentre Seamus estrae la lama dalla gola dell'uomo, la ripulisce con meticolosa attenzione e la nasconde.
«Noi due dobbiamo parlare», mi ringhia contro, uscendo dal magazzino come se non avesse appena freddato un uomo senza battere ciglio. «Ripulite tutto», ordina.
Lo seguo fuori, incapace di professare parola. Con la testa piena di domande su quanto ho appena sentito. Ha ucciso quell'uomo perché non aveva le risposte che cercava o per nascondere qualcos'altro? Quell'uomo diceva la verità? Cosa mi nascondono?
«Lei è al sicuro?», domanda, fissando davanti a sé.
«È con Joleen».
«Avete trovato la talpa?»
«Ci stiamo lavorando. Abbiamo già uno dei pezzi che ci servivano. Arriveremo a lui», replico, dando per scontato che sia un uomo.
Lecca le labbra screpolate, passa una mano sulla chioma uscita dal suo codino di solito sempre impeccabile e gonfia il petto. «Non mi piace il modo in cui stai gestendo la situazione. Stai perdendo il controllo, Dante. Ricordati che sei sostituibile», parla con delusione evidente e mi stringe la spalla.
Lo seguo con lo sguardo fino alla sua Berlina. Pascal entra in auto dopo di lui, dicendo qualcosa che non riesco a cogliere. I due se ne vanno lasciandomi solo e con una minaccia a gravarmi sulle spalle.
«Figlio di puttana», sputo a terra.

* * *

Lo sapevo. Sapevo che prima o poi avrei mandato tutto a puttane. Non avrei dovuto volerla, toccarla, possederla con quell'intensità, godere di ogni sua espressione o parola; sentirmi talmente euforico da desiderarne ancora.
E lei, lei non avrebbe dovuto permettermi di sfiorarla. Avrebbe dovuto respingermi. Ma ci siamo solo fatti a pezzi a vicenda.
Riapro gli occhi e vengo investito da un'improvvisa sensazione di calore. Sventolo un po' la maglietta nera e scivolo di più sul divano del ritrovo in cui mi sono rifugiato dopo essere stato minacciato da mio padre. Lo faccio anche per non avere ulteriori tentazioni.
Il climatizzatore si è rotto e nessuno in questi giorni ha avuto il tempo di sistemarlo. L'aria è pregna di ogni odore che si mescola in una sorta di calotta calda spesso asfissiante. Le temperature si sono innalzate e la giornata torrida di oggi ha messo a dura prova ogni singola persona qui dentro.
«Ancora non vuoi dirci la ragione?»
«Di cosa?»
«Non mi riferisco all'espressione che hai da quando hai parlato con tuo padre e abbiamo saputo della morte di Dallas».
Incrocio le braccia. «Non so di cosa stai parlando. Corri a prendermi un altro caffè, senza zucchero questa volta. Sai che mi piace amaro, come la mia vita». Detto ciò, sollevo lo schermo del portatile e provo a leggere il resto dei tabulati telefonici, delle e-mail e le informazioni che siamo riusciti a scovare, in santa pace; allontanando il piattino con il panino ormai mangiucchiato a metà.
Abbiamo ancora molto lavoro da fare per riuscire a stanare il traditore che ci ha voltato le spalle. Sto concentrando tutte le mie forze su questo perché so di non potere abbassare le difese.
Ho dato di matto dopo avere saputo che Eden sarebbe uscita con mia sorella con o senza il mio benestare. L'istinto di proteggerla ha preso il sopravvento e per poco non ho rischiato di rivelarle qualcosa che potrebbe sconvolgere completamente la situazione e farmi vedere sotto una luce diversa.
Terrence, di ritorno dalla cucina, si siede accanto porgendomi un bicchiere di carta. «Dimmi solo una cosa e voglio che sei sincero. Hai o non hai fatto sesso con Eden?»
Bevo un sorso di caffè, sentendo addosso i suoi occhi scuri. Freme e io lo lascio in attesa, quel tanto che basta per fingere di non essere toccato dal fatto che lui abbia capito. Mi si legge in faccia la notte che ho passato insieme a lei prima di erigere un muro per tenerla lontana dal pericolo?
Se non voglio ricevere ulteriori domande dal resto dei miei amici, in particolare da Faron, seduto a poca distanza, mi toccherà impegnarmi e riprendermi alla svelta, mi dico. Ma adottare questo atteggiamento so già che non farà altro che rivelare che mi trovo in un fottuto incubo. Mi sono già esposto accettando di buon grado di torchiare quegli informatici.
«Allora?», solleva l'angolo del labbro all'inizio, poi però cambia postura e raddrizza la schiena come uno pronto a sparare. Non dimentico di certo la sua posizione nella squadra. L'addestramento che ha alle spalle e la mira precisa. Terrence colpirebbe il bersaglio più volte in un solo punto senza mai sbagliare un centimetro.
«Cosa vuoi sapere? Se l'ho scopata fino a farle urlare il mio nome, se le è piaciuto o se l'ho lasciata subito dopo come faccio di solito con Trisha o con ogni donna che mi porto a letto?»
Terrence coglie al volo il messaggio e brontolando qualcosa si solleva dal divano, allungando una mano sulla chioma rasata. Gratta nervosamente la nuca, come uno che sta per annunciare qualcosa di brutto. «Non voglio sapere se sei stato bravo a letto, ma se sei stato attento con lei. Me lo auguro», mordicchia il labbro. Si è affezionato. È evidente dal modo in cui mi sta parlando.
«Faron è furioso. Sappilo».
Strabuzzo gli occhi. «Come...»
«Amico, hai chiesto a tutti di venire in quel locale con la scusa di una rimpatriata per ricaricarci e casualmente è lo stesso posto in cui andranno Eden, tua sorella, Andrea e Jo. Escludendo le ultime due: o vuoi tenere tua sorella lontana dai guai, cosa plausibile visto il suo passato e il suo temperamento o vuoi marcare il territorio con Eden. Cosa che fai spesso ultimamente, anche se continui a trattarla male».
Non mi ero reso conto che tutti potessero notare questi cambiamenti nel mio comportamento, preso com'ero a mantenere tutto sotto controllo.
Sento salire in bocca il sapore della bile. «Io e lei non funzioniamo. Fine della questione. Adesso torna al tuo lavoro. E se vuoi un consiglio, fatti anche tu una sana scopata, stai sempre a rompere le palle».
Terrence vorrebbe ribattere e so che lo farebbe aspramente, ma Faron ci raggiunge e in breve questo spazio sembra restringersi.
Gli altri spariscono sparpagliandosi un po' ovunque, come se avessero appena captato aria di bufera.
Bastardi cagasotto!
Faron mi scruta senza sbattere le palpebre. Se ne sta immobile e cupo, facendomi salire nel profondo un forte senso di inquietudine. Non abbiamo mai litigato per una ragazza durante l'adolescenza, non lo faremo neanche ora.
«So cosa hai combinato», dice infine.
Vorrei sotterrarmi per il tono carico di delusione con cui mi ha appena parlato.
Anche se siamo fratellastri, avere la sua approvazione mi ha fatto sentire meno fuori posto in questa famiglia, specie dopo la scomparsa di nostro fratello. Adesso però davanti a me non ho il mio migliore amico. Sta per strigliarmi come un cazzo di adulto.
«Risparmiamoci il prologo, prosegui pure e dimmi quello per cui ti sei avvicinato armato di morale», ribatto diretto come sempre e pronto a difendermi.
Faron, ignorando il mio sarcasmo, non ha esitazione alcuna nel dirmi cosa pensa. «Ti sei comportato da coglione. Hai distorto l'attenzione dalla missione».
«La mia vita privata non ha niente a che vedere con...»
«Ne sei così convinto da non capire in cosa diavolo ti sei cacciato. Non solo ti sei approfittato del nostro ostaggio, ma le hai anche fatto qualcosa, perché il problema principale non è che tu ci sia andato a letto. Su questo avremo modo di discutere. Ma oggi, oggi Eden è di umore nero e sta combinando una serie di infrazioni perché ha chiaramente il bisogno di sfogarsi, di attirare l'attenzione. Joleen dice che il suo atteggiamento è cambiato drasticamente dopo avervi beccati sul divano, a dormire insieme», alza il tono. Gli occhi gli si accendono di furia. «Eden, non aveva ancora messo alla prova la sua pazienza. Non si era ribellata se non con le parole. Potrebbe fare qualcosa di stupido».
Non chiedo ulteriori spiegazioni. La immagino già furiosa e pronta a ribellarsi.
Faron non ha ancora finito. «E tu ci inviti nello stesso locale inventando una semplice scusa per coprire la tua gelosia e il fatto che non hai saputo stare al tuo posto, perché quella ragazza non la odi come vuoi far credere e non lo accetti. Dante, sai meglio di me che questa guerra contro i Rose è importante, che potrebbe dare una svolta decisiva alle nostre vite o distruggerle ulteriormente e cosa fai? Usi e getti l'unico jolly che abbiamo. È grazie alla sua presenza se riusciremo a ottenere vendetta e risposte, non dimenticarlo la prossima volta che avrai la brillante idea di avvicinarti a lei, prendere quello che vuoi e poi scaricarla».
Il fatto che sia lui a prendermi per uno stronzo bastardo mi ferisce. «Non ho usato Eden», ribatto con freddezza e irritazione. «È stata lei a venirmi a cercare e io non mi sono tirato indietro. Non ci trovo niente di male nell'essermi avvicinato, visto che se non ricordo male, in linea di successione è sempre stata mia», provo a convincere me stesso di non essere crollato di fronte a quegli occhi talmente tristi da farmi impazzire, di non avere pensato minimamente al nostro passato.
«Nessuno ti ha obbligato a non tenerlo nei pantaloni. Ma sarai tu a risolvere la situazione», dice brusco. «E lo farai».
Ricevendo una chiamata si sposta nell'altra sala, dichiarando concluso il primo round di rimproveri.
Sbuffo e dopo avere raccolto i fascicoli ed essermi fatto bersagliare dalle occhiate di chi si trova in postazione dietro gli schermi, di pessimo umore, me ne ritorno alla villa. Per oggi direi che ne ho abbastanza di lavoro e ramanzine.

* * *

Dentro la doccia provo a elaborare un piano per questa serata ormai alle porte. Ma tutto quello che riesco a pensare sotto il getto caldo, sono le sue labbra morbide sul mio capezzolo e i suoi denti a tirare il piercing; poi ancora la sua bocca intorno al mio cazzo e le sue dita fredde su ogni parte del mio corpo.
Mi ha fottuto. Gliel'ho detto quella notte che ci è riuscita.
«È una trappola mortale».
Quello che sento complica le cose. Sto scivolando in un'oscurità dove non mi sono mai avvicinato prima, tengo le mani protese ma non trovo nessun appiglio e perdermi è l'unica costante. Non riesco a trovare quella luce capace di tirarmi fuori.
Fuori dalla doccia, indosso una camicia nera, jeans dello stesso colore, aggiusto i capelli e dopo avere preso un lungo respiro, esco fuori dalla mia stanza lasciandomi distrarre dai pensieri.
Mi riscuoto non appena sento il ticchettio dei tacchi alle mie spalle. Le mie pulsazioni sono in netto aumento, la pelle comincia a ardere dal desiderio, da un istinto predatorio che ho sempre saputo domare ma che da quando l'ho vista si è sgretolato fino a farmi mettere nei casini.
Eden si è fatta strada senza permesso spazzando tutto l'odio che mi porto da sempre appresso.
Mi fermo sbarrandole di proposito la strada. Lei solleva il viso dai tratti delicati, ma quegli occhi...
Porca puttana, quegli occhi! Sono due biglie lucide dal colore unico, dal potere abbagliante. Occhi così ne incontri raramente, perché hanno la capacità di risucchiarti in un posto dove non è consentito sentirsi sporchi, incapaci, inadatti.
Lei mi guarda e non vede il disastro ambulante che sono. Io la guardo e vedo solo una tentazione dalla quale non posso più scappare.
Mi sto eccitando come un ragazzino alle prime armi, e solo guardando da così vicino da poterla sfiorare. Dentro la mia testa, infatti, si susseguono immagini oscene di quello che potremmo fare chiusi dentro una stanza qualsiasi di questa villa. Non penso a come l'ho trattata, alla gelosia che è affiorata come non era mai successo. Penso solo a noi due nascosti, a peccare in un mondo dove non esistono vincitori e vinti.
«Sei bella».
Non è la parola adatta per descriverla. Non è neanche lontanamente la somma di quello che ho davanti a me. Lei, il lungo abito di raso con le spalline sottili a fasciarle la vita, a mettere in risalto il seno rotondo e sodo grazie alla scollatura a triangolo, la schiena nuda, lo spacco fin sopra la coscia, quelle dannate fossette sul fondoschiena, i capelli raccolti...
«E tu sei ubriaco. Fatti da parte».
Stringo i pugni nascosti dentro le tasche dei pantaloni, incassando la rispostaccia.
Che cosa ordinerei di fare a quella lingua lunga!
Ma si sbaglia. Non sono mai stato tanto lucido e tanto sobrio. È solo l'effetto che mi provoca vederla e non poterla toccare perché è come uno di quei fiori in via d'estinzione. «Non ho nessuna intenzione di lasciarti passare».
Si agita. «Be', dovresti perché io non ho nessuna intenzione di ascoltarti o di credere ai tuoi complimenti», stringe le dita sulla borsetta, tenendo il labbro tra i denti bianchi e dritti. «Una volta mi hai definita una ragazzina dalla bellezza mediocre in cerca di attenzioni. Ieri hai ribadito il concetto dopo essere stato a letto con me e avere sminuito quello che tu stesso in prima persona hai ammesso di avere provato. Adesso ribadisco io una cosa, se non sai cosa vuoi, se non hai il coraggio di farti avanti, non mettere vincoli e sta' alla larga».
Osservo ammaliato quel rosso scarlatto in netto risalto sulla pelle bianca, creando l'immagine del segno che potrebbe lasciare sul mio petto con un bacio.
L'odore tenue del suo profumo alla rosa, raggiunge invece le mie narici, sferrando un ulteriore colpo alle mie parti basse.
Mi sento come una fiera a caccia della sua preda preferita.
Deglutisco e passo frustrato una mano tra i capelli. Eden segue il mio gesto e prova a scappare.
La mia reazione è talmente veloce e spontanea, da provocare a entrambi un brivido quando oso abbassarmi, afferrarla per le gambe slanciate, caricarla in spalla e correre dritto nella mia stanza. Il tutto dopo averle dato una poderosa pacca sulla natica. Forse la prima di una lunga serie.
«Mettimi giù!»
La voglio.
'Fanculo tutto!
Sono stanco di fingermi indifferente.
La metto giù incastrandola contro la parete. Le mani ai lati della sua testa.
Sembra si stia sforzando parecchio per incontrare il mio sguardo. E quando lo fa c'è diffidenza e qualcosa di simile all'odio a brillarle nelle iridi. Le dita affusolate serrano la presa sulla tracolla. Quando gliele fisso lei si ritrae di un passo addossandosi alla parete. Ma non fa altro che avvicinarmi, che attirarmi nella sua rete.
«So come ti senti».
È come se l'avessi derisa. «No. Tu non lo sai come mi sento. Non hai il coraggio di ammettere che io e te, siamo più simili di quanto pensi. Puoi anche negarlo, fingere che non ci sia stato niente, ma quel legame continuerà a esistere e quel filo non si spezzerà facilmente», pronuncia girandomi intorno, approfittando della mia momentanea distrazione per riuscire a divincolarsi. «Hai paura che potremmo stare bene insieme e ti ostini a mettere a tacere quella voce che ti dice che vuoi che ci sia un futuro. Che ci sia qualcosa di buono anche per te».
Raggiunge la porta.
Non se ne è accorta. Non si è accorta di essermi rimasta addosso come un marchio a fuoco. Ha bruciato la mia pelle, sta facendo un male cane e poi, poi starà lì sottopelle, resisterà a tutto. Ma se questo dolore è l'unico prezzo per riuscire ad averla nella mia vita, sono disposto a pagarlo. Perché è l'unica cosa vera che sto concedendo a me stesso dopo anni di rinunce e solitudine.
Le sfioro il polso e lei si ritrae ma non distoglie lo sguardo. «Devi capire che non sempre puoi avere tutto e che a volte devi scendere a compromessi. Soprattutto devi imparare che io non sono un gioco e non sono disposta a sostenere ancora i tuoi assurdi sbalzi d'umore perché mi feriscono», parla a ruota.
«Vuoi la verità?», faccio un passo nella sua direzione.
«Te l'ho detto anche l'altra volta, sarebbe un buon punto di partenza», ripete le stesse parole sospirando, rifiutando una chiamata in arrivo. Un gesto che non passa inosservato ai miei occhi attenti. Mi indica di avere la sua completa attenzione.
Ancora una volta l'afferro per un polso, con uno strattone l'attiro verso di me. Nel frattempo mi siedo sul bordo del letto e quando lei prova a parlare, la faccio stendere sulle mie ginocchia, a pancia in giù. Sollevo la gonna, le permetto di agitarsi, ma la mia mano senza preavviso e abbastanza forte, impatta sulla sua natica facendola urlare.
«La verità è che non riesco a toglierti dalla testa e ho una voglia maledetta di avvicinarmi e baciarti. Riprendere da dove abbiamo interrotto», colpisco di nuovo, poi ancora, fino ad arrivare a ben cinque schiaffi.
Lei ha smesso di dimenarsi, di minacciarmi; ora sta ansimando e muove il suo corpo contro le mie gambe come un gatto che fa le fusa.
Le accarezzo la natica arrossata e la sento sussultare, prepararsi al prossimo colpo.
L'eccitazione aleggia nell'aria come nube tossica ormai da quando siamo entrati, esplode nel mio corpo fino a fondersi nel suo strisciando come un serpente velenoso sottopelle.
Eden reclina lievemente il capo all'indietro, abbassando le palpebre. La punta rosea della lingua guizza fuori sfiorando la traccia rossa del rossetto.
La lascio andare e lei si ritrova a scivolare sul tappeto, in ginocchio, tra le mie gambe adesso divaricate. L'espressione a tratti confusa, a tratti eccitata, a tratti diffidente.
Abbasso la testa, attirato da una forza magnetica imprevedibile. Le sue dita sfiorano subito la mia guancia. Mi lascio accarezzare e bruciare dal suo tocco per una manciata di secondi.
Ogni mio muscolo entra in tensione, la mente pare svuotarsi in un baleno, e i sensi sono in allerta, carichi di brama. I miei battiti aumentano schiantando il mio cuore contro la gabbia toracica.
«Mi vuoi, ma non è abbastanza, Dante».
Sporgendosi mi imprime all'angolo del labbro un tenero bacio e mettendosi in piedi, facendo un passo indietro, si allontana lasciandomi in balia della confusione.

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