Capitolo 18
EDEN
Sono in soggiorno, teneramente appollaiata sul divano; alle spalle una montagna di cuscini morbidi e intorno una serie di confezioni dei più disparati snack poco salutari.
I film, mi hanno sempre tenuto compagnia, alleviato ogni malumore, fatto sentire qualcosa di diverso dalla rabbia, dalla frustrazione e dal senso di impotenza che da anni hanno invaso la mia vita, trasformandola in un orrore senza un'apparente fine.
Di solito, per il mio compleanno, mi piace chiedere in regalo vecchie videocassette. Niente orecchini o diamanti acquistati da qualche parte nel mondo. Niente collane o cimeli appartenenti a qualche principessa. Niente di così costoso.
Ovviamente per mio padre è qualcosa di obsoleto, poco produttivo, per cui non ascolta più di tanto e continua a fare di testa sua. Non ha capito che a seguito dell'incidente è stata l'unica via di fuga che ho trovato. Questo lo sanno i miei fratelli e lo sa persino la mia matrigna, Vanessa, la quale nel suo piccolo mi sta aiutando nel processo di guarigione.
Sento dei passi pesanti sul marmo, non mi volto neanche, so già chi troverò sulla soglia, in procinto di raggiungere il soggiorno e di riempirlo con il suo profumo costoso e la sua arroganza.
Continuo a giocare nervosamente con la collanina che ho al collo e a guardare distratta Notthing Hill. Una grossa ciotola di popcorn rimane in bilico e mezza vuota sul mio grembo.
«Continuerai a fissare lo schermo con quel vecchio film, fingendo di non avermi sentito arrivare o alzerai il culo per venirmi a salutare?», mi interrompe Darrell, con il suo tono franco, privo di anima.
Prendendomi il mio tempo, metto in pausa il film, mi volto a guardarlo solo per valutare attentamente ogni sua azione, specie quando replico in tono acido, per non farmi schiacciare come una miserabile pulce da lui: «Mi dispiace, ho dimenticato le ciabatte in camera e ho appena fatto la pedicure», sprofondo con la schiena e scostando la ciotola, abbraccio il cuscino.
Darrell rimane immobile sulla soglia. Non mi volto, so già che il suo sguardo mi sta trapassando. «Mi stai rispondendo con quel tono di proposito perché sai che non lo sopporto. Non continuare, non è il giorno giusto per farmi incazzare, fiorellino».
Sporgo la mano, afferro e caccio in bocca una manciata di patatine alla paprika. «Certo che no. Non lo è mai», biascico, nel tentativo di sembrare innocente. Torno a voltarmi e premo il pulsante play per continuare la visione del film.
«Sto aspettando. Vieni qui».
Smetto di masticare per un secondo, fingo di non avere sentito. Spero ci sia uno dei miei fratelli nei paraggi, magari Ace a difendermi. Non voglio restare da sola con lui.
Da quando mio padre lo ha accettato in famiglia, obbligandomi ad avere a che fare con lui, è imprevedibile. Siamo cresciuti insieme, vero, ma fino a un po' di tempo fa riuscivo a evitarlo. Adesso le cose sono cambiate e se ne sta sempre in agguato.
«Eden...»
«Che c'è?»
I suoi occhi fiammeggiano sentendo il mio tono insolente. So che dovrei fare attenzione, che dovrei portargli un po' di rispetto perché presto sarà mio marito, ma non riesco più a controllarmi. Non sopporto questa situazione, odio sentirmi braccata. Nessuno ha mai chiesto la mia opinione in merito e mi sento svilita.
Ci sono giorni in cui vorrei tanto usare il mio blog per chiedere aiuto. Desisto solo perché amo la mia famiglia. Ma quanto ancora riuscirò a sopportare? Non è stato abbastanza ciò che ho dovuto passare? E poi, chi mai verrebbe in mio aiuto?
«Ti ho detto...»
Non riesco a fermarmi. I popcorn volano fino a lui quando glieli getto in faccia con impeto. «Scusa, non ho sentito. Ero impegnata a guardarmi un cazzo di film senza rotture di palle. Ti ho già detto che odio quando qualcuno mi interrompe. Goditi i popcorn dalla soglia, stronzo».
So già di aver per fatto un errore quando la sua reazione non è urlarmi contro.
Darrell stringe i pugni avanzando a grandi falcate e io trattengo il fiato preparandomi a parare qualsiasi colpo.
«Eden?»
Mi riscuoto e per poco non do un pugno in faccia a Faron. Mi ha appena slegato il foulard intorno agli occhi. Li abbasso lentamente per mettere a fuoco.
Tengo ancora in grembo uno dei post-it di mia madre. Forse dovrei smettere di rileggerli o di portarmene sempre uno dietro come un orsacchiotto. Dovrei chiudere tutto in un cassetto, come ho fatto con i sogni e andare avanti. Giorno dopo giorno.
"Le ferite guariscono solo con l'aiuto di una persona pronta a dividere con te il dolore."
Rileggo, sfiorando i contorni netti creati dalla sua mano ferma.
Non è vero che le ferite guariscono, le dico mentalmente. Alcune rischiano solo di marcire, non troveranno mai una cura. Perché dove ci sono ferite troppo profonde c'è quasi sempre un dolore implacabile; l'urlo silenzioso di un cuore in frantumi che a stento trova la forza di battere ancora.
Lo sportello viene aperto provocando un rumore secco. Joleen balza fuori cominciando a stiracchiarsi sotto il sole ormai sul punto di sparire.
«Finalmente!», esclama dando uno schiaffetto sul didietro a Terrence, diretto sul retro del veicolo, facendolo lamentare.
Abbiamo viaggiato per ore, dapprima sul jet privato di famiglia, poi su questa enorme auto dai vetri oscurati. Ovviamente nessuno mi ha detto la destinazione quando siamo partiti. Sono stata bendata e così sono rimasta per tutto il tempo del viaggio in auto. Forse è stato questo a farmi venire gli incubi dopo tanto tempo: il buio, l'incertezza.
Avevo dimenticato la sensazione, il saporaccio lasciato dal passato.
Mordo forte il labbro e scendo anch'io, seppur traballante e ancora nauseata.
Faron sta già scaricando i bagagli, aiutato da Terrence. Ha notato il modo in cui ho sussultato quando mi ha toccata, forse anche come stavo reagendo. Per fortuna non ha fatto domande e io non ho agito in maniera azzardata.
Mi avvicino e faccio per prendere la mia valigia, Terrence mi ferma. «Lascia, faccio io. Sembri stanca».
«Sono solo un po' intontita. Non è bello viaggiare con gli occhi bendati».
«Sai che era necessario. A ogni modo, se ti va di parlarne, sono qui».
Annuisco senza ulteriori proteste, mettendomi da parte per farlo passare e affidare i nostri bagagli a due ragazzi pronti a svolgere il loro lavoro.
Approfitto per guardarmi intorno e rimango sorpresa. Una villetta in mattoni rossi a tre piani si staglia davanti a noi. Ci troviamo in un quartiere con altrettante casette sparse a una distanza tale da mantenere la privacy, sembrano fatte in miniatura.
Mi aspettavo un posto isolato. Lontano da occhi indiscreti. Un po' come la maestosa villa dei Blackwell.
Da un portico accogliente, con sedie a dondolo posizionate tra alte colonne e vasi di fiori penzolanti, la porta principale in legno con i vetri colorati si spalanca e Adeline, con un ampio sorriso, apre le braccia venendomi in contro.
«Finalmente siete arrivati. Com'è andato il viaggio? Oh, tesoro, hai l'aria così stanca e sei così pallida», mi dà una lieve strizzata a una guancia, in apprensione.
Terrence abbraccia Adeline. «È bello vederti, zia».
Adeline, notando il mio cipiglio, mi spiega: «Qui sono tutti come dei nipoti e figli per me. Lo stesso vale per te».
Faron è l'ultimo a salutarla. «Phil sarà contento di vederti. Non parla di yacht e viaggi con qualcuno da mesi», si concede una risatina e anche Faron, il quale le tiene un braccio intorno alle spalle con fare protettivo. «Sarò lieto di discutere con lui».
Sulla soglia, mi blocco, esitando un momento di troppo. Adeline se ne accorge e allontanandosi dalla stretta di Faron, prendendomi per mano, forse per rassicurarmi, mi fa entrare. «Sono rimasta dispiaciuta quando mio figlio è comparso senza di te. Adesso almeno toglierà il muso lungo che ha avuto per giorni. Sospetto tu gli sia mancata molto».
Pensare a Dante è come conficcarsi uno spillo sotto un'unghia del piede.
Vederlo così furioso dopo il momento che avevamo passato, è stato un qualcosa di inspiegabile. Come avere davanti un accumulo di tensione ed elettricità pronta a scagliarsi ovunque, generando solo caos.
Si è allontanato da casa ormai da più di una settimana. E quando stavo iniziando ad avere una sorta di routine, ecco che arriva Jo ad avvisarmi che avrei dovuto fare i bagagli senza discutere e che avrei dovuto reggere una bugia per aiutarlo, dato che la festa di compleanno era stata posticipata.
Ho solo avuto il tempo di comprare un regalo al piccolo Zac, il festeggiato. Mi auguro arrivi in tempo e gli piaccia.
«Le vostre stanze sono tutte al secondo piano», ci avvisa Adeline. «Rinfrescatevi. Vi aspetto a cena alle nove in punto».
Jo, Faron e Terrence si avviano. Io come un automa mi appresto a seguirli, ma Adeline mi ferma. «Tesoro, tu starai al terzo piano».
«Non doveva disturbarsi. Posso dormire con Jo e gli altri», provo a replicare.
«Perché mai dovresti condividere la stanza con Joleen o altri quando puoi stare con mio figlio. Non siamo mica all'antica».
Cosa? Per poco non mi metto a urlare.
Un terrore mi afferra e mi strattona strappandomi dalla tranquillità a cui mi stavo abituando.
Merda. Merda. Merda.
Fisso le scale. Jo e gli altri se ne sono andati. Sapevano cosa sarebbe successo? Perché non avvisarmi?
Seguo Adeline che continua a tenermi per mano come una che ha le ore contate. Saliamo insieme la scala in legno fino al terzo piano. Nel lungo corridoio, due sono le porte presenti e Adeline si ferma proprio davanti l'ultima in fondo. L'aria profuma di qualcosa di delicato, muschio bianco, presumo. Ma non riesco a cogliere nient'altro dettaglio o guardarmi intorno perché sono terrorizzata. Non so che cosa aspettarmi.
Non posso dormire insieme a Dante. Non possiamo condividere la stanza. Non dopo quello che ha abbaiato addosso a Joleen in giardino. Da un lato ha persino ragione. Non è la cosa migliore accogliere una Rose in casa quando un esercito di uomini armati, con ogni probabilità, mi sta cercando. Chiunque potrebbe fare la spia e io non voglio morti sulla mia coscienza. So già cosa significa perdere qualcuno.
Adeline non bussa nemmeno, apre la porta e mi lascia passare. «I tuoi bagagli sono già dentro. Rilassati un po', tesoro. Ci vediamo a cena. Non fate tardi, siete giustificati ovvio, ma potrete recuperare dopo. Abbiamo molto di cui parlare», con un sorrisetto malizioso si allontana.
Mi volto lentamente, ritrovandomi in un ambiente semplice. Le pareti sono di un comune bianco. I mobili in stile moderno sui toni del grigio con soprammobili che si alternano dal nero al grigio al bianco.
La stanza di un ragazzo incredibilmente solo, penso.
Rimango sulla soglia mentre la porta di fianco al letto scorre. Una nuvoletta di vapore si innalza mentre lui esce con un asciugamano bianco intorno alla vita.
Rimane padrone di sé. Dal suo volto non si intravede alcuna preoccupazione, nessuna reazione alla mia presenza. Ha una forza estrema, controllata. Ma so che è vigile, soprattutto attento a ogni mio passo. Ed è in maniera indiscutibile, bello. Di una bellezza che contemplo senza freni, perché cattura la mia completa attenzione come un magnete. Dante è un uomo di cui bisognerebbe stare a debita distanza. Lo so io. Lo sa persino il traditore del mio cuore.
Sul braccio sinistro ha un bellissimo tatuaggio fatto di anelli neri intorno al polso, foglie e rami si intrecciano verso la spalla insieme a spine, gocce di sangue e rose stilizzate. Abbasso lo sguardo e scorgo un altro tatuaggio che dai fianchi sparisce sotto il tessuto. Inevitabilmente noto la sua erezione.
Mentre lascio scorrere gli occhi su di lui, arrossendo, non riesco a non rivivere il ricordo della sua bocca sulla mia, delle sue mani intorno al mio corpo. Fremo e stringo le dita sul post-it ancora in mano. Prima di stropicciarlo, lo infilo nella tasca posteriore dello zainetto che lascio scivolare verso il pavimento.
«La tua roba puoi sistemarla in quell'armadio», pronuncia le sue prime parole dopo giorni di silenzio, lo fa con distacco, avvicinandosi al suo borsone lasciato su una poltrona posta davanti a una finestra alta dal pavimento al soffitto, accanto al caminetto spento. Dalla prima tasca tira fuori una maglietta, un paio di jeans; calzini e boxer dall'altra, tutto rigorosamente nero, muovendosi verso il letto.
Non avrà intenzione di...
L'asciugamano cade a terra e io mi volto dandogli le spalle con le guance in fiamme.
Sento un fruscio seguito da dei passi e quando penso che lui abbia finito, eccolo ancora quel brivido che mi attacca e prova a divorarmi dall'interno.
«Sei imbarazzata, uccellino?», il suo fiato è così vicino da farmi sussultare sul posto e battere il cuore a più non posso.
Non comprendo pienamente il modo in cui riesce ad ammaliarmi. Gli viene facile, forse non se ne accorge nemmeno o se lo fa di proposito, è maledettamente bravo. In questo momento il primo istinto sarebbe quello di darmela a gambe levate. Creare la giusta distanza e avere un vantaggio per potermi salvare. Ma non posso. Non riesco a saziarmi. Non riesco a fare a meno di strappare briciole da quei pochi secondi in cui ci troviamo a pochi respiri di distanza.
«Perché l'hai fatto? Il bagno è a pochi passi», replico quasi squittendo.
Mi sfiora la nuca, il suo fiato caldo mi scivola lungo la spina dorsale provocandomi uno spasmo. «Perché condivideremo la stanza».
«Allora?»
Con l'indice, accarezza la mia spalla spostandosi lentamente verso l'incavo raggiungendo il collo, costringendomi a inarcarmi lievemente. «Allora... tu fingerai di essere la mia donna e per nessuna ragione dovrai mostrare imbarazzo. Vedilo come un esercizio per quando saremo in mezzo alla gente e dovremo toccarci per compiacere qualcuno o non farlo insospettire».
Col cavolo!
«Bene, ricevuto. Allontanati adesso, posso praticamente sentire il tuo...»
Il suo ghigno, ancora una volta, mi sfiora la pelle nuda e brividi mi avvolgono con maggiore intensità. È come prendere la scossa. «Il mio cazzo? L'erezione che ho tra le gambe perché quando ti ho vista impalata sulla soglia con le labbra schiuse, me lo hai fatto diventare duro?»
«Sei un maiale», non commento oltre.
Raggiunge e con presa ferma afferra il mio collo premendomisi addosso. La mia schiena si schianta contro un muro di muscoli e il fiato mi sfugge in un verso soffocato dal frastuono che sento dentro appena sfrega l'erezione tra le mie natiche. Ogni secondo che passiamo così, è una martellata dritta al petto.
«Farai la brava, non è vero?»
Questo che cosa c'entra?
Mi ci vuole una buona dose di coraggio per voltarmi. Lo faccio lentamente, senza mai abbassare gli occhi sotto la sua cintura.
Inutile descrivere il modo in cui il mio corpo, sfregandosi al suo, reagisce.
«Pensi che io sia una sorta di terrorista? Non ho nessuna intenzione di fare del male alla tua famiglia. Poi, con quali mezzi? Mi tenete praticamente sorvegliata h-ventiquattro!»
«So che stai escogitando un piano per scappare e tornare dritta dalla tua famiglia. Non mi fido di te e ti tengo d'occhio. Mi preme ribadire che qui non sei a villa Blackwell e che faresti meglio a tenere a freno il tuo caratteraccio. Non voglio ci siano problemi».
Qualcosa in lui mi terrorizza. Non so spiegare con esattezza a quella parte di me che ne è talmente attratta da non accorgersi del pericolo. Forse è il modo in cui i suoi occhi mi entrano dentro e scavano a fondo senza mai smettere di tirare fuori ogni mia debolezza. Forse il suono della sua voce, così roca e calda, mentre lui non fa altro che allontanarmi con la sua freddezza. Forse è il fatto che sia forte, che sappia esattamente quello che desidera e come ottenerlo. O forse... è il mio cuore che impazzisce ogni volta che si avvicina e mi mette all'angolo, facendomi sentire senza alternative.
«Ti ascolti quando parli? Anzi, no, non rispondere. So già che lo fai. Ami il suono della tua voce», mi correggo. «Adesso puoi... staccarti? Sono reduce da un viaggio abbastanza lungo, puzzo e vorrei fare una doccia prima di ritrovarmi a tavola per la cena che tua madre sta gentilmente preparando, lasciandomi intendere che eventuali ritardi sarebbero motivo di ulteriore pettegolezzo».
Non si sposta di un centimetro. «Non me ne frega un cazzo, che parlino pure. In fondo è successo, ti sei persino strusciata su di me come una gattina».
«Solo perché mi hai praticamente attaccata come un polipo», getto fuori le parole per non permettergli di sovrastarmi.
«Ti sbagli! Ho solo preso quello che volevo. E anche se non lo ammetterai mai, lo hai fatto anche tu», replica, dandomi un buffetto sulla punta del naso. «Hai scarsa esperienza, è evidente, uccellino».
«Forse è per questo che in genere la gente mi evita. Be', oltre al fatto di essere una Rose, ho sentito dire che intimidisco».
Mi squadra soffermandosi sulla mia bocca. «Credo ci sia del vero. Sei una principessina colta, pura, che sa come rispondere a una minaccia. Questo potrebbe mettere chiunque in difficoltà», dice.
Sento affiorare il calore sulle guance e diffondersi ovunque per il complimento velato. «In realtà ho messo in difficoltà solo te».
Sbuffa. «Non esserne tanto certa, uccellino».
«Dici?»
Storce le labbra e cede. «In realtà... spero continuerai a farlo».
«Perché ti comporti così?». Ho bisogno di sapere. «Sei...»
«Vuoi la verità?», mi sorprende, interrompendomi.
«Sarebbe un buon punto di partenza», ribatto un po' giù di corda, stanca di discutere ancora con lui. «Sempre se sei in grado di essere sincero», aggiungo, massaggiando la tempia, avvertendo un principio di emicrania.
«Mi piaci», dice in fretta.
Sollevo la testa per guardarlo. Non sta mentendo. Non sta giocando. Non c'è incertezza. Non c'è quel sorriso sfacciato che usa sempre come scudo.
«Tu mi piaci. Mi piaci anche se sei talmente disastrosa da spaventarmi. Anche se sei così piena di spigoli. E non va bene, perché non può funzionare».
Non c'è via di fuga. Nessun posto in cui nascondersi e attendere che la tempesta nei suoi occhi si allontani senza travolgermi. Ho il respiro pesante, mi sento esposta e confusa e sto per perdere il controllo.
«Non mi credi», afferma, nessuna traccia del divertimento iniziale nel suo tono di voce basso, roco.
«Non ci riesco», ammetto, abbassando lo sguardo. «Quando si tratta di dimostrazioni, non sei di certo spontaneo e tendenzialmente cambi idea così rapidamente da mandarmi fuori di testa», oso spingerlo via. Riuscendoci, ne approfitto per entrare e nascondermi nel lussuoso bagno che odora di dopobarba e bagnoschiuma maschile. Il suo.
Il suo profumo che inalo come una tossica.
Mettendo subito da parte certi pensieri, strappo di dosso i vestiti e mi getto sotto la cascata calda dove provo a non pensare a quello che è appena successo.
Non posso e non voglio illudermi. Lui non cambierà. Tornerà a odiarmi.
* * *
Nel medesimo istante in cui sto avvolgendo il mio corpo con l'asciugamano sento la porta scorrere.
Dante entra come una furia, con addosso solo un paio di boxer.
Gli basta un solo passo e siamo ancora più vicini. Riapro gli occhi che per istinto ho chiuso, trovando il suo viso a un soffio dal mio. Provo una strana sensazione di calore su per il corpo, un vuoto allo stomaco, come se fossi appena salita sulle montagne russe quando appoggia i palmi grandi sulle piastrelle, ai lati della mia testa.
«Be', vorrà dire che mi impegnerò ancora di più», ringhia.
«Se hai intenzione di tormentarmi, scordalo».
Scuote la testa. «Sempre convinta che io sia il diavolo, vero?», sospira, protende la mano facendomi appena una carezza sulla guancia. Sposta una ciocca dei miei capelli bagnati dietro l'orecchio e leccando il labbro, continua: «Vedi, è solo divertente spingerti oltre quei limiti che ti hanno sempre imposto. Non hai esperienza e devi provare qualcosa, proprio come fanno tutti. O morirai senza avere vissuto, piena di rimpianti».
«Non capisci? Così mi metti in pericolo».
«Ti senti in pericolo?»
«Io...»
«È una domanda semplice, uccellino».
«No. È solo che riesci a trascinarmi facilmente e inizia a farmi paura non avere più alcun controllo».
Annuisce, riflettendo su qualcosa. Sembra persino colpito. «So cosa provi. Anche i diavoli devono fare i conti con le tentazioni».
«Quali?»
Non ne ho neanche il tempo.
Le sue labbra sulle mie sono come nitroglicerina. Un innesco che si aziona senza possibilità di essere fermato. Un proiettile esploso nel silenzio, che viaggia a una velocità disarmante e ti si conficca nel petto lasciandoti inerme.
La sua lingua si muove languida spingendo sui miei denti per farmi schiudere la bocca, per avervi accesso, poi sfiora in una carezza la mia, sfidandomi a non tirarmi indietro.
Inizia così un gioco pericoloso, capace di stuzzicarmi, di farmi sentire come se potessi accettarlo una sola volta e per sempre l'amore che sta cercando di offrirmi. Anche se ho sempre pensato che con un cuore difettoso come il mio, non sarò mai capace di ricambiare, in questo infinitesimale istante, ci sto credendo e sto cedendo. Perché mi sto rendendo conto che, pur avendo dentro miliardi di cocci avvelenati, pronti a tagliare, a ferire pur di proteggermi, sto provando qualcosa di profondo e insensato per questo ragazzo. Sto cominciando ad amarlo? Non ne ho idea. Ciò che so è che alla fine, uno dei due tornerà a casa con un pezzo in meno, con un cuore strappato a metà, con un'incisione perenne nell'anima.
O forse non tornerà mai più indietro perché sarà distrutto, suggerisce la voce nella mia testa.
«Aspetta», provo a fermarlo.
«Hai paura?», le sue dita in un lento e straziante movimento, discendono lungo la mia spina dorsale. «Hai la pelle come seta. Un profumo che mi ricorda tanto il sapore delle cose buone. Quelle che non smetteresti mai di desiderare, di gradire e volere più di altre», sussurra con voce roca.
Scende ancora più in basso ed è come fuoco e acqua, uno schiaffo e una carezza, un tormento e un sollievo; un concentrato di tensione, battiti e respiri che si spezzano in un secondo di tempo che dentro sembra durare troppo.
Ed è un qualcosa che mi scoppia nel petto, facendomi sentire incapace di poterlo gestire. Ma, al contempo, non voglio che smetta. Voglio provare ancora lo stesso piacere pochi istanti prima del dolore. Voglio cogliere l'attimo, pur sapendo quello che mi aspetta dopo.
«Se ti tengo lontana, è per il tuo bene e per non perdere del tutto la testa», confessa. «Io... cazzo se ti odio. Soprattutto perché riesci a farmi tutto questo», strappandosi da me, si allontana con aria cupa, facendomi sprofondare nella vergogna.
Una forte delusione si fa strada e, ancora una volta, mi ritrovo a combattere con le lacrime che cercano di riaffiorare e colpirmi al viso con il loro dolore.
Rimango forte. Mi aggrappo a una bugia: «Non succederà più», sussurro a me stessa di fronte allo specchio. «Lui non si avvicinerà più alla mia bocca. Non darà un'altra scossa al mio cuore, facendo crollare altre barriere. Glielo impedirò».
Mi vesto indossando un tubino verde petrolio, raccolgo i capelli umidi ed esco dal bagno trovando la stanza vuota.
Rilasso le spalle. Passano pochi minuti, il tempo di sistemare la valigia dentro l'armadio, e i miei sensi si riattivano quando qualcuno bussa alla porta.
Terrence, senza attendere, fa capolino. «Il capo mi ha mandato a prenderti. È ora».
Non replico. Sono troppo stanca per impelagarmi in qualsiasi conversazione. Terrence se ne accorge mentre scendiamo le scale. «Qualcosa ti turba?»
Nego. «Sono solo un po' nervosa. Sai, mangiare nella casa del nemico non è sempre una buona idea», abbozzo un sorriso e varco la soglia ritrovandomi in una sala illuminata e accogliente in cui i posti a sedere sul lungo tavolo in legno scuro, sono tutti occupati dai membri della famiglia.
Regina si alza e corre a salutarmi con un lungo abbraccio. «Adesso capisco perché ci hai messo così tanto», i suoi occhi castani scorrono lungo il mio corpo, facendomi arrossire. «Sei splendida. Vieni, siedi accanto a me».
«Tesoro, Eden deve sedersi accanto a tuo fratello», interviene Adeline. «Non si vedono da un po'».
Regina alza gli occhi al cielo. «Rilassati madre, volevo solo farla sentire a suo agio. Dante non è di certo saltato dalla gioia dalla sedia quando l'ha vista. Ha ancora quello sguardo paralizzato. Credo sia in stato di shock», fa notare, suscitando qualche risata e battutina sconcia da parte dei cognati.
Ancora più rossa prendo posto di fianco a lui, dopo avere salutato tutti, in particolare il patrigno, Phil.
Ovviamente non c'è alcuna somiglianza fisica con Dante. È un bell'uomo alto e distinto, con capelli castani che stanno diventando sale e pepe sulle tempie. Ha un bel sorriso, simile alla smorfia che fa Regina. Indossa una camicia azzurra su un paio di pantaloni cachi. È rilassato ed è molto loquace. Mi chiede subito del viaggio e se ho trovato accogliente la stanza. Se sono pronta a mangiare fino a scoppiare. Lo ringrazio, scambio qualche convenevole e quando lui cambia argomento rivolgendosi a Faron, mi preparo ad affrontare il resto della serata.
* * *
La cena ha inizio e per circa un'ora prosegue senza intoppi. Il cibo è davvero squisito, ma il mio stomaco si rifiuta e sono costretta a evitare qualche portata.
Mi isolo un po' quando Adeline chiacchiera con i figli, ignoro persino gli sguardi contriti delle sorelle di Dante. Chiaramente non sono la benvenuta.
Dante scambia il mio piatto con il suo vuoto quando sono tutti impegnati a ridere. A un certo punto, mi dà un colpetto sul braccio e io mi volto a guardarlo per capire cosa si aspetta da me. Ha detto chiaramente che non vuole problemi.
«Mia madre ti ha appena posto una domanda, uccellino».
«Mi dispiace, ero distratta...»
«Andiamo, dobbiamo ancora reggere questa farsa? È troppo principessa per cenare con noi», replica una delle sorelle, gettando la prima pietra e il tovagliolo sul piatto. Il marito le stringe la mano, ma i suoi occhi sono fissi nei miei. Non intende chiedere scusa.
«Miranda, smettila», la ammonisce subito il padre, mortificato. «È solo spaesata. Si abituerà a noi e ai nostri modi».
«O magari non lo farà mai. Insomma, sappiamo tutti chi è e che dopo la morte della madre non si è fatta...»
Vado nel panico. Tiro subito indietro la sedia provocando un rumore assordante. «La cena era squisita, Adeline. Ho bisogno di un m-momento», tremo. «Mi dispiace io...», balbetto affannata. Avvolgo il busto con le braccia e scappo fuori. Non voglio restare un attimo in più qui.
Dolore.
Solo dolore.
Si mescola ai ricordi di quel giorno ancora vividi nella mia mente, investendomi a ondate. Sono un fiume in piena, raffiche talmente violente da non essere in grado di anticiparle e gestirle. Non basterà una vita intera per dimenticare quell'orrore.
Il mondo gira e mi appoggio a una colonna strisciando quasi fino al portone principale. Lo spalanco, raggiungo e scendo il portico, faccio due passi lungo il viale pieno di ciottoli e svolto verso sinistra.
«Dovresti calmarti prima di dirigerti ovunque tu stia andando, uccellino».
«Calmarmi?», urlo come se mi avesse derisa. «È l'ultima delle opzioni in questo momento perché vorrei solo spaccare qualcosa».
Il cuore mi batte all'impazzata, talmente tanto che mi sembra di udirlo, nonostante mi fischino le orecchie.
«Okay, okay!»
Mi ritrovo a scuotere la testa, pronta a ignorare la sua voce che sta tentando di ammaliarmi.
«Rallenta!». Dante affonda le dita sul mio braccio e con una lieve spinta mi fa voltare. Sbatto contro il suo petto, sollevo il viso e ritrovo il suo talmente vicino da potere contate le minuscole venuzze sotto le palpebre dovute alla stanchezza. Non ha dormito? Ha avuto delle preoccupazioni? Perché diavolo mi interessa?
«Che succede?»
«Dovresti sapere tutto di me. Succede che non hai cercato di difendermi. Perché adesso sei qui?», lascio uscire la frustrazione con un tono stridulo.
La sua esitazione mi fa arrabbiare ancora di più. Perché in fondo, speravo in un suo gesto. Credevo fossimo una squadra. Ma ancora una volta mi sono solo illusa.
Che stupida!
«Dovresti tornare dentro, dalla tua famiglia. Come ha detto tua sorella, io non sono abituata a stare in mezzo alle persone dopo la morte di mia madre. Lo sanno tutti, no? Sanno tutti chi sono! Sanno tutti chi è stato!», le ultime parole mi escono più come singhiozzi, non come un'accusa.
«Uccellino, rientriamo. Inizia a fare fresco. La cena è finita grazie allo spettacolino di mia sorella Mira, che per inciso è una stronza. Ama stare al centro dell'attenzione e tu le hai tolto la scena».
Nego, rifiutando il suo tentativo di calmarmi. «Smettila di tormentarmi e lasciami qui».
«No!», sbotta. «Dio, sei così testarda!»
«Va' a dormire».
Esita. Dopo appena una manciata di secondi i suoi occhi si incupiscono. «Be', perché non approfittarne per unirti anche tu?»
Non me ne dà il tempo, abbassandosi mi solleva per le ginocchia caricandomi in spalla, trascinandomi al piano di sopra.
Lotto con tutte le mie forze per respingerlo e quando ci riesco, mi allontano da lui abbastanza da non permettergli di toccarmi ancora.
Dante chiude la porta a chiave e vi si appoggia.
E adesso?
♥️
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