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Capitolo 17


DANTE

Una brezza fredda lambisce la mia pelle. Le mie orecchie vengono raggiunte dal suono stridulo di due gabbiani che a pochi passi, su uno scoglio, si contendono qualcosa. Alle narici, insieme all'odore salmastro, mi arriva un altro profumo, rose mischiato a qualcosa di dolce. Continua a scaldarmi la pelle infreddolita.
Mi pietrifico nell'accorgermi di avere un corpo minuto premuto addosso. È una sensazione strana, diversa dalle volte in cui dopo una serata di alcol e sesso, svegliandomi accanto a una donna, mi sono allontanato scazzato lasciandola lì a dormire o l'ho cacciata per restare solo.
Ho sempre avuto strane regole, una delle quali è quella di non legarmi mai a qualcuno. Solo divertimento. Niente di serio. Il mio stile di vita non mi permette di avere legami a lungo termine.
Muovo impercettibilmente la testa e la mia guancia sfiora una chioma setosa. I muscoli mi fanno male. Devo avere dormito nella stessa posizione in cui mi trovo attualmente e devo essermi addormentato in seguito a quei... baci.
Con una mossa degna del più abile equilibrista, mi volto, spalanco gli occhi e lei è vicina. La guancia premuta sulla mia spalla e un braccio intorno al mio addome, addormentata.
Trattengo il fiato. Torno con la mente alle ultime ore e sono le nocche violacee e scorticate a farmi rimanere con i piedi ben saldi su questo yacht, che oscilla lievemente.
Sono stato io a portarla qui. Sono stato io a tirarla fuori dal panico che mi ha fatto dare di matto in quella sala piena zeppa di pezzi di merda, mio padre compreso, e poi ho fatto quello che avevo promesso a me stesso di non fare: ho ceduto, l'ho baciata. L'ho fatto a lungo, incapace di smettere e quando abbiamo avuto le labbra stanche, ci siamo seduti qui sul divano a finire il gelato, e in silenzio fissando il tetto di stelle sulle nostre teste, siamo caduti nelle mani di un sonno senza sogni.
Sposto il suo braccio per alzarmi e si riscuote. «Che succede?», chiede con voce impastata dal sonno; riportandomi sul jet privato, la notte in cui l'ho rapita. Quando non ha dato di matto.
Dopo appena pochi istanti ricorda anche lei dove siamo e quello che è successo, perché si scosta guardandomi spaesata. I suoi occhi rimbalzano preoccupati dai miei allo yacht, raggiungono la riva, il ponte con la passerella a metri di distanza.
Rendendosi conto della posizione troppo intima, prova ad allontanarsi. Ci guardiamo per una manciata di secondi come due animali sorpresi dai fari di un'auto in corsa. Tempo in cui prendo una decisione per entrambi, deciso a essere ancora un egoista, le circondo la vita con un braccio e la riporto al punto di partenza: contro il mio petto.
«Non pensarci nemmeno», l'avverto. «Non provare a scappare o la tua punizione sarà ben peggiore quando ti prenderò», tento di non ringhiarle contro, incazzato che voglia farlo. «Davvero non hai imparato niente dalla prima volta?»
Con lei è difficile non agitarsi all'istante, specie quando alza il mento. «E sei certo che mi prenderai», non lo domanda. La sua è più una sfida a ribattere.
Piccola insolente!
«No. È sicuro che lo farò», stringo un po' di più la presa e all'orecchio le sussurro. «Poi ti sculaccerò».
«Sei proprio... arrogante e perverso», butta fuori gli insulti, stringendo i denti.
Ammiro la sua forza. In maniera incomprensibile, più il tempo passa, più il rischio che riesca a risvegliare qualcosa di sopito dentro di me diventa reale. Lei in qualche modo riesce a vedere attraverso gli squarci, le toppe che ho dovuto cucirmi addosso per proteggere quei buchi, per medicare quelle ferite, per sanare la mia anima.
«Non ti ho sbavato addosso, spero», balbetta, con le guance sempre più rosse, cambiando argomento.
«No. Ti sei solo addormentata e hai parlato nel sonno. La mia camicia è salva», replico, inspirando il profumo dei suoi capelli. Il mio cuore si placa. Fisso la distesa d'acqua davanti a noi, accarezzandole pigramente la nuca. Mi piacerebbe attorcigliare le dita intorno alla ciocca rosa, sentire ancora il suono che emette quando ansima per l'eccitazione.
«Spero di non avere detto niente di compromettente».
«Solo che avresti preso a schiaffi, cito testuali parole, il mio bel faccino da egocentrico».
«Be', mi sembra proprio una cosa da me», si giustifica negandomi il suono della sua risata. Non mi occorre guardarla per sapere che è arrossita ancora di più. Non dice nient'altro. Il suo silenzio mi sussurra tanto.
«Sei prevedibile anche nel sonno».
«Tu al contrario sei scontato».
Anche se cerca di nasconderlo, noto comunque il modo in cui si sta torturando mentalmente.
«Dimmi a cosa pensi?»
«Provo uno strano senso di... invidia».
Corrugo la fronte, colto di sorpresa. «Invidia? Per cosa?»
«Non per cosa, per chi ha la possibilità di averti senza barriere». Quando il suo viso si addolcisce, un sapore acre si fa strada dentro di me. Spinto dalla confusione, mi sollevo ricreando la giusta distanza, facendole capire che tutto quello che è successo non ha un significato e non si ripeterà. Che non sono un porto sicuro per lei.
«Sarà meglio rientrare».
Mentre avvio il motore dello yacht, mi domando come sia potuto accadere. Sono stato stupido, avventato. E lei...
I miei occhi nel voltarmi la cercano. Se ne sta seduta. Subito dopo il mio rifiuto, ha raccolto le ginocchia al petto e da allora non fa altro che fissare con aria assente le onde create dallo scafo. I capelli le si scompigliano in faccia, ma non se ne prende cura.
Il desiderio che sento per Eden è così tanto da sopraffarmi, da indurmi a odiarla. Nonostante ciò, so che lei è e sarà sempre una forza magnetica inspiegabile. Un segno inevitabile su questa corazza. Sarà sempre lì, tra un dolore e un livido. Sarà un brivido permanente.
Deglutisco a fatica. «Cazzo!», ringhio a denti stretti.
Sono sempre stato come una sostanza che non porta benefici. Sono tossico. Faccio male. Ma non avevo messo in conto che anche lei potesse essere un'arma. È stata veloce. L'ha fatto prima che me ne accorgessi. È riuscita a strisciare in silenzio, a insinuarsi a fondo e sottopelle, mentre cercavo di non entrarle nelle vene.
Raggiunto il molo l'aiuto a scendere. Cerco di toccarla il meno possibile anche se vorrei metterle le mani dappertutto. Enver ci attende sul punto di attraccaggio con un ampio sorriso. Ha proprio il tipico sguardo da guardia che con gli anni ha accumulato esperienze di ogni tipo da non sorprendersi neanche più di fronte certi episodi. Ma il caso umano in questione sono io, quindi è più che evidente la sua curiosità, data dal fatto che non ho mai portato nessuno sullo yacht.
«Buongiorno, Eden», la saluta. «Passato una buona serata? Dormito comoda sullo yacht? Dante si è comportato bene?», indaga.
Sulle labbra di Eden, che ho sentito premute sulle mie e ho assaporato quasi tutta la notte prima di mandare a puttane ogni cosa, affiora un sorriso timido. «Salve, signor Enver. Non so, sarà stata l'aria o la comodità del divano, ma ho dormito bene sotto le stelle», risponde ricordando il suo nome, parlando con lui con rispetto e educazione. Dettaglio che trovo affascinante. «Non l'avevo mai fatto prima».
Enver assottiglia gli occhi. «Ma come il divano, potevate usare il let...», si ferma notando che sto per intervenire e raddrizzando le spalle sfodera uno dei suoi sorrisi da poker. «Era una bella serata in effetti. Bene, se non vi serve più lo yacht vado a fare un giro. Sarà una splendida giornata. Spero di rivederti presto», bacia la mano a Eden e si allontana fischiettando dopo avermi rivolto un cenno di rispetto.
Mi incammino in direzione del parcheggio. Lei sale in auto senza pronunciare una sola parola. Trovo il suo mutismo nei miei confronti disarmante, anche se sono certo che è colpa del mio atteggiamento. Ma non possiamo essere amici e non saremo niente. Perché lei è una Rose e io non lo dimentico. Non dimentico quello che mi hanno strappato e mai restituito.
Accendo lo stereo lasciando diffondere un po' di musica classica dalle casse. Lei appoggia la tempia al finestrino e non se ne lamenta mentre ritorniamo alla villa.
Mi fermo per pochi minuti a comprare la colazione per tutti in un locale non molto distante da quello del signor Bee. Di ritorno in auto, trovo Eden pacificamente addormentata.
Gli angoli della mia bocca vengono stuzzicati dalla visione che ho accanto. Mi ritrovo a sorridere e ad avanzare con le dita verso la sua guancia delicata per scostarle i capelli dal viso.
Non posso, urlo a me stesso in un comando immediato. Chiudo la mano a pugno stringendola e premendola sulla bocca, rendendomi conto di essere ridicolo. Posiziono la colazione sui sedili posteriori e schiacciando un po' di più il piede sull'acceleratore spero di raggiungere la villa il prima possibile. Eppure continuo a volere torturare me stesso, e a un certo punto rallento, le sfioro davvero la guancia.
«Tutti pensano che io sia uno stronzo. Lo sono. Non lo posso negare, è un dato di fatto. Ma nessuno si chiede perché», fisso la strada, le curve, la distesa di acqua da un lato, la terra baciata dal sole dall'altro. Alberi, pietre e silenzio.
«A dispetto di quanto si possa immaginare, nessuno mi ha mai insegnato la parola affetto o a saperlo dimostrare in maniera spontanea e aperta. Piuttosto sono stato cresciuto a ingannare, a comprare tutto ciò che può essere manipolato in fretta. Sono abile a prendere, meno a cedere quello che mi appartiene. Tu, adesso, sei mia. Sei mia e devi imparare a convivere con questo fardello. Devi imparare ad accettarmi, anche se sono come una scheggia. Anche se taglio e faccio male». Mi sento un codardo, eppure non riesco a smettere di parlare.
Sono letteralmente stravolto. I muri dietro cui ho nascosto a lungo le emozioni, rischiano di crollare perché continuo a sentirmi colpito da un'attrazione incontrollabile a cui non sono abituato. Perché lei?
«Nessuno ha la possibilità di avermi senza barriere, perché sono come un muro. Una pietra talmente incastrata da non poter essere più estratta, né scalfita», aggiungo ripensando alle parole che mi hanno smosso dentro ogni genere di sensazione.

* * *

Le tapparelle delle vetrate, quando arriviamo alla villa, sono ancora tutte abbassate e c'è una bellissima quiete, quasi come se non ci vivesse nessuno. Non vorrei abbandonare questo posto, ma so di non appartenervi e che finita la missione venderò la proprietà e troverò qualcosa di mio. Mio soltanto, lontano da Seamus.
Il cielo è una miscela di colori che virano dal rosa alba all'azzurro turchino. Le guardie appostate hanno appena concluso il loro turno e stanno aspettando i colleghi per il cambio.
Dalla porta principale, in tuta da corsa, esce Faron. Gli auricolari alle orecchie e lo sguardo vigile. Sta per iniziare l'allenamento, ricordandomi che dovrei farlo anch'io.
Mi si avvicina a passo deciso e senza neanche salutare mi dà una poderosa spinta facendomi barcollare all'indietro. «Hai idea di quello che hai fatto? Sei praticamente sulla bocca di tutti e sparisci senza lasciare tracce con la figlia di un nemico che la famiglia vuole morto. Che tu vuoi morto. Stavamo pensando al peggio fino a quando Enver non ha mandato il tuo messaggio rassicurandoci».
Mi appoggio allo sportello, affatto sorpreso dalla sua reazione e da quella che mi aspetto dal resto della famiglia o dalle persone che erano presenti alla festa. «Dovete smettere di portarla ovunque. È come una mina vagante su cui tutti vorrebbero mettere un dito per vedere se esplode. Vi siete esposti, Far. Avete voluto fare il giochetto di Dallas per pavoneggiarsi ed è finita con una rissa che non ho iniziato di certo io. Io, che ho solo coperto il vostro errore e ancora una volta ho pensato alla famiglia. Ma non succederà più. Non è una mia priorità. I miei progetti sono altri e questo lo sapete benissimo», passandogli il sacchetto con la colazione giro intorno all'auto, apro la portiera e mi piego sulle ginocchia. Non appena mi accorgo del modo in cui Eden dorme, esito, poi picchietto l'indice sulla sua spalla. Anche se vorrei solo prenderla in braccio e lasciarla dormire ancora un po', dato che ha tanto l'aria di averne bisogno.
Non riposa abbastanza? Non le piace il letto o la sua stanza?
Quando ha detto a Enver di non avere mai dormito sotto le stelle mi si è stretto un po' il cuore, dal fastidio. È evidente il fatto che non abbia vissuto affatto. In minima parte ho pregustato una certa soddisfazione nel sapere di essere stato l'artefice di una nuova esperienza. Il primo in assoluto.
Uccellino si riscuote in fretta sbadigliando come un cucciolo di leone. «Uhm», emette, facendo contrarre i miei muscoli facciali e qualcos'altro in mezzo alle gambe. «Mi sono addormentata anziché scappare, incredibile. A quanto pare guidi bene e io sono davvero una stupida», bisbiglia.
«Riesci a scendere dall'auto e ad arrivare alla tua stanza senza farti male?»
Annuisce dandomene dimostrazione. Nell'uscire dall'auto però barcolla. Accorgendosi di Faron spalanca le palpebre e raddrizza subito la schiena, mettendosi sull'attenti. Come se si aspettasse di essere nei guai e sul punto di ricevere una punizione.
Lui le si avvicina, senza perdere tempo. «Stai bene?», chiede, stringendole le spalle, facendomi venire voglia di prenderlo a schiaffi.
«Sì», risponde indecisa saettando da me a lui, per capire la ragione del suo comportamento. «Vado a farmi una doccia e una dormita. Niente feste per il resto della settimana o proverò a scappare. Buona giornata», si avvia alla porta. Sulla soglia, prima di entrare, gira sui tacchi. «Grazie, per quello che hai fatto», mi dice con quel tono di voce basso, tenero come lo è quel suo cuore da uccellino.
Gratto la nuca e accendo in fretta una sigaretta, ignorandola.
Mio fratello porta dentro la colazione. Quando mi raggiunge di nuovo sembra sorpreso e al contempo pieno di domande. «Allora? Non hai nient'altro da raccontare?»
Non cedo nessuna informazione di fronte allo sguardo indagatore di Faron, il quale non coglie affatto il suggerimento e non sembra minimamente intenzionato a tagliare corto.
È un osso duro quando si tratta di strappare fatti dalla bocca delle persone. Adora torturare psicologicamente le sue vittime. Infatti, incrocia le braccia al petto e prende a guardarmi con un sorrisetto beffardo, come se fosse quasi certo che a breve riuscirà a farmi cedere. Abbiamo già giocato in questo modo e non ha mai funzionato, non con me.
Con un sospiro cerco di recuperare una parvenza di normalità. Quello che è successo sullo yacht, rimarrà sullo yacht. Spero che uccellino non canti facilmente con Joleen, la quale non aspetta altro che torturarmi per essere stato vulnerabile. Il pensiero per poco non mi fa avanzare verso la porta aperta per minacciarla, freno ogni istinto per non dare a mio fratello ulteriori munizioni.
«Non so cosa hai fatto, ma sembrava serena», conclude, arrendendosi.
Lecco le labbra riuscendo a sentire ancora il suo sapore. La parte bassa del mio corpo si tende al ricordo di quel morso che per poco non mi ha spinto a osare di più, a essere grezzo. «Aveva solo bisogno di allontanarsi da tutto. Far, lei non vuole delle feste o litigare con donne gelose, vuole mimetizzarsi tra la gente e essere una ragazza normale. Sappiamo bene che non lo sarà mai, ma non invischiatela più in certi giochetti orchestrati da nostro padre, perché la prossima volta qualcuno potrebbe farsi molto male. Per quanto voglia che la sua famiglia soffra... lei non...», sospiro, stringo in pugno lo Zippo; lo tengo lungo il fianco, scuotendo il pugno una sola volta per scaricare la tensione prima di accendere e spegnere la fiamma. «Niente più feste per una settimana, proprio come ha detto. Non ho nessuna intenzione di rincorrerla».
Faron mi stringe la spalla. «Vedo che te la cavi bene con lei. Spero non ti arrabbierai più tardi e farai lo stesso», con un sorrisetto, infila le cuffie alle orecchie e si mette a correre.
«Arrabbiarmi per cosa?», chiedo. «Che hai in mente?»
Non ottengo risposta. Spengo la sigaretta ed entro in casa. Superato il corridoio al piano di sopra, mi avvio nella mia stanza. Con la mano sulla maniglia indugio un momento prima di aprire la porta.
Nel medesimo istante sento dei passi in fondo al corridoio. Uccellino mi si para davanti come una Dea tentatrice. Il corpo avvolto da un accappatoio rosa pastello, i capelli bagnati legati da un asciugamano verde acqua e ai piedi quelle dannate scarpe pelose, ridicole. Almeno non ha indossato le sue preferite: quelle di 'SpongeBob'.
I miei occhi fanno su e giù. Lei come sempre arrossisce. Non mi ero accorto di essere rimasto così tanto fuori a parlare con Faron.
«Stavo per scendere di sotto, ma visto che ho incontrato te... non è che potresti prestarmi un po' di dentifricio? Il mio è finito insieme ad altri prodotti e dovrei andare a fare un po' di scorte».
In un'altra situazione, questa potrebbe essere solo una scusa. Mi indurrebbe a farle battute sconce. Ma Eden è seria e si sta chiedendo perché esito.
Riscuotendomi, lascio la porta aperta e vado in bagno. Prendo dal cassetto il tubetto di dentifricio che ho sempre di scorta e ritorno verso il corridoio ma lei è qui, è appena entrata e sta guardando tutto come una critica d'arte. I suoi occhi si posano sulle tele finite all'angolo della stanza, sul divano dove ho sistemato due borsoni con le mie attrezzature e poi ancora verso il letto, sul bordo gli indumenti stirati e in ordine.
Le porgo il dentifricio. «Tienilo pure. Ordinerò a Terrence di accompagnarti a prendere quello che ti serve, ma dovrai fare scorta. Sono certo che non gli dispiacerà e vi divertirete».
«Grazie», morde il labbro e chiudo gli occhi deglutendo, avvertendo un principio di tachicardia. «Ti serve altro?»
«No, no. Chiederò io a Terrence di accompagnarmi a fare acquisti, non c'è bisogno che glielo ordini. Non è uno schiavo».
Emetto un grugnito più che una risposta. In qualche modo il fatto che preferisca la sua presenza alla mia mi fa ingelosire. Sarebbe opportuno chiedere a me qualsiasi cosa. Ma è anche vero che non mi sono proposto e non le ho ancora spiegato come funziona.
«Adesso... vado», esce dalla stanza indietreggiando, il tubetto stretto al petto, il labbro tra i denti come se avesse ancora qualcosa da dire, poi però si chiude la porta alle spalle lasciandomi solo.
Passo le mani tra i capelli e cammino avanti e indietro come un leone.
Non va bene. Non va per niente bene. «Porca puttana!»
Per togliermi di dosso questo bollore, mi dirigo in bagno. Piastrellato da grossi blocchi color pervinca, ceramiche pregiate per i due lavandini con al di sopra l'enorme specchio rettangolare con la corniche piena di intagli, le luci poste sulle travi a illuminare tutto. La doccia quadrata, ampia dal vetro trasparente dove mi fiondo lasciando scorrere tutto quello che ho vissuto insieme all'acqua.
Sfinito, dopo la doccia e dopo essermi soddisfatto da solo, mi lascio cadere sul mio comodo materasso addormentandomi all'istante.

* * *

Un ronzio basso proveniente da qualche parte del letto mi sveglia. Mi sollevo a metà busto, afferro il telefono e controllo per ben due volte, colto dal panico, perché sullo schermo compare il contatto di mia madre.
Non chiama mai senza una ragione valida.
«Pronto?»
«Tesoro, non dirmi che ti ho svegliato», cinguetta solare.
Mi rilasso. Se ci fosse stata un'emergenza non mi avrebbe neanche fatto aprire la cornetta. Decido di mettermi sul sicuro: «Che succede? State tutti bene?»
«Ci manchi».
Sorrido.
La mia famiglia, mio malgrado, sarà sempre il mio tallone d'Achille.
Mia madre, per fortuna, ha ritrovato subito la rotta in seguito alla sbandata con quel figlio di puttana di Seamus. Per un litigio con l'uomo che reputerò sempre il mio vero padre, perché mi ha cresciuto nonostante tutto, stava per rinunciare alla felicità. Cosa che non è successo e che le ha portato tanto amore da dare e da ricevere.
Mamma non parla molto di quel periodo, so che deve essere stato doloroso per lei. Da una parte è anche per questo che le sto lontano.
Gratto la nuca. «Papà? I miei nipoti?», sondo ancora il campo.
«Il solito vecchio brontolone. Ti manda i suoi saluti. I tuoi nipoti non vedono l'ora di averti a casa per qualche ora. Da quanto non li vedi?»
Massaggio la fronte posando i piedi sul pavimento fresco. Questa mi è nuova. Mio padre non è di certo l'uomo più espansivo del mondo, non mi manderebbe mai i suoi saluti. Non è mai stato il tipo d'uomo da dichiarazioni d'affetto in pubblico, tantomeno verso il figlio più piccolo, quello non suo. Ma è sempre stato una di quelle persone presenti tutte le volte che ho avuto bisogno di un sostegno, di un consiglio, di aiuto. Non posso dire lo stesso di Seamus. Quest'ultimo ha sempre e solo preteso da me e non è mai stato abbastanza.
Decido di tagliare corto. Sto iniziando a sentirmi a disagio. C'è qualcosa che non torna. «Senti, come mai hai chiamato? Non è un buon momento. Inoltre sai che quando sono...»
«Non fare il bullo con me, Dante. Non provarci nemmeno. Non sono uno dei tuoi fratelli o una delle donne che ti porti a letto e con cui puoi fare il gradasso. Ti ho fatto nascere e ti conosco. Inoltre sono cresciuta in mezzo a uomini bastardi e privi di morale, per usare queste scuse contro di me. So cosa è bene o un male quando si lavora in certi posti o per certe persone. Una madre non può chiamare suo figlio
Mi stiracchio mettendola in viva voce. Mi ha appena strigliato per bene. «Certo, ma avevamo un patto», le faccio notare, infilandomi una maglietta e un paio di pantaloncini di una tuta.
Sbuffa. «Sono mesi che non ti vediamo. E visto che sei sempre così impegnato da evitarci, io e tua sorella Regina, abbiamo colto l'occasione e deciso di venirti a trovare».
Sollevo gli occhi al cielo. «Mamma non vi sto evitando. Sai bene che quando sono qui con Blackwell e lavoro non voglio distraz...», mi fermo. Agguanto il telefono portandolo all'orecchio. «Che significa che avete deciso di venirmi a trovare?», mi agito.
Mamma ridacchia. «Che dovresti scendere in giardino ad abbracciare la tua mamma».
Credendo che sia uno scherzo dei suoi, mi avvicino alla finestra alzando la tapparella. I miei occhi vengono accecati dalla luce del giorno e quando li sposto al di sotto, in giardino, rimango di stucco. Mia madre sorride e solleva la mano agitandola, facendomi cenno di scendere.
Riaggancio e pronto a dirgliene quattro, con il cuore in gola, esco con un po' troppa foga dalla stanza.
L'impatto non è dei migliori, ma non riesco a fermarlo quando Eden mi sbatte addosso facendomi barcollare all'indietro.
Rischia di cadere e le afferro la vita tirandola al mio petto in modo tale da farle scudo con il mio corpo.
Trattiene il fiato, proprio come sto facendo io e commette l'errore di sollevare il viso. Il mio è troppo vicino per potere evitare di inalare il suo profumo o di sentire il calore delle sue labbra.
Circondo con un braccio la sua schiena inarcata per intrappolarla. Agguantando la sua guancia, quando prova a voltarsi, la faccio girare nella mia direzione. Il pollice prende ad accarezzarle il labbro inferiore per poi passare verso l'arco di Cupido. Eden trattiene il fiato, non riesce a fare lo stesso con i brividi che le attraversano la pelle. Anche se sono soddisfatto, so che sta odiando ogni nano-secondo di questo istante. Mi spingo più vicino, lei scivola sotto il mio corpo, il tessuto del prendisole che indossa le si raccoglie sulle cosce quando piega involontariamente le ginocchia. Non mi ferma neanche quando abbasso la testa e affondo il viso nell'incavo del suo collo, prendendo ad annusarle la pelle.
Profuma di paradiso. Ha l'odore di un piacere proibito per questo povero diavolo che c'è in me.
«Uhm... come cazzo è possibile? Hai sempre un buon odore», mormoro con voce roca e profonda, che la eccita e le provoca un altro brivido.
D'istinto, preme i palmi sul mio petto, provando a ritrarsi, a spingermi a rifiutarmi in qualsiasi modo. Questo non fa altro che alimentare la mia stupida voglia di primeggiare su di lei, di farle capire chi comanda. «Vuoi scappare? Non abbiamo già messo in chiaro che non puoi farlo? Arrenditi a me, uccellino».
Non riesce a parlare. Deglutisce a fatica chiudendo gli occhi. Stringo la mano sulla sua coscia strappandole un gemito. «Hai paura di me».
«No», soffia la parola, scrollando la testa.
Annuso ancora la sua pelle e nell'abbassarmi spingo i fianchi. Le sue palpebre sfarfallano e le sue dita premono sulle mie spalle.
Gesù, è una sensazione così bella.
«Solo di quello che potrei fare per te», confessa con un filo di voce.
E in questo istante me ne accorgo. Rimango spiazzato dalla bellezza delle sue iridi, del colore acceso dal desiderio.
Il contatto con ogni parte esposta del suo corpo è piacevole. Così tanto da ricevere una scarica di calore dietro l'altra su tutto il corpo.
Incontrare il suo sguardo adesso è una condanna. Vengo assalito da una morsa velenosa che mi prende proprio sotto al costato. In un punto sensibile per la mia anima. Tutto si mescola, mi confonde, annebbia razionalità e sicurezza, rendendomi debole. Debole e in balia del dolore, della gioia, del rimorso, del disprezzo, della tenerezza.
Sono così tante emozioni generate da una sola persona.
Eden Rose è una minaccia. Un pericolo che non posso evitare.
Strofino la punta del naso sul suo, la barba contro le sue guance e quando si protende quasi timidamente per averne ancora, le stampo un bacio sulla fronte. «Non farai mai niente che tu non voglia».
Mi sollevo, l'aiuto a fare lo stesso e mi allontano con una grossa erezione in mezzo alla gambe, su di giri. «Fa' attenzione quando cammini, uccellino».
Fa un passo indietro come se si fosse bruciata. «E tu cerca di non uscire come un rinoceronte dalla stanza. Che cos'è questa fretta?»
Mi irrigidisco non appena analizzo la situazione in maniera razionale.
Cazzo!
«Abbiamo visite. E tu faresti bene a tenerti a debita distanza dal piano di sotto».
Massaggia la nuca. Ha dolore?
«Joleen mi ha appena svegliata, avvisandomi che c'è qualcuno che vuole conoscermi. Non so chi sia, mi auguro non un'altra trappola delle vostre. Ieri ho decisamente fatto il pieno per il resto del mese».
So che mia madre conosce Eden. È sempre rimasta in disparte, lontana dal mondo corrotto in cui Blackwell ha preteso di crescermi, ma ha le sue fonti.
Non ho ancora compreso la ragione della sua visita così improvvisa. Poi mi ricordo le parole di Faron e vorrei inveire contro lo stronzo che mi ha teso una trappola. Sapevo che avrei dovuto seguirlo e indagare di più.
Gratto la guancia sentendo il fuoco divamparmi nel petto. «Bene, accomodati pure», sibilo tra i denti. «Ma non dire che non ti avevo avvisata».
«Perché? Chi c'è di sotto?»
Non le rispondo e lei superandomi si incammina sculettandomi davanti.
Ha un sedere sodo, gambe da ballerina e un atteggiamento che farebbe invidia a qualsiasi principessa del mondo.
Scendiamo l'una accanto all'altro e raggiunta la vetrata a separare il soggiorno dal giardino, ci fermiamo entrambi al grido di mia madre.
Strilla come solo lei sa fare e mi corre in contro saltandomi addosso. Dio solo sa come non abbia inciampato su quelle zeppe alte che indossa. Avvolge il mio collo con le braccia, premendo ripetutamente la bocca sulle mie guance neanche fossi un bambino. «Il mio ragazzo!», ripete un paio di volte mettendomi in forte imbarazzo.
Indossa pantaloni neri larghi sulle gambe esili e stretti in vita e una maglietta leopardata. Sul collo le sue collane d'oro e occhiali da sole sulla chioma rossa a mo' di cerchietto. Come sempre è ben truccata e odora di lavanda. «Ciao, madre».
Mi stringe il viso. «Non aspetterai che sia dentro una tomba per venirmi a trovare», mi rimprovera. «Hai messo su altra massa», dice soddisfatta, continuando a darmi dei colpetti sull'addome. «Sei solido come un toro. Proprio come lo era tuo nonno».
Mia sorella la spinge con un colpo di fianco e mi abbraccia lasciandosi sollevare da terra.
Regina è la più piccola di tre sorellastre e la più tenace. Indossa sempre indumenti sportivi e ha una passione sfrenata per le moto da corsa. I miei ancora non lo sanno, ma Regina ama le donne. È la nostra piccola ribelle di casa dal cuore d'oro.
«Sei più alta di qualche millimetro», le strizzo la guancia.
Mi guarda storto, con i suoi occhi scuri, tipici della famiglia alla quale non appartengo, dato che sono l'unico ad avere ereditato iridi verdi. Molla un pugno sul mio braccio. «E tu sei più coglione di sempre», ghigna poi ficca i pugni dentro le tasche dei jeans guardando Eden come farebbe qualsiasi etero in astinenza sulla faccia della terra.
«Adeline, Regina, vi presento Eden», interviene Jo dal giardino, raggiungendo le due rimaste a bocca aperta nel trovarsi Eden davanti.
Come biasimarle. Ha una bellezza ultraterrena. Non se ne accorge nemmeno di essere stata baciata da qualche Dio che l'ha mandata sulla terra per rendere la vita di un comune mortale difficile. Indossa un prendisole rosso con lo scollo a barca a piccoli volant sul davanti. Infradito portate come se avesse ai piedi un paio di Louboutin.
«Piacere».
Mia madre l'abbraccia e le stringe le guance dopo avere memorizzato quello che indossa e ogni sua parte del corpo come una maniaca. «Sei meravigliosa», sorride e un lampo attraversa le sue iridi castane.
Regina interviene prima che possa farla accasare con qualche nostro cugino ancora senza peli sul petto. «Non fare caso a mia madre. Le piace mettere in imbarazzo chiunque. Sono Regina».
In risposta nostra madre interviene. «Mia figlia non sa quello che dice. Mi dispiace dare l'impressione sbagliata...»
«Oh, no no, si figuri. Adoro il suo outfit ed è davvero bella, signora Adeline», risponde educata Eden, facendo sciogliere ulteriormente mia madre.
Aggrotto la fronte. È visibile il suo malessere, qualcosa che all'improvviso la raggiunge facendola intristire. Ma rimane dritta e assume quel tipico atteggiamento programmato che più volte le ho visto mettere in atto.
«Questa?», mamma indica la maglietta. «L'ho presa a un outlet un po' di tempo fa», minimizza.
«Non pensavo che negli outlet si trovassero grandi firme. Ha buon gusto. Le sta davvero bene, valorizza le sue forme. Sicura che sia la madre e non la sorella di Dante?»
Mia sorella coglie qualcosa dal mio sguardo attento perché sorride sorniona. Le circondo le spalle con un braccio avvicinandola, prima che possa sparare qualche battuta sconcia. «Sai che adesso dovrai tenere mamma lontana da lei?», le bisbiglio, notando il modo in cui quelle due adesso stanno chiacchierando.
«Perché? Non state insieme?», alza il tono.
Intorno non vola una mosca. Io e Eden guardiamo subito Joleen, la quale sbattendo le palpebre, in una tacita scusa, ci suggerisce l'enorme bugia che deve avere lanciato fuori prima del nostro arrivo.
«È per questo che siete qui?»
Mamma avvampa, le guance le si notano maggiormente, più che con lo strato di fard. «Mio figlio ha una ragazza, anzi moglie e vengo a saperlo per vie traverse da niente po' po' di meno che la moglie pettegola di Curtis. Dovevi proprio sentirla e sentire quel farabutto. Come vuoi che reagisca? Joleen ci ha solo confermato che vivete insieme e che andate d'accordo».
Le guance di Eden da pallide diventano rosse. «C'è stato un malinteso, noi non...», balbetta indicandoci. «Io ho solo...», cerca il mio aiuto, annaspando. «Io sono...»
«Ma certo che non siete ancora sposati. Conosco mio figlio e scappa sempre da ogni genere di responsabilità quando si tratta di affari di cuore. Non ho creduto alle parole di Curtis, ho retto la bugia proprio come ha fatto Seamus. Be', questa è stata una sorpresa a dire il vero, quello stronzo non fa mai niente senza un tornaconto. A ogni modo volevo vedere personalmente con i miei occhi chi ha aiutato mio figlio a togliersi dai piedi quel viscido pezzo di merda e quella arpia», spiega senza trattenere il disgusto, strofinando i palmi sulle braccia di Eden, sempre più nel panico.
Intervengo allontanandola da mia madre. «Eden, non avevi un impegno? Farai tardi».
Lei coglie al volo la via di fuga che le sto offrendo e accetta il mio aiuto. «Dovrei uscire per quegli acquisti di cui ti parlavo stamane, ma...»
«Niente ma. Dov'è Terrence?», la interrompo.
Mamma segue il nostro scambio con attenzione.
Eden sorride affabile, si protende come se non volesse fare sentire il resto della conversazione, ma so che la sua è solo una tattica. «Non voglio essere scortese con tua madre e tua sorella. Se avessi saputo della loro visita con largo anticipo avrei annullato i miei programmi».
Regina se la ride sotto i baffi, cogliendo al volo il nostro tentativo di toglierci dall'impaccio, mentre mia madre come sempre ha bisogno di un disegno per capire quando le si mente spudoratamente.
È sempre stata molto ingenua e incredibilmente buona. Non voglio che venga ferita, non da questa bugia detta forse a fin di bene da Joleen per coprire la reale ragione della presenza di una Rose in casa. Anche se purtroppo tutto è partito da Curtis. Quella boccaccia larga prima o poi me la pagherà.
«Non devi annullare niente per noi, tesoro. Siamo piombate qui senza neanche riflettere. A breve ce andremo, abbiamo un po' di strada da fare. È stato un piacere conoscerti e sapere che mio figlio non è più solo e ha qualcuno a guardargli le spalle mi rasserena».
Eden è visibilmente a disagio. Ma agisce prima ancora che possiamo fermarla. Abbraccia mia madre. Lo fa con naturalezza mentre gli occhi le si annebbiano di dolore. «È stato un piacere conoscerla signora Adeline».
Mamma si scioglie e le accarezza la schiena premendola a sé come se avesse avvertito ogni sensazione trasmessa da uccellino. «Ci rivedremo sicuramente. Questo week-end ci sarà la festa di compleanno di nostro nipote, Zac. Siete invitati».
Mi gelo sul posto. «Eden non può...»
«Volentieri!», ribatte Joleen. «Ci saremo sicuramente».
Dio, aiutami. Fulminami. Abbattimi.
Regina mi tira in disparte prima che possa esplodere. «Che succede?»
«Perché siete qui? Voglio la verità!»
«Mamma aveva nostalgia così ha contattato Faron che le ha detto dove trovarti».
Guardo nostra madre. «Sai che non è come sembra con Eden», le confesso.
Mia sorella mi dà una lieve spallata. «Ah no? Siete usciti dalla vetrata e avete continuato a spalleggiarvi, a lanciarvi sguardi indecenti. A proposito, è bella la figlia di Rose», mi strizza l'occhio. «Ho sempre saputo che prima o poi l'avresti conquistata».
Notando che mi sono irrigidito prosegue: «Per questo sei nervoso? Lei non è suo padre e mamma non cambierà la sua opinione. Sai che quando le piace qualcuno emette quel verso con la gola e niente può farle cambiare idea. L'ha approvata», detto ciò, raggiunge mamma allontanandola da Eden, senza darmi la possibilità di dirle la verità.
«Si è fatto tardi. Dobbiamo andare, madre».
«Vi aspettiamo», ripete in fibrillazione quest'ultima.
Salutano con lunghi abbracci e chiusa la porta mi lascio sprofondare sulla sedia più vicina. Recupero lo Zippo e ci gioco nervoso. Massaggio poi i pugni. «Non ci andremo!», dico furioso.
«Dante», Joleen prova a farmi ragionare.
Le punto il dito contro. «Stanne fuori, non interferire mai più nella mia vita», sbotto.
«E ripeto, non ci andremo. Non voglio la figlia di un assassino tra i miei cari. Un conto è a una festa, uno è in una casa dove non esiste odio. È troppo», nervoso vado a cambiarmi e mi reco al poligono, dove spero di scaricare tutta la tensione accumulata nelle ultime due ore sparando su un cazzo di fantoccio di carta. E soprattutto di dimenticare quanto mi sia piaciuto baciare il mio nemico e di aver desiderato che non lo fosse.

♥️

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