Capitolo 1
EDEN
"Amare significa non dovere mai avere paura".
La frase pronunciata da mia madre anni fa e trascritta su uno dei suoi tanti post-it che attualmente tengo in mano come una reliquia dal valore inestimabile, mi appare inutile, incoerente, inappropriata. Perché nonostante io sia stata preparata già da tempo a questo evento c'è una parte di me che non lo accetta e, oltre a essere nervosa, mi sento spaventata.
Ma non posso arrendermi tanto facilmente. Non posso permettere che mi facciano questo.
Vanessa, la mia matrigna, entra in camera con un sorriso dolce, impregnando l'aria del suo profumo costoso allo zucchero vanigliato e fiori.
Mi affretto a nascondere tra i cuscini alle mie spalle la piccola busta trasparente a tenere ben conservato ciò che ne è rimasto del ricordo di mia madre.
«Dobbiamo parlare. Sono preoccupata per te».
Indossa un tubino aderente turchese e tacchi vertiginosi ai piedi.
È bella da fare invidia a chiunque. Ha un portamento da regina. Non dice mai la cosa sbagliata, non alza il tono della voce, non disubbidisce, salvo casi eccezionali. E cosa importante: si accorge quando qualcuno sta male.
Trovandomi seduta di fronte alla finestra, si ferma esitante, soppesando la mia espressione distante e infelice.
Sfodero un sorriso finto. La mia tipica faccia da poker, quella che ho costruito nel corso degli anni con instancabile tenacia. Un muro a tenermi lontana dalla paura.
«Mi dispiace darti questo peso. So che hai altro a cui pensare, ma non è niente. Starò bene».
Vanessa, non convinta, avanza ulteriormente fino a prendere posto accanto a me. Stringe la mia mano e sospira. «Non possiamo tornare indietro, amore mio», dice, intuendo il flusso dei miei pensieri agitati come mare mosso.
«Credi che non lo sappia?», replico con un tono alquanto brusco, lasciando uscire tutta la frustrazione che ho cercato di contenere in queste ultime ore, provando a sottrarmi dalla sua presa carica di affetto e apprensione. «Sappiamo entrambe che è soltanto l'ennesimo capriccio di mio padre, quindi non provare nemmeno a giustificarlo».
Gli occhi scuri e a mandorla della donna che mi ha cresciuta e mi sta accanto sin dai miei undici anni, provano a rassicurarmi. Ma non c'è niente che lei possa fare o dire per frenare lo sconforto che rischia di avvelenarmi la mente e farmi reagire a questo momento in modo diverso.
«Dovrei essere felice. In fondo è il giorno del mio compleanno. Eppure lo sto odiando con ogni fibra del mio corpo, perché so che a distanza di qualche anno lo ricorderò come il momento più brutto della mia vita. Non voglio alcun regalo o una stupida festa piena di estranei sorridenti, Vanessa. Voglio che sia solo un brutto sogno, per potermi svegliare e rabbrividire per pochi istanti anziché una vita».
Vanessa, impietosita, mi abbraccia baciandomi la testa. «Tuo padre non ti affiderebbe mai a qualcuno di cui non si fida. Sai che non può più prendere tempo. È ora di pagare il debito. Hai sempre saputo che questo giorno sarebbe arrivato, Eden. Ti abbiamo preparata. È anche per questo se siete cresciuti insieme».
Scuoto la testa. Lei non sa... non conosce davvero l'uomo al quale sono stata promessa sin da bambina.
Darrell è uno schifoso animale. Vive per compiacere il padre ed è un bastardo con la B maiuscola.
So già che mi farà soffrire. Appassirò solo un attimo dopo avere infilato quel dannato anello al dito e avere pronunciato quelle tre parole che attende impaziente per vincere: "Sì, lo voglio!".
«Eden...», prova a redarguirmi. Nel suo tono è intrinseco un ammonimento. Ha notato la mia espressione contrariata, la testardaggine che sta per uscire fuori.
Se potessi, come una bambina capricciosa, pesterei volentieri i piedi sul pavimento.
«Capirà. Sono sua figlia non una merce di scambio!»
«Tesoro... lui non cambierà idea. Su questo è sempre stato parecchio inamovibile. Neanche i tuoi fratelli hanno accettato la questione, ma si sono arresi. Be', dopo essersi beccati un bel po' di botte e punizioni».
Stacco la mano dalla sua e per potermi proteggere mi avvolgo il busto con le braccia. «Non lo posso fare. Io... non lo amo. Per favore, puoi almeno impedire che avvenga proprio stasera? Non voglio tutti quegli estranei intorno ad assistere. Pensavo a qualcosa di intimo e non di umiliante, se proprio dovrò sottomettermi», cambio tattica.
Vanessa morde le labbra grandi e rosse per trattenere le parole sbagliate. Sa cosa le sto chiedendo di fare, ma non vuole mentirmi o tradire la fiducia di mio padre. Lo ama troppo. «Parlerò con lui e troveremo sicuramente una soluzione».
L'abbraccio, pur essendo convinta che non farà niente del genere e che mi sta solo dicendo ciò che ho bisogno di sentire per tenermi buona.
«Grazie», fingo anch'io di abboccare all'amo. Tanto ho preso già la mia decisione. Tentare questo ultimo atto di pietà era solo un modo per prendere altro tempo, necessario per scappare.
Dandomi una lieve pacca sulla schiena nuda, Vanessa mi lascia andare. Prima di alzarsi mi fa una carezza sulla guancia. «Sei molto bella», indica il vestito che indosso. «Darrell sarà un uomo fortunato e con il tempo imparerai ad amarlo».
Con queste parole ho piena conferma di essere sola.
Quando se ne va, mordo il labbro, controllo l'ora sul mio orologio da polso preferito con il cinturino in pelle e sposto gli occhi intorno alla stanza. Al mio spazio personale, la mia gabbia. Mi soffermo sull'armadio, sull'anta semi-aperta e grazie alla quale si intravede un borsone.
Quello che si è accumulato dentro durante il periodo in cui sono rimasta zitta ad aspettare il momento giusto che non arrivava mai, tutt'a un tratto riemerge in superficie come un'eruzione spingendomi a lottare per una sola boccata d'aria. Sufficiente a farmi sentire di nuovo viva. Perché quando stai a lungo in un posto che non senti tuo, ciò che ti circonda a poco a poco ti consuma. E quando ti accorgi di non potere più trattenere altra tristezza, altra paura, altra rabbia; quando rischi di guardare allo specchio solo uno spettro della persona che volevi essere, allora non ti resta che reagire. Anche se sai che farà male.
«Stanotte», prometto a me stessa, con la consapevolezza che la mia matrigna non riuscirà a fermare le idee imprenditoriali di mio padre. Il patto stipulato anni fa con il suo più caro amico, dove il pagamento previsto sono sempre stata io.
«Mio padre vuole Darrell in famiglia e togliermi l'amore che merito? Che se lo prenda pure», borbotto. «Quando scopriranno il mio piano, probabilmente sarò già lontana».
* * *
La festa è un turbinio di foto, gente mai incontrata pronta a sorridermi; persone a raccontarmi aneddoti di incontri che non ricordo perché ero troppo piccola quando ci siamo visti per la prima volta. Qualcuno osa persino nominare mia madre, rendendo questo giorno ancora più orribile.
Dall'altra parte del giardino Darell sorride affabilmente a mio padre, dialogando con i miei tre fratelli come un uomo che si trova a proprio agio, nel suo ambiente.
Indossa un abito costoso Yves Saint Laurent a fasciargli alla perfezione il corpo costruito dall'allenamento intensivo in palestra; l'altezza ereditata dal bisnonno gli attribuisce altro fascino. Peccato che tutto in lui sia costruito come i Lego. Ha una di quelle bellezze che appare maligna all'istante.
Tracanno l'ennesimo bicchiere di champagne e rientro in sala appoggiandomi a una delle grosse e alte colonne portanti. Inspiro ed espiro un paio di volte calmando a stento l'affanno e il tremore che rischiano di farmi arrestare il cuore.
«Dovresti essere in mezzo agli invitati a goderti la tua festa di compleanno. Perché ti nascondi?»
Sussulto, per poco non urlo dallo spavento. Assorta com'ero a recuperarmi dalla nebbia non mi sono accorta di essere stata seguita. Con la mano al petto sollevo gli occhi su Darrell.
In tutti questi anni, per farmelo accettare, ho sempre cercato di dire a me stessa che non siamo nemici. Ma ogni mio tentativo è stato vano perché il suo carattere non ha mai cozzato con il mio. Siamo come il sole e la luna, letteralmente gli antipodi.
«Non mi nascondo», mento.
Inarca un sopracciglio perfettamente arcuato, le ciglia scure a incorniciare occhi di un tenue azzurro a stonare in mezzo a tutta quella crudeltà sfoderata sul suo volto freddo. Darrell ha un viso cesellato, una sfumatura abbronzata sulla pelle e le labbra piene di morsi con qualche piccola macchia più scura. Una ruga gli si forma all'angolo dell'occhio sotto il quale ha una minuscola voglia.
Anche se attualmente non lo mostro, in realtà sto tremando dentro. Lui ha la capacità di terrorizzarmi.
Ho dovuto imparare a mostrare poco di me agli altri. Cosa non facile. È sempre stato un mio difetto non riuscire a fingere. Eppure ho dovuto costruirmi una fortezza intorno per non mostrare a nessuno le mie fragilità. Ho dovuto trattenermi, non piangere, nascondere gli occhi rossi, gestire ansia e rabbia che continuano a sferrare pugni sullo stomaco e sul petto. Usare gentilezza in un mondo carico di arroganza, presunzione e odio. Ho perso un pezzo di me stessa per salvare la mia anima dalla distruzione totale. Pur mostrandomi perfetta, non lo sono. Sono così difettosa da non riconoscermi quasi più.
«Allora mi stai evitando», piega di lato il capo. «Chiaro», finge di riflettere. «Sei anche nervosa».
Nego, prima che possa agire o infuriarsi. «Affatto», sorrido sfiorandogli appena il braccio. «Eri impegnato e non volevo disturbare. Mi conosci e sai che questo è un po' troppo per me. Avrei preferito qualcosa di semplice e meno... caotico».
Non si lascia ammaliare dai miei occhi dolci, dalle mie continue scuse, dal mio gesto necessario a tenerlo buono, a non insospettirlo del disgusto che al contrario provo. Strizza lievemente la palpebra e le narici guizzano come quelle di un toro pronto a prendere la rincorsa.
«Mi chiedo sempre come un coglione se cambierai mai idea su di me».
«Darrell non...»
La sua mano si sposta repentinamente verso il mio viso mettendomi a tacere. I suoi occhi subdoli sondano l'ambiente e non trovando testimoni: agisce.
Afferrandomi per il mento, mi avvicina al suo viso. I suoi muscoli solidi si scontrano con le mie curve morbide. Il suo alito caldo al liquore scivola sulla mia pelle come ghiaccio. La sua forte colonia, un misto di agrumi, violenta le mie povere narici provocandomi la nausea, che mi assale in un istante. Ma la paura fa a brandelli ogni mia certezza iniziale.
Non riuscirò mai a batterlo. Darrell ha la capacità di fiutare una menzogna e di strappare la verità in un batter d'occhio.
«So quando menti. Ma ti dirò una cosa, piccola e bella Eden, non m'importa. Quando sarai mia, farò tutto quello che voglio con te», sussurra contro il mio orecchio stringendo la presa. «Ho qualche idea da mettere in pratica. Finalmente la smetterai di prendere tempo, di inventare scuse, di trattarmi come se fossi un semplice garzone ai piedi di tuo padre o indegno per te, e mi porterai rispetto. Soprattutto farai tutto ciò che ti chiederò e sarai la mia fidanzata perfetta», afferra con i denti il mio lobo graffiandomi lievemente la pelle. «Preparati, staremo bene io e te».
Tirandosi indietro, liscia la giacca e come se niente fosse, quando qualcuno passa, finge di accarezzarmi il viso come un fidanzato devoto e innamorato, portando la mia mano sulla sua cravatta. Protendendosi mi posa un casto e viscido bacio sulla guancia, un po' troppo vicino alle labbra. «Poche ore e sarai mia. Aspetto questo momento da anni. E stanotte ho intenzione di godermelo con o senza la tua benedizione». Accarezza lascivo la collana che porto al collo seguendo il ciondolo che oscilla in lungo fino allo sterno scoperto. Mi guarda come se fosse già il mio padrone. Poi le sue dita si insinuano sotto la stoffa sfiorandomi il seno destro, accarezzandolo. Le sue dita sono calde, audaci, ma raggiungono il mio corpo regalandomi solo la brutta sensazione di avere qualcosa di viscido addosso.
Darrell non smette di palparmi neanche quando riesco a circondare con la mano il suo polso. Emetto un verso strozzato quando mi pizzica il capezzolo. Gli sfugge un grugnito insieme a quel sorriso fatto di perversione e risentimento.
Lo guardo con disprezzo. Mi piacerebbe attorcigliare la cravatta intorno alle dita e tirare, vederlo annaspare. In un moto di furia e stanchezza appena allenta la presa lascio andare un sibilo: «Vedremo chi dei due vincerà, lurido stronzo», asciugo la sua impronta dalla pelle con un gesto secco della mano.
«Che cosa hai detto?»
Mi libero dalla sua stretta quando prova a bloccarmi per un polso tirandolo dietro la mia schiena, premendomi al suo corpo per farmi sentire quanto lo sta eccitato tutto questo. «Ho detto che vado dai miei fratelli. Ti unisci a noi?»
Non li apprezza. Forse perché ne ha paura, dato che in più di un'occasione stavano per farlo a pezzi. Vuole soltanto una grossa fetta del mio patrimonio e brama il mio corpo.
«Forse dopo», schiarisce la voce quando due degli invitati si fermano a poca distanza fingendo di non guardarci. So che hanno notato tutto. Ma nessuno di loro farà la spia. La colpa in ogni caso ricadrebbe su di me.
Nel mondo normale basterebbe un solo pettegolezzo e tutto andrebbe in fumo. Ma qui, qui è diverso. E lui... è troppo astuto perché ciò avvenga. Ha lavorato tanto per questo giorno.
Approfitto della sua momentanea distrazione per fuggire, anche se con le lacrime sul punto di fuoriuscire per l'agitazione.
«Dio, non riuscirò mai a scappare con lui che mi sta con il fiato sul collo».
Sento un nodo nel petto e un bisogno di allontanarmi in silenzio dalla voragine che si è creata nel tempo e in cui si sono accumulate cose e demoni che non lasciano scampo quando escono allo scoperto e attaccano togliendomi il respiro.
Guardandomi alle spalle, anziché raggiungere i miei fratelli, riuniti con alcuni amici e divertiti da qualsiasi argomento stiano discorrendo, miro al labirinto.
Esco di corsa dalle porte spalancate della terrazza che dà ampio accesso al giardino della villa. Intorno risuona il ritmo delle chiacchiere, delle risate e della musica. L'aria calda mi morde la pelle, penetra attraverso la stoffa sottile di seta del vestito lungo di un lilla chiaro, i seni messi in evidenza dallo scollo eccessivamente vistoso su cui ognuno dei presenti ha puntato gli occhi almeno per un secondo.
Mi sembra di non riuscire a mettere a fuoco quello che mi circonda. Mi allontano dal sentiero illuminato e cerco riparo. Cammino in fretta seguendo l'accelerazione del mio respiro, il palmo sul polso che continua a bruciare nel punto in cui Darrell ha stretto forte la presa. Mi fermo solo quando nel mio posto preferito mi accorgo di non essere sola. Vi trovo una cameriera in pausa, intenta ad accendere una sigaretta.
Vedendomi arrivare, mi sorride affabile. «Non dovresti essere a festeggiare come tutti gli altri?»
«Sinceramente avrei preferito qualcos'altro a tutto questo».
Aspira una boccata. I miei occhi seguono attratti ogni suo movimento aggraziato, femminile.
È una bellissima donna. Gli occhi piccoli di un lucente color castagna. Le linee del corpo sinuose, nonostante l'altezza media.
Non ha l'aspetto di una cameriera. C'è qualcosa di strano in lei. E continua a fissarti, interviene il mio cervello.
Le sorrido, scacciando la paranoia. «Sono Eden. La festeggiata».
«So chi sei, Eden Rose. Mi chiamo Joleen».
Ripetendo il mio nome, in qualche modo, mi ha fatto intendere di sapere molto di più sul mio conto.
Un altro motivo per allontanarti, interviene ancora la voce dentro di me.
«Bel nome!»
Sorride mostrando una punta di orgoglio. «Lo dice sempre anche mia madre, dopo un bel giro di bicchieri e qualche tranquillante».
I miei occhi si abbassano e inevitabilmente corrono verso l'uscita del labirinto, in quella lapide commemorativa dove sono incise poche e semplici parole insieme a un nome. Quello della donna che oggi avrebbe dovuto essere qui.
«Va tutto bene? Vuoi che chiami qualcuno, magari il tuo ragazzo? Sei pallida».
Con le sue domande è come se stesse sondando il campo. O forse stasera sono troppo agitata da vedere pericoli nascosti ovunque.
«Per favore no!», dico con un po' troppa foga. Arrossisco mordendomi l'interno guancia. «Sto cercando di tenermi alla larga proprio da lui. Ma ho i minuti contati prima che mi scovi», mi si ritorce lo stomaco al pensiero di Darrell che mi mette un anello al dito e mi trascina dentro la prima stanza libera per fare di me ciò che vuole. Non ha mai nascosto i suoi desideri. Mai cambiato idea. Sono diventata una sorta di sfida. Un animale particolarmente selvatico da domare.
Mi abbraccio. «Hai mai la sensazione di non avere scelta?», le domando d'impulso.
Schiaccia la cicca della sigaretta dentro un bicchiere sputando fuori l'ultima boccata di fumo. «Sì», dice pensierosa.
«Eden!»
Interrompendo qualsiasi discorso con Joleen, mi scuso e raggiungo mio fratello.
Ace Rose, un gigante dagli occhi affilati di un bellissimo colore ambrato, mi sorride aprendo le braccia, pur continuando a scrutare alle mie spalle.
«Parli con la servitù adesso? Siamo così noiosi?»
Mi ci rannicchio senza indugio nella sua stretta. «È stata carina con me».
«Ha un viso familiare. Ti ha detto come si chiama?», mormora.
«Per te lo hanno sempre, Ace. Andiamo!»
Lui è il mio preferito tra i miei fratelli. È quello razionale e riflessivo. Essendo il maggiore si è sempre preso carico della mia protezione. Ma non è questo a farmelo amare. Lui mi conosce, mi capisce e mi ha sempre incoraggiata. Lui sa cosa significa questa serata per me.
Mi bacia la tempia. «Ho provato a fermarlo», confessa a poca distanza dalla vetrata che dà accesso alla sala da pranzo. «Se solo quel... bastardo ti mette le mani addosso io...»
A differenza degli altri due miei fratelli, so che ha sempre cercato di strappare il vincolo che mi lega, a causa della scelta di mio padre, al debito e a Darrell.
«Sono spaventata», dico d'impulso interrompendolo.
«Ci sarò io a proteggerti».
Non so se credere più a questa promessa.
* * *
Taglio la torta, classica, tre piani e coperta di glassa alla vaniglia. Spoiler: non è la mia preferita.
Partono dei flash, coriandoli, applausi. Proprio in quell'istante Darrell comincia a farsi largo tra la folla, ricevendo qualche pacca sulla spalla da parte dei suoi parenti, presenti alla festa. L'ampio sorriso di una iena. Più che pronto a mettere le mani sul premio.
Guardo mio padre spaesata porgendogli il mio piattino. Incrocio lo sguardo di Vanessa e sfuggo prima che lei possa fermarmi. «Torno subito».
Nessuno blocca la mia fuga e ne approfitto per salire di corsa di sopra nella mia stanza. Chiudo a chiave la porta e lascio uscire il fiato trattenuto.
Dopo averlo tirato fuori dall'armadio, osservo il borsone aperto sul pavimento, ai piedi del letto a baldacchino della mia enorme stanza sfarzosa.
Ho ficcato dentro il necessario. Non che io sia particolarmente legata a qualcosa. Tutto qui dentro non mi appartiene, non sono stata io a scegliere l'arredamento, gli indumenti o altro, eccetto la mia attrezzatura, i miei libri, il materiale da cancelleria e qualche vestito che ho comprato in saldo vendendo i miei scatti, nascosta dietro uno stupido pseudonimo.
Infilo il portatile dentro lo zainetto, apprestandomi a chiudere il borsone senza fare il minimo rumore, per potere captare quelli provenienti dalla villa.
Mi rendo conto che avrei dovuto imitare un attacco di nausea o un mal di testa, ma so che nessuno ci avrebbe creduto, dato che non so mentire e che uso spesso scuse simili per ritirarmi prima da qualsiasi evento.
Passi rimbombano nel corridoio. I miei occhi saettano sulla porta, la sicura inserita, il mobile che sono riuscita a trascinare poco dopo essere entrata in camera, a bloccare il passaggio.
Il cuore inizia a battermi frenetico nel petto quando tutto resta immobile per qualche secondo. Poi, Darrell bussa in maniera violenta alla porta, urlando il mio nome una sola volta. Sufficiente a farmi avere la pelle d'oca.
Come un coniglio smarrito, metto sul bordo della cassapanca il borsone.
«Eden, so che sei lì dentro. Non ti ho trovata di sotto. Apri la porta». La sua voce è fin troppo calma.
La maniglia viene girata a vuoto. «Eden, che diavolo stai facendo? Fammi entrare!»
Indietreggio tappandomi la bocca, rischiando di inciampare e farmi male, soprattutto di perdere il mio vantaggio su di lui.
«È evidente che non stai male. Tuo padre mi ha permesso di raggiungerti. Dobbiamo parlare. So che sei spaventata per quello che ti ho detto prima», prende fiato. «Aprimi o giuro che...», sbatte la spalla contro la superficie non terminando la frase. «Cosa cazzo hai messo dietro la porta? Questo non farà altro che aumentare la tua punizione, mi hai sentito? Apri, immediatamente!»
Sussulto, poi prendendo coraggio, sollevo e carico in spalla lo zainetto, isso il borsone e lo lancio di sotto dalla finestra del bagno. Questo va a finire su una siepe. Il rumore dello schianto, per fortuna, viene attutito dalle foglie e dalla musica.
«Ti giuro che se riesco a entrare non sarò delicato come ho promesso ai tuoi fratelli proprio poco fa! Cazzo, mi fai uscire di senno».
Chiudo a chiave la porta del bagno e respirando a fatica, appoggio la fronte sulla superficie. «Posso farcela», mimo, dandomi la carica.
Senza guardarmi indietro supero la soglia e l'inferriata del piccolo balcone, controllo che non ci sia nessuno di sotto e, proprio come quando avevo diciassette anni, dapprima scendo dall'intricata struttura in legno sulla quale l'edera si intreccia, e quando termina mi butto giù, atterrando agilmente sulle gambe.
Zoppico un po' ma a denti stretti riesco a recuperare il borsone e a correre verso il mio nascondiglio, prima che una delle guardie di turno passi per la solita ronda serale. Il che avviene di frequente da quando è successo qualcosa nel mondo degli affari di mio padre.
I cani abbaiano in lontananza. Per fortuna nessuno di loro si trova nei paraggi. Non avrei neanche il tempo per fermarmi ad accarezzarli o tentare di calmarli.
Mi infilo dentro il capanno degli attrezzi, poco prima che una delle guardie di mio padre passi e controlli con una torcia che non ci sia nessuno.
«Che succede?», domanda un altro.
«Ho sentito un rumore. Sto controllando».
«Sarà un topo. Sbrigati a tornare. C'è la torta e a quanto pare la figlia del capo si è defilata e Darrell le è corso dietro», ride. «Quel cazzone non ha ancora capito che a lei non piace. Scommetto che lo lascerà quando saranno di fronte al parroco».
Premo la mano sulla bocca restando immobile come un opossum. Quando l'uomo si allontana, dichiarando il via libera tramite l'uso della radiolina, torno a respirare.
Attendo qualche minuto, poi apro la porta sul retro del capanno degli attrezzi cercando di non fare rumore, scosto la serie di arbusti che ritrovo a pochi metri, salgo a stento sul muro di pietra e dopo appena qualche minuto, silenziosa come un'ombra, salto dall'altro lato riuscendo finalmente a uscire dalle mura della villa.
Sorrido e soddisfatta comincio a correre ai margini del lungo il viale alberato, cercando di non fare rumore per non attirare l'attenzione di qualche altra guardia appostata nei dintorni.
Mi nascondo dietro un albero quando degli uomini su un SUV passano per dare il cambio ai colleghi e proseguo per un paio di metri fino a raggiungere il cancello principale della tenuta, aperto ancora per pochi secondi. Al di là, c'è la strada. La mia salvezza.
«È stato facile», soffio per togliere una ciocca di capelli dal viso.
È solo un attimo.
Non ho il tempo di voltarmi.
Percepisco un odore diverso nell'aria, qualcosa di grosso si ferma alle mie spalle, mi afferra, bocca e naso mi vengono tappati bloccandomi le vie respiratorie, la possibilità di permettermi di urlare.
Mi dimeno, scalcio e nel farlo perdo i sandali tra i ciottoli. Riesco chissà come a mollare una gomitata alla persona che mi ha graffiata. Il mio gesto impulsivo, un po' scoordinato, va a segno e sento un'imprecazione. Ma so di non avere il tempo di controllare con chi sto lottando. Semplicemente mi divincolo e scappo lasciando indietro il borsone. Se è un tentativo di scippo, non servirà attaccarmi ancora fisicamente.
Svolto l'angolo per immettermi su una stradina secondaria, quella che conduce verso le campagne e vengo afferrata per i capelli. Un dolore atroce mi attraversa ed è come lo scudiscio di una frusta su una superficie.
«Non così in fretta, bambolina».
Sgrano gli occhi. Il cuore mi arriva dritto in gola.
Fiato caldo, al gusto cannella e menta, mi sfiora il collo in una carezza non voluta.
Dita abili, forti, mi sfiorano la pelle nuda, facendomi pentire di non essere riuscita a cambiarmi prima della fuga.
Solido, imponente. Lo sento alle mie spalle e il terrore mi afferra come uno schianto improvviso.
«Io non urlerei se fossi in te, tanto nessuno può aiutarti», mi sussurra la voce roca.
Con la coda dell'occhio capto il bagliore di una lama e squittisco nel sentirla contro la gola. Sollevo subito le mani. «Prendi quello che vuoi, non ho altro dietro, ma...»
Una bassa risata mi vibra lungo la spina dorsale. «In effetti c'è una cosa che voglio e che sto per prendere».
Uno strattone abbastanza forte brucia il mio scalpo quando mi afferra per la nuca facendomi piegare dal dolore. Ho il collo in tensione e il cuore sul punto di arrestarsi.
«Che cosa?», riesco a dire, nel tentativo di far uscire la mia voce meno stridula.
«Adesso sei mia», sibila sfiorandomi con la punta del naso il collo. «Voltati lentamente e non fare niente di stupido», mi ordina.
Pianto i piedi per terra. Chiudo le palpebre e riuscendo a muovermi senza strusciarmi sul suo corpo, mi volto.
♡♡♡
** Buona sera ♥️
Eccoci con il primo capitolo di questa nuova storia. In parte sono emozionata e agitata come se fosse la prima volta. Sto uscendo da un periodo abbastanza buio e in qualche modo scrivere, come sempre, mi sta aiutando.
Grazie a chi ha subito aggiunto questa storia nel proprio elenco di lettura. Vi prego di lasciare un piccolo commento e un voto per supportarmi. Magari per voi non sarà niente, ma per chi scrive è davvero importante.
Se avete qualche domanda, sono qui.
Al prossimo capitolo, nuvole...**
♡♡♡
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