18. E ancora noi
La lontananza rimpicciolisce gli oggetti all'occhio, li ingrandisce al pensiero.
-Arthur Schopenhauer
***
Quella mattina il sole era particolarmente caldo. Forse perché la primavera si stava avvicinando o forse perché sarebbe successa una cosa bellissima.
Rientrai chiudendo la porta che dava sul balcone e mi misi di fronte allo specchio. Finalmente, dopo più di un mese avrei incontrato Nathan. Come avrei reagito rivedendolo? Avrei pianto, questo sicuro! L'avrei abbracciato poi e gli avrei chiesto scusa. Mi avrebbe perdonata per essere sparita così? Per non essermi fatta più sentire e averlo in un certo senso abbandonato?
Non era dipeso interamente da me ma mi sentivo ugualmente in colpa e quel ragazzo mi mancava tremendamente.
Tremavo all'idea di incontrarlo. Inoltre mi vedevo bruttissima con quell'evidente cicatrice al collo che segnava tutto il lato sinistro, presi perciò un foulard e lo avvolsi in modo da coprirlo alla meglio.
Erano le 12 in punto e l'appuntamento era proprio per quell'ora. Mi trovavo nella hall dell'albergo in cui alloggiavo dopo essere uscita dalla clinica dov'ero stata ricoverata. Dall'aggressione mi avevano trasferita lì e ci ero rimasta finché mi ero rimessa in sesto.
Guardai fuori dalla porta di vetro dell'albergo, situato a una cinquantina di chilometri da Deer Park. Lo vidi arrivare. Restai immobile fino a quando notai il suo viso perso che sbirciava attraverso l'ingresso, cercandomi.
Entambe le mie mani, senza che me ne rendessi conto, finirono sul mio viso e coprirono naso e bocca. Ero timorosa, vibravo come una foglia trasportata dal vento e il cuore pareva volersi scaraventare fuori dal petto.
I nostri occhi si incrociarono e sussultai quando un gemito sincronizzato con il mio battito accelerato, mi procurò una forte scossa che si diramò per tutto il corpo.
Affrettando il passo, Nathan mi venne incontro con l'espressione incredula di chi ha appena visto un fantasma. Mi alzai e accorciai quello spazio che sembrava immenso e che mi divideva da lui.
Le sue braccia si legarono attorno a me mentre chiudevo gli occhi e lo stringevo con tutte le mie forze. Il suo profumo si insinuò nelle mie narici invadendomi la mente di vividi ricordi dei momenti passati insieme.
-Karin...! -sentii la sua voce che tanto mi era mancata.
Scoppiai in lacrime, presa da fremiti che mi procuravano dolore nello stomaco.
Il suo corpo stretto al mio, sobbalzava per i singhiozzi. Era irrigidito, e la forte stretta che evidenziava la sua virilità, mi impediva quasi di respirare.
-Non ho una sola parola da dire, io... -si bloccò col fiato smorzato.
-Vieni sediamoci lì... -indicai le poltroncine nere di pelle che disposte a semi cerchio, davano un tocco di stile all'arredamento semplice nella hall dell'hotel.
Quando slegò l'abbraccio, ripresi finalmente a respirare. Mi aveva praticamente stritolata, tanto che mi sentivo leggerissima, sensazione dovuta anche alla gioia incontenibile.
Ci portarono due caffè. Sul mio c'era una spruzzata di panna bianchissima. Tutto appariva più bello ai miei occhi. Tutto era perfetto.
-Ho tante cose da raccontarti. -esordì lui. -Non so da dove iniziare.
-Inizia col dirmi se stai bene.
-Credevo che tu fossi morta, credevo di non poterti rivedere mai più, scopro che sei viva... come vuoi che stia?! Io sono al settimo cielo! -sorrise entusiasta e mi parve di non averlo mai visto così felice.
Abbassai la testa e vidi un taglietto sul suo pollice destro. Solo in quel momento notai che usava la mano sinistra per portarsi la tazza alla bocca. Non mi ero mai accorta che fosse mancino. La sua voce mi distrasse.
-È stato tutto così assurdo... Mi sembrava di essere in un incubo. Mi sono dato dell'idiota ogni giorno che ho creduto che tu fossi morta.
-Ma perché?
-Perché invece di andarmene in giro per Deer Park quella sera, sarei dovuto tornare immediatamente a casa da te.
-Che ci facevi a quell'ora a spasso per il paese? Eri solo?
-Ok a te posso dirlo. Mi imbarazza un po' ma è così che faccio quando voglio scrivere un pezzo. Ho bisogno di isolarmi, di camminare, di riflettere...
-Ho capito.
-Sì ma... dovevo essere lì con te...
-Ormai è andata così.
-Sì... -si fermò a riflettere poi schiarendosi la voce, riprese a parlare. -Karin, devo dirti una cosa di cui non ti ho mai parlato.
-Ti ascolto. -gli feci mezzo sorriso. Gli era tornato lo stesso sguardo spento che aveva di solito su quel viso chiaro.
-Margerette Sullivan... La conoscevo bene. Era... mia madre.
Restai senza parole. Lo fissai incredula poi sollevai la tazza per nascondermi dietro ad essa. Non sapevo a cosa pensare poi replicai.
-Perché non me l'hai detto Nat?
-Non mi andava di raccontare che quella donna malata fosse mia madre... dopotutto io non l'ho mai considerata tale e se devo essere sincero lei non mi ha mai considerato suo figlio... Ho vissuto per poco con lei... Ricordo solo qualche sprazzo di vita... mio padre che gli dava contro, lei che si sfogava su Nirvana... finché mia nonna ci ha portati via di lì.
-Nathan... mi dispiace. Davvero!
-Non preoccuparti, storia passata ma come ti dicevo al telefono, sono stato arrestato... La storia del DNA che coincide con quello dell'assassino è pazzesca!
-Sì che lo è... -di nuovo i miei occhi scivolarono sul taglietto che riportava al dito. Sapevo che era stata trovata una piccola traccia di sangue dell'assassino, sopra i miei vestiti. Scossi la testa tentando di scacciare via quell'assurda idea. Nathan era stato scagionato, non poteva essere lui il colpevole.
-Credimi, le ho pensate tutte... ascolta la teoria a cui sono giunto. Sembra stupida ma non è da scartare.
-Certo, nulla è da scartare.
-Mettiamo che mia madre non sia morta veramente...
-Cosa? Dai non esagerare...
-No, ascolta. Non abbiamo nessuna prova che lei sia per davvero in quella tomba. E se fosse tutta una farsa? E se Margerette fosse ancora viva e fosse tornata a vendicarsi contro gli abitanti del palazzo?
-E se tu avessi visto troppi film gialli?! Nathan, per favore! Questa teoria non regge. Margerette è morta. E quale sarebbe il motivo per cui ce l'avrebbe con il palazzo Palme?
-Non so... Magari perché la maltrattavano o si sentiva odiata... tutto può essere, ricordiamoci che era una donna malata mentalmente.
-E con me e mia madre? Non gli abbiamo mai fatto niente di male... anzi mia madre era l'unica che prendeva sempre le sue difese. -conclusi e il brivido tornò ad impossessarsi di me. Lo stesso di quella notte quando quel mostro che mi aveva aggredita alle spalle mi aveva sussurrato all'orecchio le parole che avevano preceduto il taglio.
-Sì, ho immaginato. -continuò lui senza avvedersi del mio turbamento. -Ho pensato anche a questo. L'unica cosa che mi è venuta in mente è che in qualche modo abbia saputo del mio attaccamento per voi e semplicemente si è ingelosita... Dopotutto Grace era come una mamma per me... e tu...
Nathan cessò all'istante di parlare. Ero rimasta a guardarlo per capire cosa fossi realmente per lui. Non uscirono altre parole dalla sua bocca. Era evidente che non aveva nessuna voglia di continuare.
Con mia sorpresa fece qualcosa di inaspettato. Afferrò le mie mani che erano posate una sull'altra e le circondò con le sue. Erano calde, la sensazione era piacevole.
Il mio sguardo basso, rivelava imbarazzo, inadeguatezza. Nathan spostò la sua mano sinistra verso il mio viso. Con un dito, mi sollevò il mento finché i miei occhi furono nei suoi.
Erano sempre stati così tremendamente azzurri? E lui... possibile che fosse così perfetto! Ogni particolare del suo viso, ogni piccolo dettaglio...
-Non tornare al palazzo... -disse con tono preoccupato.
Restai delusa dalle sue parole. Possibile che non provasse proprio niente per me?! L'unico sentimento nei miei riguardi era solo una forte apprensione per la mia incolumità?!
-Nathan... non volevi dirmi altro? -dissi impulsivamente. Sfilai via le mani dalle sue.
-Cosa volevi che ti dicessi... -fece lui con poca voce mentre pareva sprofondare. Si voltò a guardare fuori.
Il mio respiro affrettò sensibilmente e un nodo salitomi su per la gola fu il preludio di un'imminente sfogo.
Sistemai ancora il foulard, nascondendo per bene la cicatrice lunga almeno dieci centimetri. Lui si soffermò a fissare proprio quel punto, tentando di intravederla.
Mi alzai, non sarei rimasta un minuto di più con lui. Non ce l'avrei fatta, non senza piangere.
-Devo... devo andare! Scusami se ti ho fatto preoccupare. -tagliai corto, levandomi il senso di colpa che mi opprimeva da giorni.
-Aspetta!
Lo ignorai dirigendomi all'ascensore. Sentii che mi seguiva e non riuscii ad impedire alle lacrime che si riversassero sulle mie guance. Non mi voltai ma continuai a camminare, quasi correndo sperando che non mi seguisse. L'ascensore era lì che pareva aspettarmi e mi ci infilai premendo il tasto che portava al mio piano. Misi una mano fra le due porte indicandogli di non entrare. Si arrestò appena fuori guardandomi con occhi persi. La fronte sollevata, rigata da tante piccole rughe di espressione e la bocca socchiusa che annaspava alla ricerca di parole.
Mentre le porte si ricongiungevano, muovendosi una verso l'altra, Nathan non mi diede retta ed entrò con me.
Mi voltai di spalle coprendomi il viso. Lui si avvicinò e ancora mi abbracciò forte restando lì, dietro di me. Rimasi fredda, quasi fosse un estraneo.
Mi sussurrò alcune parole avvicinando la sua bocca al mio orecchio.
-Karin non posso... Non sono quello che credi... non posso... -disse sottovoce e andai in iperventilazione.
Quella voce, quel tono... quel sibilio che aveva sfiorato il mio orecchio.
Mi liberai, voltandomi verso di lui guardandolo sgomenta.
-Nathan...! Sei stato tu...?! Sei stato tu ad aggredirmi?!
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