Capitolo XIV
Risalimmo in fretta la strada per la montagna, poi attraversammo nuovamente il tunnel. Insieme a noi c'era Gabriel, che ci stava accompagnando ai cavalli per non so bene quale ragione. Arrivati all'imboccatura aveva il fiatone, data la velocità con qui stavamo camminando, e dentro andò anche peggio visto lo spazio stretto, ma volle tenere il passo. Usciti dalla galleria tirò una profonda boccata d'aria e si piegò sui gomiti, contento che fossimo arrivati.
«Grazie per la vostra disponibilità» gli disse nostro zio.
«Uff, di nulla» gli rispose affannosamente Gabriel.
«Non c'era bisogno che venissi fin qui.»
«Figurati... non c'è problema.»
«Prenda, serviranno a ricomprare da Crossroad le scorte che vi abbiamo preso.»
«Grazie.»
Nostro zio si girò verso di noi.
«Montate subito sulla vostra puledra, dobbiamo tornare più in fretta che possiamo.»
«Aspettate!» ci disse Gabriel, con quel poco fiato che riusciva a tirare fuori in quel momento.
«Cosa c'è» chiese nostro zio.
«I vostri cavalli saranno ancora stanchi dopo la lunga cavalcata che hanno sopportato per venire qui. Prendetene due dei nostri. Vi darò i migliori che abbiamo.»
Mio zio parve piuttosto stupito. «Mi sembra ecces...»
«No! Insisto che li prendiate. Robert ha bisogno di quelle medicine il più velocemente possibile. Poi potrete restituirceli quando vorrete.»
«Grazie! Torneremo appena potremo.»
Gabriel si diresse verso la struttura di legno e chiamò la signora dei cavalli per discutere. La donna si alzò dalla sedia e i due iniziarono a parlare, troppo lontani perché noi li potessimo sentire. Rimanemmo lì qualche minuto, poi Gabriel tornò da noi tenendo per le briglie due bei cavalli già sellati. Quello di mio zio era un bel palafreno con manto scuro, che si avvicinava con un andatura aggraziata, ma che sembrava pronto a scattare più veloce del vento. Quello che avevamo noi era un pony basso e massiccio, dal manto chiaro, quasi dorato, e aveva zampe molto muscolose che avrebbero potuto sopportare giorni interi di viaggio ininterrotto. Quando aveva detto che ci avrebbe dato i cavalli migliori pensai che stesse esagerando, ma quelli potevano veramente essere i migliori che avevano. Persino nelle nostre scuderie sarebbero stati pochi i cavalli che potevano reggere il confronto.
Salimmo sulla loro groppa, li puntammo nella direzione del ritorno e, dopo aver ringraziato nuovamente Gabriel, partimmo al galoppo.
...
Se all'andata avevamo un minimo risparmiato i cavalli, questa volta li sfruttammo fino all'ultimo, andando più velocemente che potevamo. I cavalli però erano ottimi e resistettero molto bene a questa fatica, permettendoci di percorrere in relativamente poco tempo la strada che separava le montagne dal nostro accampamento. Arrivammo lì che si stava facendo tardi, con il sole che stava calando oltre l'orizzonte delle colline orientali. Il vento si stava alzando sempre più forte da occidente, iniziando a frustarci la schiena nonostante i cavalli andassero nella stessa direzione delle raffiche. Mi voltai indietro, tenendo saldamente le mani aggrappate ai fianchi di mio fratello. In quella direzione il cielo iniziava già a scurirsi, come se il cielo notturno spingesse via quello diurno. La linea dell'orizzonte era indistinta, molto nebulosa, e mi trasmise subito una brutta sensazione. Mi voltai nuovamente in avanti, dove il profilo dell'accampamento, ridotto a una sagoma nera stagliata sul cielo rosato, si stava ingrandendo sempre di più.
«Siamo quasi arrivati. Finalmente possiamo guarire papà» disse ad alta voce Ryan, rivolto a nostro zio. Questi non rispose, tenendo gli occhi fissi verso le mura.
Ancor prima che ci fossimo avvicinati abbastanza da vederlo iniziai a sentire la gente che si accalcava vicino al cancello. Era strano che a quell'ora della sera la gente si accalcasse alle porte: a parte le guardie tutti quei lavori che richiedevano di uscire dalle mura sarebbero dovuti essere finiti da un pezzo e i lavoratori già dentro divisi tra quelli che tornavano alle loro abitazioni, quelli che si ubriacavano al pub.
Iniziarono a corrermi i brividi lungo la schiena mentre affioravano nella mia mente le stesse immagini che avevo visto pochi giorni prima. Anche mio zio ebbe la stessa sensazione, ma continuò imperterrito, e noi lo seguimmo. Una volta arrivati di fronte all'entrata dell'accampamento ci ritrovammo la strada sbarrata da una moltitudine di gente, che si accalcava aspettando qualcosa. Al nostro arrivo la folla si aprì, non senza difficoltà, per farci passare avanti e noi avanzammo lentamente tra i loro sguardi. Erano tutti tesi, come se qualcosa di terribile stesse per accadere.
Alla fine ci si parò davanti il nostro incubo più grande, nel suo ammasso di grasso, muscoli e odio: il tenente Bill. Noi eravamo ancora a cavallo, mentre lui era a piedi. Per un attimo pensai di travolgerlo con tutto il peso degli animali, ma lo spazio tra di noi era troppo poco, lui era circondato dalle sue guardie e anche se fosse avremmo rischiato di travolgere altre persone della folla. Nonostante ciò ancora accarezzavo l'idea, e pure mio fratello fremeva per farlo, però nostro zio ci fermò prendendo le redini. Alla fine scendemmo da cavallo, portandoci dietro quello che c'era attaccato alle selle. Mentre alcuni soldati portavano gli animali insieme agli altri, Bill si avvicinò a noi con aria minacciosa, attorniato dalle sue guardie personali, come le dita di una gigantesca mano che si accingeva a stritolarci.
«Bene bene, chi abbiamo qui?» ci chiese sarcasticamente Bill, con un ghigno beffardo stampato sul volto porcino.
«Lasciaci stare, dobbiamo andare» gli disse di rimando nostro zio.
«Voi non andate da nessuna parte!» Con un gesto incredibilmente veloce per la sua stazza strappò la bisaccia di mio zio dalle sue mani.
«Ehi, non hai il diritto di...»
«Chissà cosa c'è qui dentro.» Bill aprì la il sacco e vi ficcò dentro la sua grossa mano callosa, estraendo una boccetta di penicillina. Si rigirò fra le mani il fragile contenitore di vetro, e per un momento ebbi il serio timore che la lanciasse a terra insieme agli altri medicinali, ma invece la rimise dentro e diede il tutto a una delle sue guardie.
«È roba nostra, devi ridarcela subito.»
«Assolutamente no!»
Il vento stava soffiando sempre più forte, e l'oscurità iniziava a calare sull'accampamento. Proprio dietro il gruppo si Bill si trovava l'emissario di Crossroad che, da una posizione defilata, osservava tutto con i suoi inquietanti occhi grigi. Spesso e volentieri si guardava a destra e a sinistra, osservando la folla che ci circondava, poi tornava a guardarci con una specie di cipiglio di disapprovazione.
«E perché scusa?»
«Secondo te? Avete preso dei cavalli senza il mio permesso.»
Nostro zio ci lanciò una breve occhiata. Lui era abituato ad agire senza far sapere in giro cosa faceva, ma la rocambolesca fuga di me e mio fratello con quella cavalla non poteva di certo essere passata inosservata. Sin da quando avevamo notato la folla avevamo capito che la nostra missione era di dominio pubblico, e quell'accusa, per quanto terribile, non ci aveva stupiti. Mi ero già convinto che fosse nuovamente colpa mia quando Bill, che aveva notato lo scambio di sguardi, mi smentì nel modo peggiore possibile.
«Sta tranquillo» disse, rivolgendosi a mio zio «anche senza lo spettacolino offerto da quei due mocciosi sarei comunque venuto a sapere della vostra piccola uscita.»
A quella risposta ci sentimmo come se fossimo appena stati fulminati: Bill stava spiando zio Baldwin. Mi guardai intorno, ma la folla era tutta accalcata e a parte le prime file non riuscivo a distinguere nessuno. Chi sarà stato a spifferare tutto? Forse lo stalliere, oppure il ragazzino che gli aveva portato l'acqua. Potevano anche essere entrambi, oppure nessuno di loro. Non l'ho mai saputo. Stava di fatto che ora non eravamo al sicuro.
Io e mio zio rimanemmo pietrificati, non sapendo cosa dire, ma a quel punto fu Ryan a rompere il silenzio.
«Non puoi farci questo, stronzo!»
Per la sorpresa rimase immobile per qualche istante, come per elaborare quello che era appena successo.
«Cosa hai detto?»
«Tu non meriti di essere il nostro capo! Sei solo uno sporco maiale.»
«Come osi?! Sono il vostro capo e dovete fare come dico io.»
«No!» Ryan si girò verso la folla. «Siamo in tanti, facciamo la pelle a questo figlio di puttana.»
All'improvviso Bill si avventò contro mio fratello. Ryan era molto grosso per la sua età, ma appariva ancora piccolo piccolo contro quella montagna d'uomo, e bastò una sua manata per farlo volare due metri indietro. A quel punto tutto accadde così velocemente che faticai a capire cosa stava succedendo. Mio zio, che un momento prima era rimasto pietrificato, sferrò un pugno sul viso del capo dell'accampamento. Lo colpì un altro paio di volte, poi fu sollevato di peso dalle guardie personali di Bill. A quel punto fu il suo turno di picchiare: lo tempestò di pugni e calci pesanti come macigni, colpendolo sul viso, sullo stomaca, nelle estremità e un paio di volte persino sui genitali. La folla rumoreggiò sempre più forte, l'emissario di Crossroad si guardò intorno sempre più preoccupato e le altre guardie parevano agitate. La tensione saliva sempre di più, pronta a esplodere da un momento all'altro, quando all'improvviso tutto si fermò. Un corno suonò dalle mura come un lungo muggito, poi una guardia si sporse dal muro agitando le braccia come un pazzo.
«Al riparo, al riparo! Sta arrivando una tempesta di sabbia» gridò con tutta l'aria che aveva nei polmoni.
La gente fu presa dal panico e si sparpagliò in tutte le direzioni per ripararsi nelle proprie baracche. Bill distolse lo sguardo da mio zio in direzione della guardia che aveva gridato. Dietro il muro dell'accampamento se ne stagliava un altro, alto fino al cielo e da cui scaturivano lampi e tuoni. Si voltò nuovamente verso mio zio, gli diede un ultimo pugno in faccia e lo lasciò in mezzo alla strada mentre si dileguava insieme ai suoi uomini, portando via con sé le medicine per mio padre. Io e Ryan, quest'ultimo con le costole doloranti a causa del colpo, fummo costretti a portare da soli il corpo svenuto di zio a casa nostra, in modo che nostra madre potesse dargli le prime medicazioni.
Io sollevai zio Baldwin dal lato sinistro, infilando il collo sotto la sua ascella, mentre Ryan fece la stessa cosa dal lato destro. Purtroppo mio fratello era quasi cinquanta centimetri più basso di nostro zio, e io anche di più, quindi mentre lo portavamo le sue gambe inerti strisciavano sul terreno, lasciando una scia appena accennata di sangue. Nel frattempo la visibilità si faceva sempre più ridotta, le baracche che affollavano i lati della strada divennero sempre più indistinte, riducendosi a figure spettrali che ci osservavano con muta indifferenza.
Barcollammo per non so quanti minuti, andando avanti più grazie all'istinto e al ricordo che alla vista, che si oscurava sempre di più man mano che la tempesta si avvicinava. Alla fine, non so come, riuscimmo ad arrivare a casa. Mio fratello aprì la porta cigolante, e percorremmo appena un passo oltre la soglia prima di crollare a terra. Il suono attirò mia madre che, dopo aver aperto la porta, emise un piccolo grido di spavento e si precipitò da noi. Prima controllò me e mio fratello, nonostante fossimo evidentemente messi molto meglio di nostro zio, poi si occupò di lui. Inizialmente provò a sollevarlo, ma da sola tale operazione le risultò molto difficile, quindi decise di tappargli il naso col pollice e l'indice. Passò qualche secondo prima che mio zio si ridestasse, scuotendo la testa per scrollarsela di dosso. Si svegliò boccheggiando, guardandosi attorno con aria disorientata, cercando di capire dove si trovasse. Provò ad alzarsi, ma si bloccò all'improvviso, emettendo un verso per il dolore.
«Porca putt...» disse tra i denti.
«Fa' piano» gli raccomandò mia madre.
«Vaffanculo, Bill!» urlò mio zio, colpendo con un pugno il pavimento di ferro, procurandosi un'altra dolorosa fitta.
«Cos'è successo?» chiese Sophia, che aveva fatto capolino dalla porta di camera nostra.
«Quello stronzo di Bill si è preso tutto!» imprecò Ryan con tutta la forza che aveva nei polmoni.
«Cosa?!» domandò spaventata mia madre, ignorando l'esclamazione di mio fratello.
«Bill ci stava aspettando in piazza con i suoi cani. Ci ha portato via tutte le medicine che ci avevano dato i religiosi usando come scusa il fatto che avessimo preso dei cavalli senza permesso.»
«Ma è un'assurdità!» esclamò mia madre.
«Mi stava spiando. Sapeva quello che volevo fare e ha deciso di impedirmi di portare quello che serve a Rob. Maledizione, c'eravamo quasi.»
«Dobbiamo fare qualcosa» disse Sophia, con la voce spezzata dall'emozione.
«Prima dobbiamo curare tuo zio» le disse di rimando nostra madre. «Ce la fai a camminare?»
«Non lo so. Fammi provare.»
Mio zio tentò di alzarsi con molto sforzo, ma alla fine riuscì a mettersi in piedi e ad andare nell'altra stanza con il sostegno di mia madre. Entrammo anche noi dentro. Nella camera c'era solo mio padre, disteso nel letto. Non era cosciente, il volto era pallido, le labbra spaccate e sudava copiosamente, agitandosi in non so quali incubi. Alla fine mia madre fece sedere zio Baldwin su una vecchia sedia accanto al letto mentre prendeva qualche garza da un mobiletto addossato alla parete.
Fremevo di rabbia, ed ero angosciato dall'impotenza. Quello stronzo di Bill ci aveva fatto tutto questo, e non abbiamo potuto fare niente per evitarlo. Io non ho potuto fare niente. Ero soltanto un bambino, piccolo e debole, che era rimasto lì a guardare mentre la propria famiglia veniva vessata da quel porco.
Non sopportai di rimanere lì e uscii fuori, sbattendo dietro di me la porta. Presi a pugni la parete, gridando a pieni polmoni la mia frustrazione, ma non servì a placarmi. Dopo diversi minuti così mi sedetti a terra, cercando qualcosa, qualsiasi cosa che potessi fare per riprendermi i medicinali. Alla fine mi accorsi che non avevo ancora tolto la mantella che avevo indosso da questa mattina, quell'ampio pezzo di stoffa sbiadita cucito e rattoppato più volte creato appositamente per sopravvivere nell'inferno quotidiano del deserto. Questo mi fece prendere una decisione, una così rischiosa da farmi seriamente domandare se avessi davvero perso il senno. Da una delle tasche della mantella estrassi degli occhialini, di quelli che molte persone portavano con se, me li infilai e poi mi avvolsi il naso e la bocca con un panno che portavo legato al collo. Aprii la porta e venni investito da una folata di vento così forte da quasi farmi cadere. I miei parenti uscirono dalla stanza appena in tempo per vedermi correre fuori.
«Donald!» gridò mia madre, appena udibile in mezzo al frastuono del vento mentre io mi allontanavo da lei, addentrandomi in quel turbinio di morte.
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