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Capitolo XIII


Nonostante le mie perplessità, dopo più di un'ora al galoppo non si vide l'ombra di un inseguitore. Per miglia e miglia gli unici animali più grandi di un coniglio fummo solo noi, sperduti in un immensa piana desertica punteggiata del verde giallognolo di arbusti e cactus. 

«Mi sa che avevo ragione» gongolò Ryan, compiaciuto di se stesso. Lì per lì fui tentato di dargli retta. I cavalli probabilmente non bastavano per inseguirci, la desolante vista di quel capannone completamente vuoto gli dava ragione. In un angolo della mia mente, però, iniziò a insinuarsi il dubbio. Possibile che fosse stato così facile? Sentivo che c'era qualcosa che mi sfuggiva, ma decisi di non pensarci troppo, c'erano problemi più pressanti.

«Stiamo comunque attenti» dissi, invitando mio fratello alla cautela.

«Va bene» replicò svogliatamente. 

«Siamo senza cibo, senza acqua e senza armi. Non saremo al sicuro finché non raggiungeremo zio Baldwin. Meglio che acceleri il passo.»

«Certamente.»

Galoppammo a tutta velocità per un'altro po' di tempo, poi l'animale iniziò a rallentare. I suoi respiri divennero più affannati mentre la bocca iniziò a schiumare. Mio fratello provò a farla accelerare nuovamente, ma i suoi sforzi si rivelarono vani. Provai pure io a colpire l'animale sul deretano, come avevo fatto all'inizio, ma non ottenni altro che brevi scarti, seguiti da un'accentuata decelerazione. Mentre iniziammo a disperare, all'orizzonte comparvero due ombre. Un cavallo e il suo cavaliere si stagliavano contro il cielo, a qualche centinaio di metri da noi. L'animale teneva il capo chino sul bordo della strada, brucando l'erba secca che cresceva come ciuffi di capelli su un capo tignoso, mentre l'uomo beveva da un otre di pelle. Era nostro zio, che stava facendo riposare il suo corsiero. Lo chiamammo con urla e ampi gesti delle braccia finché questi non si girò nella nostra direzione. Man mano che ci avvicinammo la sua espressione mutò, passando dallo stupore alla preoccupazione, fino a giungere all'ira quando accostammo il nostro cavallo accanto al suo.

«Che cosa vi è saltato in mente!?» ci incalzò ancor prima che toccassimo terra.

«Volevamo venire con te» rispose Ryan.

«Ma siete impazziti!? Tornatevene subito indietro.»

«Ormai siamo lontani» intervenni. «Non puoi lasciarci tornare a casa da soli.»

Mio zio si portò una mano sulla tempia, emettendo una serie di grugniti e borbottii che gli provenivano dal petto, poi fece qualche passo disegnando un piccolo mezzo cerchio di larghe impronte sulla terra polverosa. Dopo qualche secondo si voltò nuovamente verso di noi e, puntandoci contro il dito, disse :«Va bene, potete venire. Ma è stata un'idea vostra! Non voglio avere nulla a che fare con le sfuriate di vostra madre. Facciamo riposare il vostro cavallo e poi continuiamo.»

«Evvai!» esclamò Ryan, offrendomi il cinque. Nonostante lo sguardo altero del fratello di mio padre glielo battei, producendo uno schiocco che parve forte come una cannonata nella pianura avvolta dal silenzio.

...

Dovemmo rimanere fermi ben oltre una mezz'ora per far riprendere la cavalla mia e di mio fratello, a causa dell'eccessivo sforzo a cui l'avevamo sottoposta, ma alla fine ripartimmo a passo più moderato, restando dietro nostro zio. Dopo un'altra ora e mezza arrivammo nei pressi dell'albero solitario dove si trovava il camion schiantato. A testimonianza dell'evento rimaneva impressa l'impronta del paraurti sul tronco, dove si era abbattuto con tanta forza da farmi chiedere come mai la pianta non fosse stata abbattuta. Girammo nella stessa direzione dell'altra volta, senza dover più scavalcare le gabbie vuote, e continuammo attraverso la piana desertica. 

Tutto attorno a noi si estendeva una dura distesa di terra bruciata dal sole, da cui si sollevava polvere che si appiccicava su ogni parte esposta del nostro corpo, procurandoci una sgradevole sensazione si sporco. Di tanto in tanto, spaventati dal suono degli zoccoli, alcuni passerotti o colibrì del deserto spiccavano brevi voli dagli arbusti su cui erano poggiati, per poi scomparire nuovamente tra i rami di altre piante cespugliose. Un corridore della strada, sentendoci arrivare, sfrecciò via veloce tanto o più dei nostri cavalli, uscendo fuori dalla nostra vista in pochi secondi.

Dopo un po' di tempo il cavallo di nostro zio iniziò a rallentare. Lui provò a fargli mantenere l'andatura, ma l'animale ormai era piuttosto in là con gli anni, non adatto a tenere a lungo quella velocità, e ci ritrovammo più volte a superarlo. Alla fine, non senza un certo senso di frustrazione, fummo costretti a fermarci a far riposare i nostri cavalli. Scendemmo tutti e iniziammo a sgranchirci le gambe, irrigidite per la lunga cavalcata.

«Puoi tenerlo?» chiese zio Baldwin a Ryan, porgendogli le redini.

«Certo» gli rispose, afferrandole.

Una volta libero dall'onere di tenere le briglie del cavallo questi si avvicinò a un cespuglio di spine che si trovava poco più in là. Fece qualche passo a destra, lo superò e poi si posizionò dietro di esso, in un punto dove questo gli copriva il corpo fino al petto. Armeggiò con qualcosa e, d'un tratto, il silenzio del deserto fu interrotto dal rumore di acqua che scorreva. Nell'udire ciò mio fratello ebbe per un attimo un fremito e pure io iniziai a sentire il bisogno di svuotarmi. 

Il suono si interruppe in mezzo minuto e, dopo aver manipolato qualcosa celato dal cespuglio, Zio Baldwin tornò indietro e riprese le redini che aveva lasciato a Ryan. Questi, senza esitazione, andò dietro lo stesso arbusto, essendo questo l'unico elemento del paesaggio in grado di coprirlo, e iniziò a liberarsi. 

Mi voltai verso mio zio, che stava scrutando il cielo per orientarsi. Aspettai che il suono del getto finisse, ma, una folta esauritosi, Ryan non accennò a tornare. 

«Sei stato un vero cretino» disse all'improvviso zio Baldwin, rompendo il silenzio.

«Come?»

«Venire qui senza il nostro permesso è stata una cosa incosciente, ma rubare questo cavallo...» disse, inclinando la testa in direzione della puledra, «... è stata pura follia.»

«Non so cosa vuoi dire. Entrambi abbiamo voluto ...»

«Mi prendi per scemo? Ryan non aveva nessuna ragione per venire qui. Sei stato tu a volerlo, e poi tuo fratello ti ha seguito.»

Distolsi lo sguardo da lui, puntando gli occhi verso il terreno brullo su cui poggiavano i miei piedi. Mi vergognavo della scemenza che avevo fatto. Non avevo mai agito così sconsideratamente in vita mia, ma sentivo un bisogno viscerale di essere lì, non riuscivo a farne a meno. Era come se il corpo non mi fosse più appartenuto e una forza invisibile mi costringesse a fare questo.

«So cosa significa sentirsi in colpa.» Mio zio si parò davanti a me, poi si mise su un ginocchio per guardarmi dritto negli occhi. «Hai fatto una serie di cazzate che hanno portato una persona che ami a stare male, ma provando a rimediare ora ne stai compiendo altre. Sei molto più intelligente di quanto lo fossimo io e tuo padre alla tua età, ma sei ancora un bambino e agisci senza pensare alle conseguenze. Io stesso ho fatto più volte lo stesso errore.» Lo sguardo di mio zio si indurì all'improvviso. Mi afferrò le spalle con forza, quasi facendomi male, e mi attirò a sé. Ero così vicino da poter distinguere ogni minima ruga degli occhi, ogni piccola cicatrice sul volto, ogni insignificante piega del naso. Il volto di qualcuno che aveva fatto molti sbagli nella propria vita. «Ti prego, non agire più in questo modo. O perderai tutto ciò che ami.»

Fummo interrotti dall'improvviso arrivo di Ryan, che si stava ancora sistemando i pantaloni. Mio zio mollò la presa e si alzò da terra, pulendosi la polvere rimasta sul vestito, poi mi diede una pacca sulla spalla per dirmi di andare. Dopo che mi fui liberato, continuammo diretti per la città dei religiosi.

...

Dopo un po' di tempo arrivammo all'ingresso per la montagna, indolenziti, accaldati e ricoperti dalla testa ai piedi di polvere.  All'entrata avevano costruito una sorta di tettoia sostenuta da due muri in legno ai lati opposti della struttura, con alcuni cavalli legati a un palo metallico all'altezza del bacino che andava da una parete all'altra. Proprio davanti al palo era posta una lunga tinozza piena d'acqua, da cui alcuni animali stavano bevendo.

Il suono degli zoccoli svegliò una robusta signora sulla quarantina, che si era appisolata su una sedia posta sotto un vecchissimo ombrellone così rovinato che le strisce di colore della tela erano sbiadite in un uniforme grigio chiarissimo. Leggermente intontita per il brusco risveglio, si precipitò da noi, facendo oscillare il proprio medaglione sull'ampio petto. Questo era molto simile a quello che portava Gabriel la prima volta, anche se molto meno pesante e più semplice. 

«Cosa posso fare per voi?» chiese, col volto ancora assonnato.

«Dobbiamo entrare in città» rispose mio zio.

«L'abbiamo ribattezzata New Home» specificò, in maniera non richiesta, la signora.

«Gran bel nome» mi bisbigliò all'orecchio mio fratello, con parecchi strati di ironia.

«Siamo di fretta. Tenga i nostri cavalli, torneremo tra poco.»

«Certamente.»

Scendemmo tutti e mio zio diede le redini alla donna, poi dalla cintura tirò fuori un sacchetto di cuoio da cui estrasse un paio di monete che porse alla signora. Questa, dopo essersi intascata i soldi, portò i nostri cavalli insieme agli altri mentre noi tre andammo in direzione del condotto. Zio Baldwin, continuando a camminare, tirò fuori un po' di carne secca con del pane e ce li porse, invitandoci a mangiare mentre camminavamo. Contento di quel pasto, dato che iniziavo a sentire i morsi della fame, iniziai a mangiare mentre ci addentravamo nel buio della galleria. 

Finimmo il nostro pranzo quando iniziò a intravvedersi la luce dell'uscita. Dopo poco tempo ci ritrovavamo fuori dalla montagna, dove iniziarono a palesarsi i primi cambiamenti. La cisterna dove sbucava il tunnel, i macchinari e gran parte della struttura erano scomparsi. Al suo posto, usando come appoggio uno dei muri meglio conservati, i nuovi abitanti della zona avevano allestito una sorta di sito di stoccaggio e diversi carretti vuoti erano parcheggiati sotto una tettoia. Oltrepassammo le rovine e ci incamminammo lungo la via che portava alla zona abitata.

Ormai mancava poco per arrivare a destinazione. Sotto di noi c'era una strada di asfalto sbiadito e crepato in più punti, a sinistra e a destra solo deserto sino all'orizzonte e davanti il profilo della città. Quel posto, che la prima volta trovai desolato e spettrale, ora brulicava di vita. I blocchi stradali erano stati rimossi e diverse persone si muovevano dentro una selva di ponteggi per sistemare gli edifici danneggiati. Immettendoci nella via principale fui attirato dalla vista di due immense strutture metalliche, simili a braccia, che si muovevano su e giù con ritmo cadenzato. Proprio accanto a loro si trovavano le enormi cisterne dove prima sbucava il tunnel che attraversava la montagna. Rimasi a fissarle per qualche secondo, poi continuammo verso la piazza centrale.

Mentre attraversavamo la città alcune persone smisero di lavorare e ci osservarono, incuriosite. La stragrande maggioranza di loro indossava canottiere, quando non erano completamente a torso nudo, noi invece avevamo abiti ampi, con cappucci che ci coprivano la testa. Non era gente abituata al deserto, questo era palese. Probabilmente erano arrivati dentro qualche camion, oppure dentro un carro coperto, altrimenti avrebbero saputo bene che con scarsi ripari abiti così avrebbero evitato l'insolazione di giorno e l'assideramento la notte.

Dopo qualche momento ci ritrovammo davanti alla piazza principale, che era stata completamente trasformata. Tutti gli scheletri erano scomparsi, probabilmente seppelliti fuori città, e anche strutture di metallo e le trincee erano state rimosse. Pure l'albero morto che svettava al centro della piazza era sparito, lasciando solo un ceppo. Degli avvoltoi non c'era alcuna traccia.

«Amici miei! Cosa vi porta da queste parti?» ci chiese una voce alle nostre spalle. Tutti e tre ci voltammo indietro, dove Gabriel si avvicinava con passo sicuro. Anche lui era vestito leggero e aveva la fronte imperlata di sudore. La strana collana che distingueva gli adepti della loro religione dondolava a ogni passo, abbagliandoci quando il sole si rifletteva su di esso.

«Niente di buono, Gabriel» disse di rimando mio zio.

«Cosa succede?»

«Mio fratello è ferito. Lo abbiamo curato come potevamo, ma ha bisogno di medicine e le scorte del nostro appartamento sono state destinate ad... altri usi. Ne avete in più da darci? Possiamo pagarvi.»

Con un impercettibile movimento della mano toccò il borsello, facendo tintinnare lievemente le monete.

Gabriel, ignorandolo, guardò verso me e mio fratello, poi si rivolse nuovamente verso mio zio con aria pensierosa.

«D'accordo, seguimi.»

L'uomo si voltò verso destra e iniziò a camminare, con noi tre che lo seguivamo da dietro. Ci addentrammo in una via ben più disastrata di quella che avevamo attraversato per entrare, in cui gli edifici sembravano ben più danneggiati e un minor numero di uomini era impiegato a lavorare. Quasi ogni finestra era in frantumi, le porte si erano seccate al punto di spaccarsi e diversi muri erano crollati o in procinto di farlo, lasciando intravvedere la struttura interna. In quei pochi integri degli operai stavano iniziando a costruire i primi ponteggi, che crescevano sui muri come piante rampicanti. Probabilmente avevano iniziato concentrando i loro sforzi sulla via maestra e la piazza centrale, poi hanno continuato da li i restauri della città. All'improvviso un forte crac fendette l'aria. Ci voltammo appena in tempo per schivare un grosso pezzo di tetto che si era staccato da uno degli edifici che delimitavano la strada. Il calcestruzzo cadde a terra con violenza, facendo tremare la terra sotto i nostri piedi. Gabriel alzò lo sguardo furioso, puntando gli occhi scuri verso un uomo che stava sopra il tetto.

«Cretino! Hai rischiato di ucciderci!»

«Scusa, è stato un incidente» gli gridò il tipo di rimando.

«Un corno! Scendi subito da lì e lavora in un posto dove non puoi fare danni.»

Finito di sbraitare, Gabriel tornò sui suoi passi, dirigendosi verso un tipo robusto e vecchio quasi quanto lui, che stava coordinando il sollevamento di un mucchio di tubi metallici. Con ampi gesti delle braccia comandò di azionare la carrucola, poi notò il nostro gruppo.

«Gabriel! Chi sono quelli che stai accompagnando?»

«Persone bisognose di aiuto. Puoi dare il permesso a Jane di venire con noi?»

«Certamente.» L'uomo si girò verso l'edificio, mise le mani a imbuto davanti alla bocca e gridò :«Jane, vieni subito qui!»

Dopo un minuto circa comparve una donna sulla trentina, con capelli rossi legati in una coda e uno spesso strato di polvere bianca che la copriva quasi da capo a piedi. Si avvicinò al nostro gruppo e puntò dritto verso l'uomo che aveva urlato.

«Cosa vuoi?»

«Mi serve che aiuti queste persone.»

«D'accordo.»

L'anziano si rivolse a noi. «Lei è una dei nostri medici. Vi aiuterà con quello che vi serve. Io non posso allontanarmi da qui, devo rimanere per evitare che questi idioti combinino qualche disastro.»

Come a dimostrare la cosa, poco lontano da noi uno dei loro muratori lasciò cadere un secchio pieno di cemento, che si sparse ovunque. Quella specie di capo cantiere si voltò con la faccia paonazza e iniziò a sbraitare contro di lui. Mentre si allontanava, la donna si rivolse nuovamente verso di noi, più precisamente verso mio zio, e chiese :«Di cosa avete bisogno?»

«Mio fratello ha bisogno di cure mediche. Ha una ferita infetta.»

«Non lo so, potrebbero servire a qualcuno.»

«Non vi chiedo di donarceli, vi posso pagare.»

Ancora una volta ripeté quel gesto per far tintinnare le monete con sguardo ammiccante. Lei diede appena un occhiata nella direzione del suono, poi ci fece cenno di seguirla.

... 

Dopo aver tagliato per viuzze laterali, la maggior parte delle quali ostruite da sabbia, detriti e altro, ritornammo nella via da cui eravamo venuti. Qui lei svoltò a sinistra, dirigendosi verso un capannone con lunghe finestre orizzontali, rotte in più punti, e striature di vernice scrostata verde e gialla che spiccavano sul rosso brunito della ruggine. Davanti alla porta c'era solo un uomo armata di bastone a fare la guardia, che sembrava sul punto di addormentarsi dalla noia.

«Là dentro teniamo le nostre provviste» espose la donna, indicando il capanno. «Cibo, materiali, attrezzi e anche i medicinali che ti servono.»

«Mi sembra un tantino pericoloso mettere tutta questa roba in un unico luogo» disse mio zio.

«Qui offriamo ugualmente a tutti quello di cui hanno bisogno» rispose Gabriel, anticipando la donna. «Nessuno ha bisogno di rubare per sopravvivere.»

«Alcuni uomini non si accontentano di quello che hanno» continuò mio zio. «Inoltre non siete le uniche persone che vivono da queste parti.»

«Abbiamo le montagne a separarci dal resto del deserto. Inoltre Crossroad ha garantito la nostra protezione.»

Con un verso infastidito mio zio finì la conversazione e tornò a guardare avanti. All'improvviso, quasi mugugnando, sussurrò: «E chi vi proteggerà da Crossroad?»

Fui l'unico a sentirlo, essendo il più vicino a lui, e stavo per chiedergli cosa intendesse quando la comitiva si fermò davanti all'entrata. La nostra guida andò dalla guardia per dirgli qualcosa, poi tornò indietro e si rivolse a zio Baldwin.

«Ok, entra con me e dimmi esattamente cosa ha tuo fratello. Ti darò io quello che gli serve.»

«Va bene.» Nostro zio si voltò verso di noi, fulminandoci con lo sguardo. «Voi due rimanete qua fuori con Gabriel. Torno tra poco.»

La guardia aprì la porta e lasciò passare mio zio e la donna, poi la richiuse con un suono cigolante dovuto ai vecchi cardini. Era frustrante, perché alla fine non avevamo fatto davvero nulla per aiutare mio padre, e la frustrazione fece dilatare il tempo, mescolandosi alla noia di un'attesa insopportabile. Mio fratello non sembrava meno infastidito. Lui non era mai stato un tipo che se ne stava calmo ad aspettare, e ora sembrava un animale selvatico che era stato incatenato a un palo. Continuava a torturarsi l'orlo della mantella, attorcigliandoselo più volte sul dito, e di tanto in tanto si guardava intorno, come se cercasse qualcuno con cui fare a botte. 

Dopo un lasso di tempo che ci parve interminabile, la porta si riaprì e nostro zio uscì con una sacca di tela che conteneva le medicine per curare mio padre. Salutò calorosamente la donna che ci aveva aiutato mentre questa si dirigeva in fretta verso il cantiere, poi si rivolse a noi. 

«Ora che abbiamo ciò che ci serve dobbiamo tornare subito da mio fratello. Le ho detto cosa ha Robert e mi ha spiegato che più tempo passa e più rischia di non farcela. Non abbiamo tempo per riposare, andiamo!»


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