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Capitolo XII


Dopo che uscimmo dalla clinica le cose sembrarono andare bene. Mio padre si lamentò a causa del bruciore per gran parte della giornata, ma, dopo quello che aveva subito, sembrava una cosa normale. La sera stessa mia madre lavò l'occhio, o comunque la cavità dove esso era ospitato, con acqua lasciata a bollire e poi andammo a letto, sperando di esserci lasciati la cosa alle spalle. Il giorno dopo però mio padre continuò a sentire bruciore e prurito, senza percepire alcun sollievo. Il terzo giorno iniziò la febbre. La pelle attorno alla fasciatura era arrossata e di tanto in tanto gialle lacrime screziate di rosso colavano dalle bende. Non ho idea di come fosse sotto, ma mia madre, dopo averlo medicato, per poco non rigettò sul pavimento.

La mattina del quarto giorno dalla punizione arrivò zio Baldwin a controllarlo. Mia madre lo accolse in casa e, dopo frettolose cortesie di rito, lo fece entrare dentro la loro stanza. Io stavo poco oltre l'entrata, scarabocchiando sul terreno frasi senza senso. Quando mio padre aveva iniziato a stare male non me l'ero più sentita di uscire a giocare, quindi stavo per gran parte del tempo in casa, continuando a rimuginare e a colpevolizzarmi. Ero il responsabile di quella situazione, come potevo andare in giro allegramente mentre mio padre peggiorava sempre di più? 

Quando tornarono fuori mio zio parve pronto a staccare la testa a qualcuno e a piangere allo stesso tempo. Le labbra contratte mettevano a nudo i suoi denti fin quasi alle gengive, dando l'impressione che volesse mordere il primo che capitava. Dopo poco colpì con la mano chiusa a pugno la parete di ferro dietro di lui, facendo tremare tutta la casa.

«Maledizione!» esclamò.

«Cosa facciamo?» chiese mia madre, con voce nasale e impastata.

«Non lo so» disse, sedendosi per terra e passando le mani dalla fronte alla cima della testa. Accanto a lui mia madre era sull'orlo della disperazione, con una mano portata alla bocca e sottili rigagnoli d'acqua che, sgorgando dagli occhi castani, gli scendevano sulle guance.

Rimanemmo così per diversi secondi, senza dire una singola parola. All'improvviso, però, mi venne un'idea. Esitai un attimo, in fondo era partito tutto quanto da lì, ma alla fine la esposi.

«E se chiedessimo a quei tizi nella città abbandonata se hanno medicine?»

Mio zio alzò la testa e mi guardò dritto negli occhi. «Intendi quelli con quel culto strano?»

«Esatto.»

Questi si alzò di scatto, rischiando quasi di cadere nuovamente a terra per il movimento brusco, e si girò verso mia madre. «Potrebbe essere una buona idea.»

Lei, invece, rimase più cauta. «Perché pensi che abbiano le medicine?» chiese.

«Loro vengono dall'Est e sembrano conservare ancora delle antiche conoscenze» le risposi.

A quelle parole un'ombra di preoccupazione le passò in viso per qualche istante, ma poi se ne andò, veloce come era comparso.

«Ha senso, ma io devo rimanere con lui. Però tu puoi andare» disse, rivolta a mio zio.

«Voglio venire anch'io» annunciai.

All'improvviso mia sorella uscì come una furia dalla camera dei nostri genitori. Era dal giorno prima che era rimasta accanto a nostro padre e non aveva accennato ad andarsene, o comunque non fino a quel momento. Coi capelli arruffati e gli occhi rossi e gonfi per il pianto mi puntò contro il dito in maniera minacciosa.

«Come ti permetti di ritornare là dopo tutto quello che hai fatto!?» mi gridò addosso, avvicinandosi fino a qualche centimetro dalla faccia.

«Sophia!» 

«È colpa sua se papà si trova in queste condizioni, mamma.»

Il mio sguardo si soffermò sulle due. Entrambe portavano i segni della disperazione, piangendo e pregando per l'uomo che entrambe, seppur in modo diverso, amavano con tutto il loro cuore. Ma solo una mi accusò, giustamente, di quella situazione. Abbassai la testa per la vergogna, poi però la rialzai, sfidando nuovamente il suo sguardo.

«Comunque voglio andare» continuai, nonostante le invettive di mia sorella.

«Non se ne parla» disse mia madre.

«Ma...»

«Niente ma» troncò improvvisamente il discorso, non lasciandomi il tempo per parlare. «So che ti senti in colpa, ma l'unica cosa da fare è rimanere a casa e stare vicino a tuo padre. Nel frattempo sarà tuo zio ad andare là e cercare le medicine. Hai capito.»

Esitai qualche secondo, poi risposi «Sì, ma'».

...

Dopo quasi mezz'ora uscii di casa, approfittando del fatto che mia madre e mia sorella fossero rientrate a vegliare su mio padre. Ci voleva tempo per preparare un viaggio, anche se breve. Oltretutto, con la spedizione che non era ancora tornata, quasi nessuno aveva il permesso di uscire con i cavalli e sarebbe stato molto difficile ottenerne uno. Tuttavia, a quel punto, gli uomini dovevano già essere di ritorno e mio zio era uno che sapeva smuovere le acque per ottenere favori, specie se piccoli come un cavallo per andare dove voleva. Per certi versi mio zio era molto più pericoloso di mio padre, ma, a differenza sua, non era altrettanto amato. A dir la verità non erano pochi all'interno dell'accampamento che lo mal sopportavano e sarebbe stato molto più difficile per lui rivoltare la comunità contro Bill. Questo, però, non significava che lui lo ignorasse completamente, come scoprii in seguito.

Mentre stavo attraversando la piazza, la strada più diretta per raggiungere il cancello occidentale, Bill fece capolino dalla sua dimora e rimase fermo a godere della brezza che in quel momento stava scendendo dalle montagne. Il mio cuore sobbalzò e istintivamente mi allontanai dal suo sguardo. Ero solo un bambino, a lui non interessava nulla di me, ma quando la sua faccia rubiconda si girò nella mia direzione fui assalito dal terrore. Mentre iniziò a voltarsi dall'altra parte, però, la paura cedette il posto all'ira. Era stato lui a fare del male a mio padre e, arzillo com'era, pareva quasi bearsi della sua malattia. Portai la mano dentro alla tasca, stringendo con decisione il proiettile che mi era rimasto. Non era raro usare pallottole danneggiate o senza polvere come portafortuna, quindi non correvo particolari rischi a portarmelo appresso. La differenza, però, era che con quel proiettile gli avrei potuto sparare. Lo strinsi con tanta forza da farmi male mentre la rabbia montava sempre di più, immaginando di potergliela sparare nel bel mezzo dell'occhio e farlo esplodere, insieme ovviamente al resto della testa. 

Dopo un po' riuscii a ritrovare la calma e, mentre Bill si avvicinava a una delle guardie per parlargli, attraversai la piazza e continuai per la strada impolverata. Dopo poco arrivai al cancello, dove lo zio Baldwin stava salendo in groppa a un corsiero baio. Subito mi appiattii contro una delle travi laterali, dando solo una sbirciata. Subito dopo essersi sistemato sopra il cavallo arrivò un ragazzo che gli porse una bisaccia e un otre pieno d'acqua. 

Mentre tutti erano impegnati con lui sgusciai attraverso due baracche vicine e, cercando di non farmi vedere, mi avvicinai lentamente alle stalle. Passando oltre la porta principale, nonostante questa fosse aperta, percorsi il perimetro dell'edificio in lamiera per cercare una possibile entrata alternativa. Tastando palmo per palmo la struttura alla fine riuscii a trovare un punto in cui la piastra non sembrava piantata perfettamente nel terreno. Infilai la mano in una fessura tra quel pezzo e un'altro adiacente e tirai. La lamiera produsse un suono che sulle prime mi parve assordante e, preoccupato, mi guardai attorno. Per fortuna sembrava che il suono non avesse allarmato nessuno e, dopo aver creato uno spazio abbastanza grande, riuscii a entrare dentro.

Il basso e largo edificio rugginoso pareva più grande di quanto non fosse in realtà a causa dell'assenza dei cavalli. Della trentina di box, delimitati solo da una piastra metallica piantata trasversalmente sul terreno, solo quattro erano occupati. C'erano altre tre stalle poco più piccole vicino agli altri cancelli, ma anche quelle erano vuote a causa della spedizione. La maggior parte degli animali che erano rimasti poi erano o troppo giovani o troppo vecchi per fare un lavoro così pesante. Persino i pony erano stati portati via per essere utilizzati come bestie da soma.

Mi affacciai fuori dal muro del box dov'ero entrato, poi uscii e controllai le bestie rimaste. Uno era un puledro appena svezzato, troppo piccolo per essere cavalcato, l'altro un cavallo vecchio e cieco da un occhio. C'era anche un bello stallone falbo dorato, ma dovetti scartarlo subito: era il cavallo con cui era arrivato l'emissario di Crossroad. Già stavo facendo qualcosa che mi avrebbe messo in guai seri, non c'era bisogno di peggiorare ulteriormente la situazione. Inoltre non sarei neanche riuscito ad arrivare alle staffe.

Alla fine trovai una bella puledra scura, abbastanza grande da poter essere cavalcata ma piccola quel tanto da permettermi di salirle in groppa. Una volta scelta quella andai nella parete opposta all'entrata per cercare una sella da metterle, ma la maggior parte era troppo grande per lei. Alla fine ne trovai una di cuoio abbastanza piccola, probabilmente destinata ai pony.

«Cosa ci fai qui?» disse una voce familiare alle mie spalle. Mi voltai, trovando in controluce la magra sagoma di Chuck.

«Io... ecco...» provai ad arrabattare qualche scusa credibile, ma non mi venne in mente nulla. «Cosa ci fai tu qua?» gli chiesi di rimando, cercando di prendere tempo.

«Apprendistato» mi rispose con semplicità. Verso i tredici anni ogni ragazzo e ragazza dell'accampamento doveva provare qualche lavoro utile, per poi scegliere quello che lo convinceva di più. Non c'era una vera e propria regola fissa, semplicemente quando si trovava l'impiego più adatto si continuava a farlo, anche se di norma bisognava provarne almeno quattro prima di decidere. Non che cambiasse poi molto, tanto le vere ricchezze si ottenevano con le spedizioni a cui tutti partecipavano, indipendentemente dal lavoro che svolgevano. 

«Volevi seguire tuo zio?» mi incalzò Chuck.

«Ascolta» cedetti, «devo andare con lui. Fa' finta di non avermi visto.»

«Non posso, Donnie. Mi dispiace.»

D'un tratto dietro Chuck si mosse un'ombra, grande quasi quanto lui. Questi provò a voltarsi, ma non mosse un passo che venne colpito alla nuca con una pietra. Subito perse conoscenza e cadde a peso morto sul terreno che, per sua fortuna, era coperto di fieno. Una volta che fu a terra potei vedere meglio l'assalitore, che lasciò cadere il sasso sul pavimento. La sua corporatura, ancora infantile ma comunque piuttosto robusta, era contornata dai raggi dorati del sole che entravano dal portone.

«Ryan?!» chiesi, incredulo.

«E così intendevi svignartela. Eh, Donnie?» 

«Perché sei qui?» domandai.

«Stavo passando di qui quando vi ho sentito parlare» mi rispose, volgendo lo sguardo in alto a destra.

«Anche tu vuoi impedirmi di andare?»

«No» disse, poi si avvicinò a me. Il suo sguardo era fisso sulle selle e, quando mi fu accanto, si issò sulle spalle quella da pony che stavo prendendo. «Quale cavallo vuoi?»

«Quella puledra la giù» dissi, confuso.

«Bene.»

Portammo la sella dal cavallo e, mentre Ryan gliela metteva, controllai gli zoccoli per vedere in che condizioni erano. Notai, senza troppa sorpresa, che la puledra non era mai stata ferrata. Presi in considerazione la possibilità di farlo io, in fondo gli strumenti erano poco più in là, ma scartai subito l'idea e decisi di lasciarla com'era. Non sapevo come mettere i ferri a un cavallo e, anche fosse, ci avrei messo troppo tempo.

Una volta finito di sellarla e, con grande fatica, averle messo le briglie, mio fratello mi guardò dritto negli occhi e mi disse «Vengo con te».

Lo fissai, stupito da tale affermazione. Di tutte le proposte che poteva farmi era l'ultima a cui avrei mai pensato.

«Perché vuoi venire?» gli chiesi, ancora perplesso.

«Sei il mio fratellino, non posso lasciarti andare da solo» disse.

Si voltò verso il cavallo e saltò in sella. Provai a salire anch'io, ma poco prima di essere del tutto su sentii mio fratello sussurrare, quasi tra se e se «E poi non posso lasciare tutta la gloria al grande Donald».

Ancora confuso, finii di montare in groppa dietro di lui e questi diede un colpo ai fianchi dell'animale coi talloni, ma questi, non ancora abituato ai comandi, rimase immobile.

«Su, vai» provò a esortarla mio fratello.

Mi girai e, con la mano aperta, colpii il didietro del cavallo. Questi impennò e partì furiosamente al galoppo, rischiando di farmi cadere con la faccia a terra. In pochi secondi arrivammo davanti al cancello dove le guardie, prese alla sprovvista, si buttarono di lato e ci lasciarono passare senza problemi. In breve tempo l'accampamento divenne sempre più piccolo all'orizzonte, fino ad essere completamente coperto dalla polvere sollevata dall'animale.

«Questo cavallo è una scheggia!» esclamò mio fratello, euforico.

«Già. Speriamo solo che possa seminare gli altri.» 

«Hanno pochi cavalli. Probabilmente aspetteranno che sia nostro zio a riportarci a casa»

«Non sono del tutto convinto» espressi le mie perplessità.

«Altrimenti cosa ci faremmo qui?» chiese mio fratello. Lo guardai perplesso, evitando di rispondere. Alla fine mi voltai indietro e controllai che non ci stessero dietro, ignorando quella strana sensazione che mi aveva messo addosso la domanda.

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