Capitolo VI
Nonostante fossi andato a letto piuttosto tardi, il giorno dopo mi svegliai prima del resto della mia famiglia. Alla fine, approfittando del fatto che tutti erano impegnati a scaricare il carro, riuscii a nascondere la pistola e le munizioni nel mio cuscino, eludendo così il controllo dei miei parenti. Mi vestii in fretta, indossando una mantella pulita, poi nascosi l'arma nei vestiti. Dopo aver fatto colazione con qualche boccone di pane secco e altri avanzi di ieri, uscii di casa e iniziai a camminare per le vie polverose dell'accampamento. Il sole appena sorto fendeva coi suoi raggi l'aria fresca del mattino e gettava lunghe ombre sul terreno, tingendo il cielo con sfumature arancio-giallognole. Per le strade, specie in prossimità del bar, era più facile trovare ritardatari addormentati tra la sporcizia che mattinieri appena svegli. Figuri, anche se non mancavano donne, che la sera prima si erano attardati a parlare, tra una bottiglia e l'altra, di quello che era successo.
Andai nella casa di Abdon, un'abitazione piuttosto... "modesta", diciamo così, fatta di lamiere striate di rosso e tenuta insieme da chiodi corrosi, sputo e tanta buona volontà. Scostai il telo plastificato che divideva l'interno dalla strada ed entrai nell'unica stanza che fungeva da camera da letto e cucina. Trovai lui e suo padre addormentati in un unico letto di stracci, le lenzuola così scomposte da far pensare che si fossero rigirati più volte nel sonno. Il primo era sdraiato a pancia in giù, con la faccia lentigginosa rivolta verso di me e le gambe divaricate, mentre l'altro era girato dalla parte opposta, con la faccia barbuta semisepolta nel cuscino.
Arrivato al suo fianco gli afferrai la spalla e lo scossi, facendo attenzione a non disturbare il padre che giaceva poco lontano da lui. Di colpo Abdon si svegliò, emettendo un leggero verso di risucchio e guardandomi intontito, cercando di ricordarsi dove si trovasse e chi io fossi.
«Donnie? Che cosa ci fai qui? È presto, lasciami dormire» mi disse.
«Ab, devo farti vedere una cosa.»
«Cosa?»
«Non qui» gli sussurrai, guardando il padre, che stava dormendo rivolta dall'altra parte. «Dobbiamo uscire dall'accampamento.»
«Lasciami dormire» si lamentò Abdon, voltandosi dall'altra parte. Lo presi e lo scossi di nuovo, provocandogli qualche sussulto e dei grugniti infastiditi.
«Che cavolo c'è di così importante da svegliarmi a quest'ora?»
Scostai la mantella, rivelando la pistola che nascondevo nei pantaloni. Il suo volto mutò di colpo, come se tutta la stanchezza si fosse dileguata alla vista dell'arma. Mi guardò con occhi straniti e decise finalmente di alzarsi, non prima però di sincerarsi che il padre stesse ancora dormendo, ma il respiro non dava adito a dubbi. Una volta vestito uscimmo dalla sua casa e ci dirigemmo verso la porta, incrociando più volte guardie che tornavano a casa. Tutti e due rimanemmo in un silenzio tombale, cercando di concentrarci sulla strada davanti a noi. Eravamo entrambi consapevoli del rischio che stavamo correndo e una parola di troppo ci avrebbe cacciato in un mare di guai.
Nel nostro accampamento, all'incirca ogni sei ore, la guardia veniva cambiata. Bisognava sempre stare molto attenti perché il deserto era una terra di approfittatori ed era sempre necessario guardarsi le spalle da possibili attaccanti. La mattina presto, però, gli uomini che tornavano ai loro letti erano assonnati e quelli che gli davano il cambio ancora intontiti dalla sveglia, così c'era uno certo spazio di tempo in cui si formavano grossi buchi nella griglia di sicurezza della base. Non abbastanza da permettere al nemico di attaccarci, ma il tempo sufficiente per permettere a due bambini di uscire. A dirla tutta l'accampamento non era quasi mai completamente sigillato, c'era un viavai continuo di persone che attraversavano le porte da ambo i lati, tra mercanti che venivano a commerciare, donne che andavano a rimpinguare le riserve idriche e manipoli di uomini che andavano in spedizione. Tuttavia due bambini che uscivano così presto e senza un adulto avrebbero destato qualche perplessità e preferivo evitare le domande.
Attraversammo l'architrave di legno e ci dirigemmo a sud, accompagnati solo dalle figure nere che noi proiettavamo sul terreno arido. Dopo un po' ci sentimmo abbastanza al sicuro da iniziare a parlare. Ormai nessuno ci poteva sentire e, anche se ci avesse visto qualche guardia, eravamo troppo lontani per spingerle a scomodarsi per riprenderci, in fondo, se ci succedeva qualcosa, non era affare loro.
«Dove l'hai presa quella pistola?» mi chiese Abdon, stringendo i denti per evitare di alzare la voce.
«L'ho trovata nella città che io e mio fratello abbiamo visitato, all'interno dell'ufficio del sindaco. Ero da solo e così l'ho presa.»
«Cos'è un ufficio, e cosa è un sindaco?» mi domandò, facendo una faccia perplessa.
«Il sindaco mi sembra sia il capo di una città. Non so cosa sia un ufficio.»
«Come facevi allora a sapere che era quello?»
«Me lo ha detto mio zio.»
«E come faceva a saperlo lui?»
Bella domanda. La feci a mio zio quando mi trovavo nel condotto e mentre tornavamo a cavallo, ma non mi disse nulla e quindi non sapevo cosa rispondere. Alla fine rimanemmo in silenzio per il resto del tragitto.
...
Dopo diversi minuti arrivammo finalmente dove lo volevo portare. Davanti a noi si apriva una larga buca nera, con una scala di legno che scendeva giù, nel buio. Alcuni piccoli arbusti crescevano attorno a essa, attecchendo sui resti di una vecchia staccionata rotta in più punti, e un argano di legno, anch'esso molto vecchio, si affacciava pericolosamente in bilico sul ciglio del buco. Dalla carrucola posta all'estremità del braccio pendeva placidamente una corda alla cui estremità, dove doveva esserci attaccata la piattaforma per il carico, si trovava solo un moncherino di fibre sfilacciate. All'improvviso un'alitata di vento ci colpì il viso con un forte odore di zolfo, proveniente da quella bocca marcia lasciata all'incuria per decenni.
«Cosa ci facciamo qui?» mi chiese Abdon, evidentemente a disagio.
«Siamo venuti qui per provare quest'arma, che domande.»
«Cosa? Ma così ci sentiranno tutti!»
«Non ho intenzione di mettermi a sparare qua fuori.»
«Non vorrai dire...» Lo sguardo di Abdon si posò qualche attimo sul buco, poi tornò verso di me. « ... che andremo lì sotto?»
«Certamente. Questo posto è abbandonato da tempo, non ci disturberà nessuno.»
«Non mi sento molto sicuro a stare qui.»
«Ab, con questa siamo più al sicuro che in mezzo a una decina di adulti» gli dissi, estraendo la pistola.
«Io mi sento comunque a disagio.»
«Se hai tanta paura, allora puoi rimanere qua da solo. Io scendo.»
«No!» esclamò Ab, fermandomi.
«Allora, vieni o no?» gli chiesi.
Dopo qualche secondo di incertezza, volse lo sguardo a terra, ormai vinto.
«Va bene, vengo. Ma se ci scoprono dico che è tutta colpa tua.»
Detto questo, mi voltai di nuovo verso il buco e iniziai a scendere la vecchia scala di legno, seguito a ruota da Abdon.
...
La discesa non fu per niente piacevole. L'unica fonte di luce, proveniente dal buco soprastante, si affievoliva man mano che scendevamo, ogni nostro passo faceva scricchiolare in maniera inquietante i pioli di legno e le pareti sembravano stringersi sempre di più su di noi. Non mi meravigliai sentendo il tremolio dei piedi di Abdon che si propagava per la scala di legno.
Alla fine arrivammo in fondo e saltammo sui resti della piattaforma di carico, che in origine si trovava attaccata all'argano. La miniera di zolfo si estendeva in cunicoli e gallerie per alcune centinaia di metri nella nuda roccia ma, non essendoci nulla per illuminare l'ambiente, una volta toccato il suolo non potevamo vedere oltre il flebile cono di luce che proveniva dall'entrata. Da una tasca posta all'interno della mantella estrassi una torcia elettrica e la accesi, illuminando la zona con la luce bianca del neon. Delle precedenti attività, che da molto tempo erano state spostate in una miniera più vicina all'accampamento, rimanevano solo poche casse vuote e bottiglie di birra rotte, sparpagliate sul terreno di pietra.
«Ab, puoi tenermi la torcia? Puntala verso quella cassa là.»
«Va bene, Donnie.»
Una volta che gli ebbi dato la torcia afferrai la pistola che tenevo nell'orlo dei pantaloni, poi la presi anche con l'altra mano. Tesi le braccia in avanti, sentendo il peso dell'arma che faceva perno sui polsi e sui gomiti, alzai il cane col pollice della mano destra e avvolsi il grilletto col mio indice. Dopo un profondo respiro, premetti il grilletto. Sentii il clic del cane che colpiva il tamburo, ma non partì nessun colpo dall'arma.
«Che succede?» mi chiese Abdon.
«Non lo so, fammi controllare.»
Rigirai la pistola fra le mani, cercando qualche indizio che mi potesse indicare il problema. Prima controllai la canna, cercando eventuali otturazioni, poi guardai il grilletto e lo premetti più volte per capire se e dove non funzionava. Prima di arrivare al cane trovai cosa non andava aprendo il tamburo: semplicemente l'arma era scarica. Aprii una delle scatoline che avevo trovato insieme alla pistola e vi misi dentro sei proiettili, poi richiusi il tutto. Puntai nuovamente l'arma verso la cassa, alzai il cane e rimisi il dito sul grilletto. Questa volta però, quando lo premetti, lo scoppio dello sparo fu così potente da farmi male alle orecchie. Il rinculo della pistola, molto più forte di quanto mi fossi aspettato, per poco non mi fece volare via l'arma dalle mani. Mi voltai verso Abdon, che provò a dirmi qualcosa, ma i suoni mi entravano distorti e ovattati e non capii cosa stesse dicendo. Dopo qualche secondo finalmente ricominciai a sentire, seppure i suoni fossero parzialmente coperti dal fischio delle mie orecchie.
«Porca miseria, Donnie» mi stava dicendo Abdon. «Quella cosa è assordante. Ho paura che possano sentirci lo stesso.»
«Ne dubito, amico» gli risposi, quasi urlandogli. «Questo posto è abbandonato da anni e siamo ad almeno venti metri di profondità. Per questo ho deciso di venire qua.»
Mi voltai verso il punto in cui avevo sparato, ma si vedeva soltanto buio pesto.
«Ab, puoi puntare di nuovo la torcia là?»
«Certo.»
Subito il cono di luce della torcia illuminò nuovamente l'ambiente. La cassa era stata spostata di qualche centimetro dal colpo. Di una delle assi rimanevano solo due mozziconi attaccati allo scheletro e schegge di legno erano sparse sul pavimento. Pure l'asse dietro era stata colpita, seppure di striscio, lasciando un mezzo buco irregolare.
«Cavolo, che forza. Voglio riprovare.»
«Se continuiamo così però diventeremo sordi» ribatté il mio amico.
«Ok, fammi un attimo pensare.»
Rimuginai per un po' lì al buio, girando avanti e indietro per aiutarmi a riflettere. Alla fine ebbi un'idea. Strappai alcuni pezzi di tessuto dall'orlo del mio mantello, già comunque sfilacciato e rammendato più volte, poi li misi in bocca per inzupparli di saliva. Una volta completamente bagnati li infilai dentro le mie orecchie. La sensazione di quella cosa umida che veniva spinta dentro, fin quasi al timpano, mi fece scendere i brividi lungo la schiena, ma ora i suoni mi arrivavano attutiti. Abdon, nonostante la repulsione, alla fine fece lo stesso.
Una volta finita la poco piacevole operazione tesi nuovamente il braccio e sparai una, due, tre volte alla cassa. Col quarto colpo la distrussi completamente, facendo schizzare pezzi di legno e chiodi arrugginiti in ogni direzione. Rimaneva solo un colpo nel tamburo e decisi di lasciarlo a Abdon. Tesi il braccio verso di lui, tenendo tutte e cinque le dita nel calcio per evitare che partisse per sbaglio un colpo.
«Non lo so» mi disse, con parole che mi giungevano confuse venendo filtrate dai tappi.
«Non fare il cagasotto. Vedi quella pala laggiù?» gli chiesi, indicando un mozzicone di legno con attaccato un pezzo di ferro arrugginito. «Prova a colpirla.»
«Non mi sento molto sicuro.»
«Dai, finché punti la canna davanti a te non ti succederà niente. Tieni solo stretta la pistola.»
«Va bene, ok.»
Abdon puntò la pistola verso la pala, ma le braccia e le mani gli tremavano per l'agitazione. Alla fine riuscì a premere il grilletto, ma il contraccolpo gli fece volare via la pistola dalle mani. Per fortuna questa non lo colpì in volto e cadde alle sue spalle, sfiorandogli appena l'orecchio e causandogli solo uno spavento. A quella scena mi piegai in due dalle risate, facendo arrossire il mio amico per la vergogna.
...
Dopo aver sparato altri sei colpi di pistola a quello che trovavamo nella caverna decidemmo di andarcene, nascondendo l'arma e le scatole di munizioni tra due massi. Dalla città fantasma avevo preso solo tre scatole di munizioni da trenta l'uno e ne avevamo usate una dozzina, quindi era meglio lasciare l'arma lì e tornare solo di tanto in tanto, in modo da farci durare i proiettili il più possibile. Era uno spreco, ogni proiettile poteva significare un nemico in meno a cui badare, ma era anche vero che se mancavi una cassa di legno questa poi non provava ad accoltellarti ed era meglio fare pratica. La verità è che a me non fregava nulla di tutto questo e volevo soltanto divertirmi a sparare.
Una volta nascosta l'arma uscimmo fuori dalla miniera e ci incamminammo verso l'accampamento. Le ombre che ci avevano accompagnato all'andata si erano molto accorciate, segno che era passato più tempo di quanto avessi programmato. Arrivati davanti alla porta sud una guardia si avvicinò a noi con la faccia accigliata.
«Donald; Abdon; dove diavolo eravate?»
«In giro.»
«Ascolta» disse, rivolgendosi direttamente a me «tua madre è venuta a chiedermi di te. Ti sta cercando.»
Quella notizia non mi piacque per niente. Il motivo per cui ero uscito così presto era proprio per ritornare prima che si svegliassero, ma io e Abdon avevamo perso completamente la cognizione del tempo e mia madre si era accorta della mia assenza.
«Va bene, andrò subito da lei. Buona giornata» gli risposi, cercando di nascondere il tremito della mia voce.
«Lo sarà se non dovrò sorbirmi di nuovo i suoi piagnistei.»
Io e Abdon ci dividemmo e tornammo entrambi alle rispettive case. Una volta arrivato alla mia la trovai vuota e, non sapendo dove fossero finiti tutti gli altri, fui costretto ad aspettarli, cercando di prepararmi psicologicamente alla strigliata che mi stava aspettando. Mentre il tempo passava iniziai a sentire una certa fame e mi misi a rovistare nell'angolo della cucina, in cerca di qualcosa da masticare nell'attesa. Aprii alcune casse, cercai tra i cassetti di un soprammobile e controllai tra i resti della cena di ieri sera. Intanto che facevo questo la porta si spalancò e mia madre entrò come una furia.
«Donald!» mi apostrofò con rabbia.
«Mamma, sta calma.»
«Dove eri finito?»
«Ero con Abdon. Stavamo solo giocando fuori.»
«Senza dirmi niente? Come ti è saltato in mente di uscire dall'accampamento senza chiedermi il permesso?»
Mentre mi urlava contro io arretrai di qualche passo e finii per inciampare sul barile bucherellato dove mia madre cucinava. Caddi, portando insieme a me braci spente e cenere che si sparsero per terra.
«Scusa, rimetto a posto io» dissi, cercando di rimettere i pezzi di legno annerito dentro il braciere. Come per ogni bambino a questo mondo lo sguardo arrabbiato di mia madre mi terrorizzò completamente, finendo per farmi agire in modo goffo e impacciato.
Ad un certo punto la mia mano si posò su un pezzo di carta. I bordi erano bruciacchiati, ma sulla carta ingiallita spiccavano delle linee tracciate con un carboncino. Le osservai meglio, cercando di ricordare dove avevo già viste, quando all'improvviso capii cos'erano: lettere.
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